Ecco una selezione curata di film indipendenti che incarnano perfettamente il biopic d’autore, opere che trascendono la semplice cronaca per diventare esplorazioni viscerali dell’identità, dell’arte e della condizione umana. Lontano dalle formule rassicuranti e dagli archi narrativi edificanti delle produzioni mainstream, il cinema indipendente si riappropria del racconto biografico, trasformandolo in un laboratorio di sperimentazione formale e di verità psicologica.
Questi film non si limitano a chiedere “cosa è successo?”, ma scavano più a fondo, interrogandosi su “cosa si provava?”. In questo cinema, la forma diventa contenuto: la struttura narrativa, la fotografia, il montaggio non sono semplici strumenti, ma diventano essi stessi parte integrante della biografia. Si abbandona la pretesa di una verità storica oggettiva per abbracciare una verità emotiva più profonda e, in definitiva, più onesta. Questa è una guida a trenta opere che non cercano di costruire un monumento, ma di catturare un’anima, con tutte le sue fratture, le sue contraddizioni e la sua irriducibile, complessa bellezza.
Mishima: A Life in Four Chapters (1985)
Il film esplora l’ultimo giorno di vita del celebre scrittore giapponese Yukio Mishima, intrecciando questo evento con flashback in bianco e nero della sua vita passata e tre abbaglianti drammatizzazioni a colori tratte dai suoi romanzi. La narrazione culmina con il suo tentativo di colpo di stato e il successivo suicidio rituale, o seppuku.
Più che un biopic, il capolavoro di Paul Schrader è una sorta di seppuku cinematografico. Il regista non cerca di spiegare il gesto finale di Mishima, ma di renderlo comprensibile dall’interno, adottando la stessa filosofia del suo soggetto. Per Mishima, la vita non era altro che una performance artistica, un percorso verso l’unione perfetta di “penna e spada”. Schrader traduce questa visione in una struttura filmica che è essa stessa un’opera d’arte ritualizzata. Le stilizzazioni teatrali, quasi da teatro Nō, e la magnifica partitura di Philip Glass non sono vezzi estetici, ma il linguaggio necessario per raccontare un uomo che ha trasformato la propria esistenza nel suo ultimo, violento capolavoro.
I’m Not There (2007)
Sei attori diversi, tra cui Christian Bale, Cate Blanchett, Marcus Carl Franklin, Richard Gere, Heath Ledger e Ben Whishaw, incarnano differenti aspetti della vita e della musica di Bob Dylan. Il film abbandona una narrazione lineare per esplorare le molteplici persone pubbliche e le mitologie che circondano l’enigmatico cantautore, dal folk singer al profeta del rock.
Il film di Todd Haynes è la più radicale e onesta confutazione della promessa centrale del biopic: quella di trovare e rivelare il “vero” individuo dietro la maschera pubblica. Haynes sostiene, con audacia intellettuale, che nel caso di una figura come Dylan non esiste un “vero” individuo da trovare, ma solo un collage di miti, performance e riflessi culturali. L’uso di sei attori non è un semplice gimmick, ma una dichiarazione di intenti: un singolo attore che tentasse di dare coerenza a una figura così mutevole sarebbe una menzogna. Il film diventa un gioco intertestuale, un puzzle che non mostra Dylan, ma il processo stesso di creazione del mito di Dylan.
Thirty Two Short Films About Glenn Gould (1993)
Ispirato nella sua struttura dalle “Variazioni Goldberg” di Bach, il film delinea un ritratto del geniale e iconoclasta pianista canadese Glenn Gould attraverso trentadue brevi vignette. Questi frammenti mescolano ricostruzioni drammatiche, interviste documentarie a persone che lo conoscevano, sequenze animate e riflessioni astratte, componendo un mosaico della sua vita e della sua arte.
La vita di Glenn Gould non possedeva la drammaticità convenzionale richiesta da un biopic tradizionale; il suo momento più significativo fu un atto di sottrazione, il ritiro dalla scena concertistica per dedicarsi esclusivamente al mondo dello studio di registrazione. Il regista François Girard comprende che una narrazione lineare sarebbe inadeguata e sceglie una forma che rispecchia la mente del suo soggetto: analitica, frammentata e musicale. Le trentadue vignette funzionano come variazioni su un tema, esplorando le sue ossessioni, il suo umorismo e la sua filosofia artistica. Il risultato è un’idea della sua vita molto più ricca di quella che un film convenzionale avrebbe potuto offrire, perché privilegia il suo mondo interiore rispetto agli eventi esterni.
Bronson (2008)
Il film racconta la storia di Michael Peterson, un uomo che, dopo una prima condanna a sette anni di carcere, trascorre trent’anni in isolamento a causa della sua indole violenta. Durante la detenzione, Peterson si reinventa, creando l’alter ego Charles Bronson e trasformando la sua vita in una performance brutale e artistica per un pubblico immaginario.
Il film di Nicolas Winding Refn non è interessato all’uomo Michael Peterson, ma alla violenta e teatrale creazione della persona “Charles Bronson. L’approccio è operistico, quasi brechtiano: Bronson, interpretato da un Tom Hardy monumentale, si esibisce su un palcoscenico, narrando la propria leggenda. La violenza non è rappresentata con crudo realismo, ma è stilizzata, coreografata e accompagnata da musica classica, trasformandosi in un atto estetico. Refn suggerisce che per alcuni individui, la violenza non è semplicemente un’azione, ma una disperata forma di espressione artistica, una performance estrema in cerca di un pubblico.
Sid and Nancy (1986)
Il film narra la tumultuosa e autodistruttiva relazione tra Sid Vicious, bassista dei Sex Pistols, e la sua groupie americana, Nancy Spungen. La loro storia d’amore, alimentata dall’eroina, li conduce in una spirale discendente di dipendenza e disperazione, che culmina con la tragica morte di Nancy al Chelsea Hotel di New York e la successiva overdose di Sid.
Alex Cox sceglie deliberatamente di non girare una cronaca fattuale, ma di mettere in scena il mito, la leggenda pulp di Sid e Nancy. Il film cattura l’essenza del punk non documentandone la storia, ma adottandone l’etica: è una narrazione disordinata, romantica e tragica che, pur con le sue inesattezze storiche, risulta emotivamente più “vera” della squallida realtà. La fotografia di Roger Deakins trova momenti di bellezza lirica tra i rifiuti, elevando la loro storia a un’iconica tragedia d’amore. Cox non racconta la loro vita, ma l’idea che il mondo si è fatto di loro, e in questo risiede la sua brutale onestà.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
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American Splendor (2003)
Questo film racconta la vita di Harvey Pekar, un archivista di Cleveland che diventa un’icona dell’underground trasformando le frustrazioni e le banalità della sua vita quotidiana in una serie a fumetti autobiografica. La pellicola mescola la finzione, con Paul Giamatti nel ruolo di Pekar, con apparizioni del vero Harvey, animazioni e filmati documentari.
American Splendor è il tributo definitivo al suo soggetto perché ne adotta la stessa, identica filosofia estetica. Un biopic convenzionale su un “impiegato archivista” sarebbe stato un paradosso. I registi Shari Springer Berman e Robert Pulcini risolvono il problema strutturando il film come un numero del fumetto di Pekar. Stratificano diversi livelli di realtà — la performance di Giamatti, i commenti del vero Harvey, le vignette animate — proprio come Pekar utilizzava diversi artisti per illustrare le sue storie. Questo approccio immersivo non si limita a raccontare la storia di Pekar, ma convalida il suo intero progetto artistico, dimostrando che uno sguardo non filtrato sulla vita di tutti i giorni può essere cinema avvincente, divertente e profondamente toccante.
Control (2007)
Girato in un bianco e nero netto e granuloso, il film ripercorre gli ultimi anni di vita di Ian Curtis, enigmatico frontman dei Joy Division. La narrazione esplora il suo matrimonio, la paternità, la sua relazione extraconiugale, le sue crescenti crisi epilettiche e la pressione schiacciante della fama, che lo condussero al suicidio alla vigilia del primo tour americano della band.
La scelta del bianco e nero da parte del regista Anton Corbijn, fotografo che immortalò la band ai suoi esordi, non è un semplice vezzo stilistico. È la traduzione visiva del suono dei Joy Division e dello stato d’animo di Ian Curtis: un paesaggio emotivo desolato, claustrofobico e disperatamente mondano, quello della Macclesfield di fine anni ’70. Il film evita i cliché del biopic rock per concentrarsi su un ritratto intimo e silenzioso di un genio torturato. La fotografia austera e la performance trattenuta di Sam Riley catturano perfettamente l’angoscia esistenziale di un uomo per sempre tagliato fuori dal resto del mondo.
Persepolis (2007)
Basato sull’omonima graphic novel autobiografica, il film racconta la storia di Marjane Satrapi, una giovane ragazza iraniana che cresce durante la Rivoluzione Islamica. Attraverso i suoi occhi, assistiamo alla caduta dello Scià, all’ascesa di un regime repressivo e alla sua successiva esperienza di esilio in Europa, un percorso di formazione segnato da ribellione, perdita e ricerca di identità.
L’animazione, con il suo stile grafico essenziale e quasi interamente in bianco e nero, si rivela lo strumento perfetto per un’opera di memoria personale e politica. Persepolis non è solo la storia di una ragazza, ma la cronaca di una nazione vista attraverso una lente soggettiva e femminista. Il film crea una contro-narrazione potente rispetto alle rappresentazioni mainstream dell’Iran, umanizzando un popolo e una cultura spesso ridotti a stereotipi. L’animazione permette a Satrapi di fondere il personale e il politico con una libertà che il cinema dal vivo non avrebbe consentito, trasformando i suoi ricordi in un’epopea universale sulla libertà e l’identità.
The Diving Bell and the Butterfly (2007)
Il film è la vera storia di Jean-Dominique Bauby, caporedattore della rivista francese Elle, che nel 1995 viene colpito da un ictus che lo lascia quasi completamente paralizzato, affetto dalla sindrome locked-in. L’unica cosa che può muovere è la palpebra sinistra, attraverso la quale detta un intero libro di memorie, comunicando lettera per lettera.
Il regista Julian Schnabel, pittore prima che cineasta, compie un’impresa cinematografica straordinaria. Per gran parte del film, la macchina da presa adotta il punto di vista soggettivo di Bauby, costringendo lo spettatore a vivere la sua stessa prigionia fisica. Vediamo il mondo attraverso un occhio sfocato, sentiamo i suoi pensieri, condividiamo le sue fantasie e i suoi ricordi. Questa scelta radicale, resa possibile da una produzione indipendente, non è un virtuosismo, ma l’unico modo onesto per raccontare una coscienza intrappolata in un corpo immobile. Il film diventa un’esperienza immersiva che celebra il potere inarrestabile dell’immaginazione e della memoria.
24 Hour Party People (2002)
Attraverso la figura del presentatore televisivo e fondatore della Factory Records, Tony Wilson, il film ripercorre quindici anni di storia musicale di Manchester. Dal punk dei Sex Pistols al post-punk dei Joy Division, fino alla scena rave degli Happy Mondays, Wilson, narratore inaffidabile, rompe costantemente la quarta parete per guidarci in un caotico e ironico viaggio.
Questo non è il biopic di un uomo, ma di un’intera scena musicale. Michael Winterbottom adotta un approccio postmoderno che mescola fatti, miti, filmati d’archivio e cameo di personaggi reali. Il protagonista, Tony Wilson, si rivolge direttamente al pubblico, commenta le imprecisioni del film e ci ricorda costantemente che stiamo guardando una costruzione, una leggenda. Questa struttura instabile e auto-consapevole è il modo perfetto per catturare l’energia anarchica e l’ethos “do it yourself” della Factory Records, dove il caos era parte integrante del processo creativo.
Basquiat (1996)
Il film ripercorre la fulminea ascesa e la tragica caduta di Jean-Michel Basquiat, da artista di strada a stella del mondo dell’arte newyorkese degli anni ’80. La narrazione esplora la sua creatività esplosiva, le sue relazioni, la sua amicizia con Andy Warhol e la sua lotta con la fama, il razzismo e la dipendenza da eroina che lo portò alla morte a soli 27 anni.
Essendo lui stesso un pittore di spicco della scena artistica degli anni ’80, il regista Julian Schnabel offre un ritratto dall’interno, soggettivo e intriso di malinconia. Più che una cronaca biografica, il film è un’elegia per un amico e un’epoca. Schnabel non si concentra tanto sui fatti, quanto sull’esperienza emotiva di essere un giovane artista nero catapultato in un mondo prevalentemente bianco e spietato. Utilizzando tecniche di montaggio evocative e una colonna sonora superba, il film ci immerge nel mondo interiore di Basquiat, esplorando il suo bisogno di espressione e la sua alienazione.
Crumb (1994)
Questo documentario di Terry Zwigoff offre un ritratto intimo e senza filtri del controverso artista underground Robert Crumb. Il film non si limita a esplorare la sua arte provocatoria, ma si addentra profondamente nella sua vita familiare, rivelando i traumi e le nevrosi che legano Robert ai suoi due fratelli, entrambi artisti reclusi e mentalmente disturbati.
Crumb trascende il documentario biografico per diventare uno studio psicologico di rara potenza. La vicinanza di Zwigoff al suo soggetto, ottenuta in anni di riprese, permette un’intimità cruda e a tratti sconvolgente. Il film non giudica, ma osserva, rivelando come il genio artistico di R. Crumb sia inestricabilmente legato a un profondo trauma familiare. È un’opera che esplora le radici della creatività nel dolore, suggerendo che per i fratelli Crumb, l’arte non è stata una scelta, ma l’unica, disperata via di fuga da una realtà insostenibile.
Capote (2005)
Il film si concentra sul periodo in cui lo scrittore Truman Capote ricerca e scrive il suo capolavoro di “non-fiction novel”, A sangue freddo. Mentre indaga sul brutale omicidio della famiglia Clutter in Kansas, Capote sviluppa un rapporto complesso e manipolatorio con uno degli assassini, Perry Smith, un legame che lo porterà al successo ma lo corroderà moralmente.
Lontano dal sensazionalismo, il film di Bennett Miller è uno studio psicologico freddo e misurato sulla corrosione morale che può accompagnare il processo creativo. La produzione indipendente ha permesso un approccio che privilegia il personaggio rispetto alla cronaca. La performance monumentale di Philip Seymour Hoffman non è una semplice imitazione, ma un’immersione totale nell’anima di un uomo la cui ambizione lo consuma. La regia sobria e la fotografia desaturata creano un’atmosfera opprimente, riflettendo il paesaggio emotivo di Capote mentre si addentra in un abisso etico per ottenere la sua storia.
Last Days (2005)
Ispirato agli ultimi giorni di vita di Kurt Cobain, il film segue Blake, un musicista rock alienato e introverso, mentre vaga senza meta nella sua grande casa fatiscente e nei boschi circostanti. Evitando amici, manager e responsabilità, Blake si muove in uno stato di torpore, mormorando frammenti di canzoni e sfuggendo a ogni tentativo di contatto umano.
Gus Van Sant conclude la sua “Trilogia della Morte” con un’opera minimalista e astratta che rifiuta ogni spiegazione psicologica o narrativa convenzionale. Il film non è “su” Kurt Cobain, ma è un’evocazione del suo stato mentale. Lo stile osservazionale, con lunghi piani sequenza e dialoghi quasi inesistenti, ci immerge nel vuoto e nell’isolamento del protagonista. È un ritratto non giudicante, quasi un’esperienza sensoriale, del silenzioso e solitario viaggio verso la fine, reso possibile solo dalla libertà del cinema indipendente.
My Friend Dahmer (2017)
Basato sulla graphic novel autobiografica di Derf Backderf, il film racconta l’adolescenza del futuro serial killer Jeffrey Dahmer dal punto di vista di un suo compagno di liceo. Negli anni ’70 in Ohio, un giovane Dahmer lotta con una famiglia disfunzionale, l’isolamento sociale e le sue crescenti e macabre ossessioni, prima di commettere il suo primo omicidio.
Il punto di forza del film risiede nella sua prospettiva unica. Raccontando la storia attraverso gli occhi di un amico, il film evita di creare un “mostro” e presenta invece un ritratto umanizzante, seppur profondamente inquietante, di un adolescente disturbato. La produzione indipendente ha permesso un approccio sfumato, che esplora i segnali d’allarme e l’ambiente che hanno contribuito a formare Dahmer, senza mai giustificarlo. La performance di Ross Lynch è straordinaria nel catturare la goffaggine e la crescente minaccia di un giovane la cui interiorità sta marcendo.
An Angel at My Table (1990)
Tratto dalla trilogia autobiografica della scrittrice neozelandese Janet Frame, il film ripercorre la sua vita, dall’infanzia difficile alla diagnosi errata di schizofrenia che la portò a trascorrere otto anni in istituti psichiatrici. La sua salvezza fu la scrittura, il cui successo le permise di sfuggire a una lobotomia e di trovare finalmente la sua voce nel mondo.
Originariamente prodotta come miniserie televisiva, l’opera di Jane Campion ha la portata epica e la profondità intima di un grande romanzo. Lo status di coproduzione internazionale ha consentito una narrazione tentacolare che segue Frame attraverso decenni e continenti. La regia di Campion è visivamente poetica e profondamente empatica, concentrandosi sulla soggettività femminile e sulla lotta per l’autodeterminazione. Il film è un potente tributo alla resilienza dello spirito umano e al potere salvifico dell’arte, raccontato con una sensibilità che solo il cinema d’autore può offrire.
Love & Mercy (2014)
Il film esplora la vita del leader dei Beach Boys, Brian Wilson, attraverso due periodi distinti. Negli anni ’60, un giovane Wilson (Paul Dano) lotta per realizzare il suo capolavoro, Pet Sounds, mentre la sua salute mentale vacilla. Negli anni ’80, un Wilson più anziano e spezzato (John Cusack) è sotto il controllo di un terapista manipolatore, finché non incontra la futura moglie Melinda Ledbetter.
La struttura narrativa duale non è un semplice artificio, ma una rappresentazione diretta dello stato psicologico frammentato di Brian Wilson. L’approccio non convenzionale permette al film di creare connessioni emotive tra le due epoche, mostrando come il genio creativo e il dolore fossero due facce della stessa medaglia. Le scene in studio degli anni ’60 sono una ricostruzione magistrale del processo creativo, mentre la linea temporale degli anni ’80 funziona come un thriller psicologico. È un ritratto complesso che cattura sia l’estasi della creazione che l’agonia della malattia mentale.
Christine (2016)
Il film è un intenso ritratto di Christine Chubbuck, una giornalista televisiva di Sarasota, Florida, negli anni ’70. Ambiziosa e determinata, ma socialmente impacciata e afflitta da una depressione debilitante, Christine si scontra con la deriva sensazionalistica del suo telegiornale. La sua frustrazione professionale e personale la porterà a un atto finale e scioccante in diretta televisiva.
Christine è un esempio di come il cinema indipendente possa affrontare storie difficili con un’intimità e una serietà che le produzioni commerciali eviterebbero. Il regista Antonio Campos evita ogni sensazionalismo, concentrandosi invece su uno studio del personaggio rigoroso e compassionevole. La performance di Rebecca Hall è un tour de force, che cattura la complessità della depressione di Christine senza mai renderla un cliché. Il film è un’esplorazione straziante dell’ambizione, della solitudine e della malattia mentale, resa possibile da un approccio produttivo che ha privilegiato la verità psicologica sopra ogni altra cosa.
The Souvenir (2019)
Negli anni ’80, Julie, una giovane e privilegiata studentessa di cinema, intraprende una relazione con Anthony, un uomo più grande, carismatico e misterioso. Quello che inizia come un primo amore si trasforma lentamente in una relazione tossica e dipendente, mentre Julie scopre la devastante verità sulla dipendenza da eroina di Anthony.
Joanna Hogg crea un’opera di cinema autobiografico di una sincerità disarmante. La struttura del film è frammentata, ellittica, come un ricordo che riaffiora. Non c’è una trama convenzionale, ma una serie di momenti, conversazioni e silenzi che compongono il mosaico di una relazione. Questo approccio narrativo, così personale e non lineare, è reso possibile da una produzione indipendente che ha permesso alla regista di esplorare la propria memoria senza compromessi. Il risultato è uno dei ritratti più onesti e dolorosi di una relazione tossica e del processo di formazione di un’artista.
Honey Boy (2019)
Scritto da Shia LaBeouf durante un periodo di riabilitazione, il film è un’esplorazione del suo rapporto tumultuoso con il padre, un ex clown da rodeo e tossicodipendente. LaBeouf interpreta una versione del proprio padre, mentre il suo alter ego, Otis, è interpretato da due attori diversi in due fasi della sua vita: come giovane star e come adulto in crisi.
Honey Boy è un atto di esorcismo cinematografico. È un film meta-autobiografico in cui l’artista non solo racconta il proprio trauma, ma lo mette in scena interpretando la fonte stessa del suo dolore. Una scelta così radicale e vulnerabile sarebbe impensabile al di fuori del circuito indipendente. La regia di Alma Har’el è lirica e sensibile, trasformando un materiale potenzialmente grezzo in un’opera d’arte toccante. Il film è una testimonianza del potere del cinema come strumento terapeutico e come mezzo per affrontare e rinegoziare il proprio passato.
Frank (2014)
Jon, un aspirante musicista, si unisce a una band avant-pop guidata dall’enigmatico Frank, un genio musicale che non si toglie mai un’enorme testa di cartapesta. Ritiratisi in una capanna irlandese per registrare un album, Jon si scontra con la natura eccentrica della band e la fragile salute mentale del suo leader.
Liberamente ispirato alle esperienze del co-sceneggiatore Jon Ronson, Frank è una commedia dark, bizzarra e sorprendentemente commovente. Il film utilizza la sua premessa eccentrica per esplorare con sincerità temi come la malattia mentale, l’autenticità artistica e il mito dell’artista torturato. Lontano dai cliché, riesce a essere profondamente empatico senza mai perdere il suo umorismo nero. È un’opera che celebra l’outsider e critica l’industria musicale che cerca di mercificare la creatività, una riflessione agrodolce resa possibile dal suo spirito fieramente indipendente.
The Death of Stalin (2017)
Mosca, 1953. Quando il dittatore Joseph Stalin muore improvvisamente, i suoi più stretti collaboratori del Consiglio dei Ministri si lanciano in una caotica e spietata lotta per il potere. Tra complotti, tradimenti e goffaggini, la battaglia per succedere al tiranno si trasforma in una farsa grottesca e letale.
Armando Iannucci applica il suo genio satirico a uno dei momenti più bui della storia del XX secolo. Il risultato è una commedia nera brillante che utilizza l’assurdità per criticare la natura brutale e irrazionale del totalitarismo. Il film non è un biopic su Stalin, ma sul vuoto di potere che la sua morte scatena. La scelta di un cast anglo-americano che recita con il proprio accento naturale accentua l’universalità della farsa, dimostrando come la brama di potere renda gli uomini ridicoli e terrificanti in egual misura.
American Animals (2018)
Quattro giovani del Kentucky, annoiati dalla loro vita suburbana, decidono di dare una scossa alla loro esistenza pianificando un’audace rapina: rubare alcuni dei libri più rari e preziosi d’America dalla biblioteca della loro università. Il film mescola la ricostruzione drammatica con interviste ai veri protagonisti del crimine.
American Animals è un ibrido innovativo tra docu-drama e heist movie che interroga la natura stessa della narrazione e della memoria. Il regista Bart Layton non si limita a raccontare una storia vera, ma la decostruisce, mettendo a confronto i ricordi contraddittori dei protagonisti con la loro rappresentazione cinematografica. Il film esplora come il cinema stesso, con i suoi miti di rapine perfette, possa influenzare la realtà, spingendo quattro ragazzi a confondere la vita con un film, con conseguenze disastrose.
I, Tonya (2017)
Il film ripercorre la vita della controversa pattinatrice su ghiaccio Tonya Harding, dalla sua infanzia difficile sotto il controllo di una madre abusiva, alla sua ascesa nel mondo elitario del pattinaggio, fino al famigerato “incidente” che coinvolse la sua rivale Nancy Kerrigan. La storia è raccontata attraverso interviste in stile mockumentary con i vari, inaffidabili protagonisti.
I, Tonya frantuma le convenzioni del biopic sportivo. Utilizzando la rottura della quarta parete, narrazioni contraddittorie e un tono da commedia nera, il film non cerca di stabilire una verità definitiva, ma di esplorare come la verità stessa venga costruita e manipolata dai media e dall’opinione pubblica. È un’analisi tagliente sulla classe sociale, l’abuso e il modo in cui l’America crea e distrugge i suoi idoli. La sua struttura irriverente e frammentata riflette perfettamente la natura caotica e scandalistica della storia che racconta.
Stan & Ollie (2018)
Negli anni ’50, la carriera di Stanlio e Ollio è in declino. Per ravvivarla, i due intraprendono un faticoso tour teatrale nel Regno Unito, sperando che possa portare a un nuovo film. Tra teatri semivuoti e problemi di salute, la loro profonda amicizia e il loro sodalizio artistico vengono messi a dura prova.
Invece di raccontare l’intera vita del duo comico, il film si concentra con malinconica saggezza sul loro crepuscolo. Questa scelta permette un’esplorazione intima e toccante del legame tra due artisti, un’amicizia che è stata il vero motore della loro comicità. Le performance di Steve Coogan e John C. Reilly sono straordinarie non solo per la somiglianza fisica, ma per come catturano l’affetto, le frustrazioni e la dipendenza reciproca di due uomini la cui partnership era più simile a un matrimonio. È un biopic tenero e agrodolce sulla fine di un’era.
Colette (2018)
Alla fine del XIX secolo, la giovane Sidonie-Gabrielle Colette sposa un carismatico editore parigino noto come Willy. Egli la convince a scrivere romanzi basati sulla sua vita, che pubblica a suo nome, ottenendo un successo strepitoso. Stanca di essere un fantasma, Colette inizia una battaglia per la sua emancipazione creativa e personale.
Questo biopic è una vibrante e sontuosa celebrazione della liberazione artistica e femminile. Il film si concentra sulla lotta di Colette per rivendicare la propria voce e la propria identità in una società dominata dagli uomini. Non è solo la storia della creazione di un’opera letteraria, ma il racconto della nascita di un’icona femminista che ha sfidato le convenzioni sociali e sessuali del suo tempo. La performance di Keira Knightley cattura perfettamente l’intelligenza, la sensualità e la determinazione della scrittrice.
The Velvet Underground (2021)
Il documentario di Todd Haynes esplora la nascita e l’influenza della leggendaria band The Velvet Underground, nata dalla New York d’avanguardia degli anni ’60. Attraverso interviste esclusive con i membri sopravvissuti, rari filmati d’archivio e un montaggio a schermo diviso che evoca le proiezioni della Factory di Andy Warhol, il film cattura lo spirito rivoluzionario della band.
Ancora una volta, Todd Haynes dimostra che la forma deve rispecchiare il soggetto. Per raccontare una band che ha frantumato le convenzioni musicali, Haynes crea un documentario che è esso stesso un’opera d’avanguardia. Il montaggio caleidoscopico, l’uso di filmati sperimentali e l’immersione totale nell’ecosistema artistico della Factory non servono solo a documentare, ma a far vivere allo spettatore l’esperienza dei Velvet Underground. È un approccio che trascende il documentario musicale per diventare un saggio visivo sull’arte, la ribellione e la nascita di un suono che ha cambiato tutto.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
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