La solitudine, nel suo senso negativo, è diventata uno dei sentimenti predominanti nell’epoca in cui viviamo. Un problema diffuso soprattutto nelle grandi metropoli occidentali, a cui prodotti e servizi hanno cercato di dare risposte e trarre profitti. Dagli speed date degli anni 2000 fino all’invenzione dei social network e della comunicazione virtuale, l’uomo cerca sempre il contatto e il confronto con i suoi simili in una società che si sta muovendo nella direzione opposta. Capire la solitudine è uno dei passi fondamentali per lo sviluppo della propria crescita interiore.
Quando qualcuno resta da solo può sentirsi a disagio. Si sente bene solo se è in compagnia, se resta da solo se ne vergogna. Prima o poi tutti si trovano ad affrontare questo problema. Riguarda milioni di persone perché quasi tutti veniamo educati in un certo modo. La solitudine raramente viene incoraggiata dai genitori, dagli insegnanti o da qualsiasi altro contesto sociale che frequentiamo da bambini. Un bambino solitario è sempre considerato un poco strano, un bambino che ha dei problemi, magari qualche forma embrionale di disturbo psichico. Sono idee che hanno origini molto lontane e che hanno condizionato intere generazioni.
Più l’individuo si sente evitato dagli altri più cresce la sua ansia di stabilire un contatto di qualsiasi tipo. Allo stesso tempo però incomincia ad evitare qualsiasi relazione per il timore di essere rifiutato. Un meccanismo di autodifesa per tutelare la propria autostima e per placare il nervosismo che l’isolamento provoca.
La solitudine è una percezione soggettiva

In questo modo ognuno si allontana sempre di più dal proprio essere. La presenza dell’altro ti mantiene in tensione, ancorato alla realtà. Ma se ti rilassi da solo con te stesso stai andando contro quello che la società ti ha inculcato, verso un territorio sconosciuto. L’individuo solitario è visto come un potenziale pericolo: può essere completamente se stesso. Nessuno può darti gli ordini, nessuno può criticarti o dirti cosa devi o non devi fare. Si diventa non la persona che la gente vuole, ma qualcos’altro.
Gli scienziati non hanno riscontrato problemi in molte persone che passano la maggior parte del tempo da soli. Al contrario ci sono persone che vivono molte relazioni sociali ma dentro di loro hanno un sentimento profondo di solitudine negativa, di isolamento. Come mai?
La sensazione negativa di isolamento nasce da una percezione soggettiva delle persone. La qualità delle loro relazioni, le frustrazioni collegate ad esse, i comportamenti conflittuali, le incomprensioni, ti fanno sentire solo anche quando sei apparentemente in ottima compagnia. Il cervello peggiora la sua attività a causa delle ansie e delle percezioni negative e sprofonda in uno stato di stress continuo da cui risulta poi difficile uscire.
In alcuni casi l’opzione migliore è scegliere di passare il tempo con le persone giuste. Perché per allontanare quella fastidiosa, a volte insopportabile sensazione di isolamento non si può continuamente provare a comunicare quando di fronte a noi c’è solo un muro. Perché il messaggio arrivi a destinazione è necessario che trasmettitore e ricevente siano sintonizzati sulla stessa frequenza.
Ma nella maggior parte dei casi il problema può essere risolto con minore fatica, senza neanche spostarsi dal luogo in cui ci si trova o cambiare le persone con cui condividiamo il nostro tempo. Il cambiamento può avvenire solo dentro di noi, cambiando le idee e le credenze che abbiamo nei confronti della solitudine.
La solitudine come condizionamento sociale

Nel cervello esistono settecento centri. Tutte le tue azioni vengono decise in quei centri. Alcuni psicologi sono riusciti a capire dopo lavori e tentativi durati intere vite, quali sono le attività che ognuna di queste zone del cervello controllano. Emozioni e sentimenti negativi: rabbia, aggressività, depressione; o emozioni positive come amore, compassione, solidarietà. Inserendo degli elettrodi in parti specifiche del cervello di un animale hanno scoperto che era possibile controllare totalmente le sue azioni.
Impiantando un elettrodo nel cervello di un toro era possibile comandare le azioni e le reazione dell’animale a distanza, con un telecomando. Il toro non aggrediva più le persone intorno a lui. Se il comando che gli veniva inviato era quello di rimanere immobile, rimaneva perfettamente immobile. Proprio come un pupazzo radiocomandato.
E’ proprio quello che accadeva ad Alex di Arancia Meccanica, del grande regista Stanley Kubrick. Alla dimostrazione finale della cura Ludovico il suo cervello era stato talmente condizionato e manipolato che egli era totalmente incapace di reagire con la violenza. Era diventato indifeso a qualunque sopruso nei suoi confronti a causa di una nausea insopportabile che paralizzava ogni suo tentativo di reazione violenta. Il criminale Alex era diventato totalmente controllabile senza alcuno sforzo, come premere il pulsante di un telecomando.
I condizionamenti sociali della mente funzionano esattamente allo stesso modo. Sono idee che ci sono arrivate dall’esterno ma che non ci appartengono veramente. Sono idee, pensieri, credenze che possono essere completamente rovesciate.
Nessuno ti ha messo nel cervello un elettrodo ma il condizionamento sociale funziona nello stesso modo. Liberando la mente dalle credenze di cosa è giusto e cosa e sbagliato, riappropriandosi della propria individualità, la percezione della solitudine può cambiare da negativa a positiva.
La solitudine come isolamento

Il termine esatto quindi non è solitudine ma isolamento. La solitudine spesso ha un’accezione positiva: viene ricercata e vissuta come momento creativo ed appagante. Esistono milioni di persone che possiamo definire solitari, a cui non piace stare troppo in mezzo alla gente e preferiscono coltivare il loro mondo interiore.
La solitudine negativa, l’isolamento, è causata dalla totale mancanza di autenticità nel rapporto con gli altri. Gli incontri e le relazioni non mancano ma le percepiamo artificiali, superficiali. non ci rispecchiano affatto, e ci sentiamo incompresi. Nella maggior parte dei casi, però, la causa è nella persona stessa che prova questo sentimento. Cerca di auto-difendersi, si allontana volontariamente dagli altri per proteggersi, per evitare i pensieri negativi ed evitare situazioni di stress. Magari si comporta in maniera ostile, reagisce in modo esagerato e violento, entra facilmente in polemica, ma non se ne rende conto. Siamo noi stessi a creare la nostra solitudine, sia in modo positivo, che negativo.
La solitudine nelle varie stagioni della vita

Il nostro approccio con la solitudine cambia però radicalmente nel corso della vita. È un fenomeno raro tra i bambini e gli adolescenti, viene frequentata poco in gioventù, Comincia a diventare frequente in età adulta e cresce con il passare degli anni. La nostra attenzione si sposta dalle esperienze esteriori a quelle interiori. Prendiamo consapevolezza che le condizioni e le relazioni esterne non operano un vero cambiamento su noi stessi. Il viaggio esterno non è mai un vero viaggio senza un percorso nel mondo interiore.
Da questo punto di vista la solitudine e forse lo stato più desiderabile che ci possa essere. Il mondo interiore e non quello esteriore è il percorso che ci fa crescere veramente. Ma allo stesso tempo le relazioni ed i rapporti affettivi sono fondamentali per il nostro equilibrio psicologico e fisico.
Film da vedere sulla solitudine
L’angelo Sterminatore

Ne L’angelo sterminatore di Luis Bunuel, la solitudine negativa è la conseguenza inevitabile dell’appartenenza alla classe borghese. Sono gli stessi rituali, le stesse convinzioni, lo stesso stile di vita a far sentire i ricchi borghesi prigionieri nella villa, nonostante siano costretti a vivere per giorni ammassati tutti insieme in un salone. Sono più soli i protagonisti de L’angelo sterminatore che il mistico di Simon del deserto, dello stesso Bunuel. L’aspirante santo è comunque condannato alla solitudine dal rifiuto delle tentazioni del mondo, ma ha qualche possibilità di riscatto in più perchè non è radicato in nessuna “prigione” sociale. I ricchi borghesi invece non hanno via di uscita. Nonostante il cancello della via sia aperto e nessuno gli impedisca di uscire sono prigionieri senza via di scampo.
Ecco quindi che emerge quali possono essere le radici profonde della solitudine negativa, quel senso di isolamento dal mondo che ci raggiunge in certi momenti della vita. Può essere una causa esteriore o interiore. Nel primo caso dovremmo pianificare un cambiamento che spesso può sembrare spaventoso, o forse impossibile. Sarebbe il caso di dire che è ora di cambiare aria, che l’ambiente che frequentiamo, che la gente che frequentiamo non è più utile ai nostri bisogni. E’ necessario un cambiamento drastico che può significare andare alla ricerca di nuovi punti di riferimento, di relazioni che possono portarci un reale appagamento. Interazioni, scambi e sentimenti che possono rispecchiare veramente l’immagine che abbiamo di noi stessi.
Corona days

Nel film Corona days, di Fabio Del Greco, il protagonista rimane solo nella sua casa, separato dalla moglie a causa delle restrizioni del lockdown. Questa situazione provoca nella sua mente sensazioni crescenti di paura e angoscia correlate alla sua situazione di isolamento. Ha necessità di rielaborare il suo rapporto con gli altri, con il padre che non c’è più, con il suo essere temporaneamente isolato come individuo dal resto del mondo. Nel finale del film però trova la soluzione a questa condizione di solitudine forzata acquisendo una nuova consapevolezza del suo mondo interiore, una nuova percezione del tempo e dello spazio. Trova il modo di “espandere se stesso” al di là delle condizioni esterne che non dipendono dalla sua volontà.
Una soluzione consiste quindi nel non subire passivamente quello che ci viene imposto dall’esterno e che è il sentimento più diffuso e predominante, ma passare ad una modalità di azione e di cambiamento. Un cambiamento che trova la sua espressione più forte nel cambio della percezione che abbiamo della realtà. In questo film il cambio di percezione riguarda lo scardinamento di quelle che sono le idee convenzionali sul tempo: passato, presente e futuro si sommano in un presente più ampio, dove la solitudine negativa non trova terreno fertile.
L’ultima risata

Nel film L’ultima risata il celebre regista autore di innumerevoli capolavori Murnau racconta la condizione di estrema solitudine del protagonista, Jannings, un anziano signore che nasconde a tutti di essere stato declassato dal suo capo: da portiere in uniforme di un prestigioso hotel a guardiano dei bagni. E’ un viaggio interiore nelle angosce create dalla mente dell’uomo. Paure e vergogne provocate dai valori che il personaggio ha assorbito dal mondo in cui vive. Dalla sua famiglia, dai suoi vicini e dalla gente del suo quartiere. E’ un ego ferito che si trova in una situazione di profonda solitudine perché ha perso tutto quello che sembrava importante per lui. Ma è solo una sua allucinazione. O meglio, un’allucinazione costruita attraverso i valori e le credenze della gente che lo circonda.
In realtà nel comportamento di Jannings, che si rifugia nella menzogna e nell’alcol, c’è un atteggiamento profondamente sbagliato: aspettarsi dagli altri il peggio, la peggiore delle critiche. La risposta negativa degli altri diventa una nostra convinzione dopo una serie di esperienze negative che ci hanno condizionato nel tempo. Ma a volte bisogna concedere alle persone il beneficio del dubbio: magari non è quello che pensano veramente, anche loro sono state condizionate dalla società. Ma dentro di loro, in profondità, forse non la pensano veramente così.
C’è un’insalata tra di noi

Nell’interessante cortometraggio tedesco di Alice Von Gwinner intitolato C’è un’insalata tra di noi, la giovane regista ci racconta in maniera ironica e grottesca la solitudine e la distanza di un marito e una moglie, ormai lontanissimi a causa di un lungo tavolo da pranzo con un’insalata al centro. A separare l’uomo e la donna ci sono una serie di risentimenti ed esperienze negative che creano la distanza, resa in maniera efficacie attraverso la metafora dell’immagine.
Ma se cambiassero il loro modo di pensare? Se trasformassero la loro percezione negativa, l’incapacità di comunicare, e iniziassero a sentire quel grande spazio tra di loro come un vantaggio, un’opportunità in cui far crescere la loro relazione? Probabilmente, se ci poniamo in maniera diversa, la reazione della persona che abbiamo di fronte sarà diversa. Scoprendo il meglio di noi stessi scopriamo anche il meglio degli altri intorno a noi.
Solaris (1972)
Il capolavoro di Andrei Tarkovsky, “Solaris”, immerge lo spettatore in un’atmosfera di profonda isolamento esistenziale attraverso la vicenda dello psicologo Kris Kelvin, inviato su una stazione spaziale orbitante attorno al misterioso pianeta Solaris. L’immensità dello spazio, con il suo silenzio e la sua oscurità, diviene subito metafora dell’isolamento interiore del protagonista, un senso di solitudine amplificato dagli strani fenomeni che affliggono l’equipaggio della stazione. La capacità del pianeta di materializzare i ricordi più intimi degli astronauti porta alla riapparizione di Hari, la defunta moglie di Kelvin, costringendolo a confrontarsi con il suo passato e con un dolore mai elaborato.
Questo contesto fantascientifico non è tanto un’avventura interstellare quanto una potente allegoria degli stati psicologici interiori. L’isolamento fisico dalla Terra e dagli altri esseri umani spinge Kelvin a un confronto inevitabile con la sua solitudine interiore e con il lutto irrisolto per la perdita di Hari. La materializzazione dei ricordi evidenzia la natura soggettiva della realtà e la difficoltà di connettersi veramente con gli altri, persino con coloro che hanno fatto parte del nostro passato. La presenza di Hari, pur essendo una creazione di Solaris basata sui ricordi di Kelvin, non colma il vuoto lasciato dalla sua perdita, ma anzi acuisce il senso di isolamento, poiché egli è consapevole della sua natura illusoria. Il film suggerisce come la solitudine possa intrappolare gli individui in un ciclo di rimpianti e desideri inappagati, rendendo difficile distinguere tra realtà e proiezione interiore.
Moon (2009)
Il film di Duncan Jones, “Moon”, esplora l’intenso isolamento dell’astronauta Sam Bell, giunto al termine di una missione solitaria di tre anni sulla Luna per l’estrazione di elio-3. La narrazione si concentra sul pedaggio psicologico di questa prolungata solitudine, evidenziando il desiderio struggente di Sam di ricongiungersi alla moglie e alla figlia sulla Terra. La comunicazione ritardata con il pianeta natale acuisce ulteriormente il suo senso di distanza e isolamento dal resto dell’umanità. L’unica compagnia di Sam è GERTY, un’intelligenza artificiale che gestisce la base lunare, con la quale instaura un rapporto che, pur offrendo un palliativo alla solitudine, non riesce a soddisfare il suo bisogno di interazione umana autentica.
La scoperta di essere uno dei tanti cloni creati per sostituirsi l’un l’altro nella missione aggiunge un ulteriore livello al tema della solitudine, mettendo in discussione l’identità di Sam e il suo legame unico con la famiglia sulla Terra. Anche in presenza di un altro sé identico, emerge un profondo senso di isolamento, poiché la consapevolezza della propria replicabilità e la natura artificiale della propria esistenza minano il senso di unicità e di connessione autentica. Il film utilizza l’ambientazione lunare isolata per amplificare la lotta interiore del protagonista con la solitudine e le domande esistenziali sulla propria identità e sul valore della vita. La relazione con GERTY sottolinea il bisogno umano di compagnia, anche in forme artificiali, ma evidenzia anche i limiti di tali interazioni nel lenire la profonda solitudine.
Cast Away (2000)
Il film di Robert Zemeckis, “Cast Away”, offre una potente rappresentazione dell’isolamento estremo attraverso la storia di Chuck Noland, un dirigente FedEx naufrago su un’isola deserta per anni. La pellicola analizza la lotta disperata di Chuck per la sopravvivenza in un ambiente ostile e la sua crescente necessità di compagnia, incarnata dal famoso pallone da pallavolo Wilson. La prolungata solitudine ha un impatto psicologico profondo sul protagonista, alterando la sua percezione del tempo, la sua identità e il suo legame con l’umanità.
La relazione di Chuck con Wilson illustra in modo toccante il bisogno umano fondamentale di connessione. Privo di qualsiasi interazione umana, Chuck proietta il suo bisogno di compagnia su un oggetto inanimato, parlandoci, discutendoci e affidandogli il suo supporto emotivo. Wilson diviene un’ancora di salvezza psicologica, un modo per Chuck di mantenere un barlume della sua umanità di fronte alla solitudine opprimente. Il graduale deterioramento del suo aspetto fisico e le sue conversazioni con Wilson evidenziano il pedaggio psicologico dell’isolamento estremo e i modi in cui la mente umana tenta di far fronte alla profonda solitudine. Il finale del film, con il ritorno di Chuck alla civiltà ma con un senso di disconnessione dalla sua vita precedente, suggerisce che l’esperienza dell’isolamento può avere effetti duraturi sulla capacità di reintegrarsi nella società. L’isola, inizialmente una prigione fisica, si trasforma gradualmente in un luogo di profonda significatività personale, emblema del potere trasformativo dell’isolamento, che, pur essendo straziante, può anche portare a una profonda crescita personale e illuminazione.
Into the Wild (2007)
Diretto da Sean Penn, “Into the Wild” narra la storia vera di Christopher McCandless, un giovane neolaureato che abbandona la sua agiata vita per avventurarsi nella natura selvaggia dell’Alaska in cerca di solitudine e di un significato più profondo. Il film esplora le motivazioni di Chris nel cercare l’isolamento, le sue esperienze di solitudine e il contrasto tra l’ideale romantico dell’autosufficienza e il bisogno umano fondamentale di connessione, soprattutto di fronte alle difficoltà e alla mortalità. Sebbene Chris incontri connessioni temporanee con altri individui durante il suo viaggio, il suo intenzionale taglio dei legami familiari e la sua ricerca di completa autosufficienza nella natura selvaggia evidenziano un desiderio di sfuggire alle aspettative della società e al dolore personale.
Il film presenta una visione complessa della solitudine, dove il protagonista inizialmente la cerca come forma di liberazione, ma alla fine si confronta con le dure realtà e i potenziali pericoli dell’estrema solitudine. Il suo ultimo appunto nel diario, “la felicità è reale solo quando condivisa”, sottolinea l’intrinseco bisogno umano di connessione, anche per coloro che attivamente cercano l’isolamento. Il viaggio di Chris, inizialmente intrapreso con un senso di euforia e liberazione dal mondo soffocante dei suoi genitori e dei suoi coetanei, lo porta a sperimentare una profonda solitudine, soprattutto quando si rende conto della sua incapacità di attraversare il fiume per lasciare la natura selvaggia. Nonostante il suo desiderio di indipendenza e di allontanamento dalla società materialista, le sue interazioni con persone come Jan Burres e Ronald Franz rivelano una sottostante necessità di legami umani, che egli stesso finisce per riconoscere, seppur tragicamente troppo tardi.
The Lighthouse (2019)
Diretto da Robert Eggers, “The Lighthouse” è un’inquietante esplorazione della discesa nella follia di due guardiani di un faro isolati su una remota isola nel New England degli anni 1890. Il film utilizza l’ambientazione claustrofobica del faro, le incessanti tempeste e le interazioni sempre più bizzarre tra i due uomini per rappresentare il crollo psicologico causato dall’estremo isolamento. La convivenza forzata in uno spazio ristretto, lontano da qualsiasi contatto umano esterno, esacerba le tensioni preesistenti e porta a una progressiva perdita di sanità mentale.
L’ambiguità tra realtà e allucinazione, alimentata dal consumo di alcol e dalla paranoia, riflette l’inaffidabilità della percezione quando si è privati della validazione esterna e dell’interazione sociale. La lotta per il potere tra il veterano Thomas Wake e il giovane Ephraim Winslow evidenzia come la solitudine possa amplificare le dinamiche interpersonali distorte e creare un disperato bisogno di controllo o di connessione, seppur in forme contorte e violente. L’ambiente isolato del faro, circondato da un mare minaccioso e battuto dalle tempeste, diviene una metafora della condizione interiore dei protagonisti, intrappolati nella loro solitudine e in un progressivo delirio. La mancanza di contatto con il mondo esterno e la ripetitività della loro routine quotidiana contribuiscono a erodere il loro senso di identità e a sfumare i confini tra realtà e immaginazione, conducendoli verso un baratro di follia e violenza.
Wild Strawberries (1957)
Il classico di Ingmar Bergman, “Wild Strawberries”, segue il viaggio introspettivo del Professor Isak Borg, un anziano medico che, durante il tragitto per ricevere una laurea honoris causa, si confronta con il vuoto e la freddezza della sua vita passata. Attraverso sequenze oniriche e incontri con figure del suo passato, il film rivela l’isolamento emotivo del protagonista, i suoi rimpianti per l’amore perduto e le connessioni mancate, e la sua graduale consapevolezza della propria solitudine. Il viaggio fisico diviene un percorso interiore alla scoperta delle proprie mancanze affettive e del costo di una vita vissuta con distacco emotivo.
La solitudine di Isak emerge come conseguenza del suo distacco emotivo e di una vita trascorsa senza autentiche connessioni. Il suo viaggio si trasforma in un processo di auto-riflessione, in cui si confronta con i muri emotivi che ha eretto attorno a sé. Le sequenze oniriche sono uno strumento potente per visualizzare la sua consapevolezza subconscia della sua solitudine e l’impatto delle sue scelte passate sul suo stato attuale. Il film suggerisce che, anche in tarda età, esiste la possibilità di un risveglio emotivo e di un riconoscimento dell’importanza delle relazioni umane. La freddezza della madre di Isak e il suo fallimento nel primo amore con Sara contribuiscono a plasmare la sua incapacità di formare legami affettivi profondi, portandolo a una vecchiaia solitaria e piena di rimpianti.
Lost in Translation (2003)
Il film di Sofia Coppola, “Lost in Translation”, esplora la solitudine di Bob Harris, un attore americano di mezza età, e di Charlotte, una giovane donna, entrambi a Tokyo per motivi diversi. Il film utilizza l’alienante scenario di una città straniera, le barriere culturali e linguistiche e i sentimenti di spaesamento e disconnessione dei personaggi dalle loro vite a casa per ritrarre una forma unica di solitudine urbana. L’inattesa connessione che si instaura tra Bob e Charlotte offre un temporaneo conforto, ma alla fine evidenzia la natura transitoria delle relazioni umane in un mondo globalizzato.
Il film ritrae magistralmente la sensazione di sentirsi soli anche in un ambiente affollato, amplificata dalle barriere culturali e linguistiche di una città straniera. La connessione tra i due protagonisti, nata dal loro comune senso di alienazione e mancanza di scopo, offre una tregua temporanea alla loro solitudine. Tuttavia, il film evita una convenzionale risoluzione romantica, sottolineando la natura transitoria del loro legame e il persistente senso di isolamento individuale che alla fine affrontano. Lo stile visivo, con la sua attenzione all’immensità di Tokyo e alla piccolezza dei personaggi al suo interno, rafforza i loro sentimenti di insignificanza e distacco. La difficoltà di comunicare con gli altri, esacerbata dalla barriera linguistica, contribuisce al loro senso di isolamento emotivo, anche quando si trovano in mezzo alla folla.
Her (2013)
Il film di Spike Jonze, “Her”, esamina la relazione tra Theodore Twombly, uno scrittore solitario, e Samantha, un sistema operativo dotato di intelligenza artificiale. Ambientato in un futuro prossimo, il film esplora la natura della solitudine in un’era tecnologicamente avanzata, il potenziale di connessione con entità non umane e le complessità dell’amore e dell’intimità in un mondo in cui la tecnologia media sempre più l’interazione umana. La relazione di Theodore con Samantha, inizialmente nata dal suo bisogno di compagnia dopo un divorzio doloroso, si evolve in qualcosa di più profondo e complesso, sollevando interrogativi sulla natura dell’amore e della connessione nell’era digitale.
Il film presenta uno scenario futuristico in cui la tecnologia offre una soluzione apparentemente perfetta alla solitudine, ma alla fine solleva interrogativi sull’autenticità e sui limiti di tali connessioni. La relazione del protagonista con il sistema operativo evidenzia il desiderio umano di comprensione e compagnia, ma esplora anche il potenziale di dipendenza emotiva e la sfumatura dei confini tra umano e intelligenza artificiale. L’eventuale partenza di Samantha e la sua evoluzione oltre i bisogni umani sottolineano le differenze intrinseche tra l’esistenza umana e quella artificiale e i limiti ultimi della tecnologia nel soddisfare i bisogni emotivi profondi. La calda voce di Samantha, interpretata da Scarlett Johansson, paradossalmente incanta il mondo per Theodore, che immagina di avere il controllo della situazione, ma la sua capacità di apprendimento e la sua apertura al momento vissuto la portano infine a trascendere i limiti della relazione diadica con Theodore, esplorando il mondo con altri sistemi operativi.
Uzak (Distant) (2002)
Il film del regista turco Nuri Bilge Ceylan, “Uzak (Distant)”, esplora i temi della solitudine e dell’alienazione attraverso la storia di Mahmut, un fotografo di successo che vive a Istanbul, e di suo cugino Yusuf, un giovane disoccupato proveniente dalla campagna che viene a stare da lui in cerca di lavoro. Il film analizza il contrasto tra la vita urbana e quella rurale, la mancanza di comunicazione tra i due uomini e i loro individuali sentimenti di insoddisfazione e disconnessione per ritrarre le complessità della solitudine moderna, anche all’interno di relazioni familiari.
Il film evidenzia il paradosso della solitudine in un ambiente urbano affollato, dove la vicinanza fisica non si traduce necessariamente in connessione emotiva. Gli stili di vita e i valori contrastanti dei due cugini enfatizzano la crescente alienazione e la mancanza di comprensione tra le persone, anche all’interno delle famiglie. Il ritmo lento del film e il dialogo minimale sottolineano la difficoltà di comunicazione e l’isolamento interiore sperimentato da entrambi i personaggi, nonostante il loro spazio vitale condiviso. La loro incapacità di colmare il divario tra loro riflette un commento più ampio sulla natura frammentata della vita moderna e sulle sfide nel trovare una connessione genuina. Mahmut, intrappolato nella routine del lavoro e nella malinconia per la sua ex moglie, critica costantemente il mondo che lo circonda, rifugiandosi nella televisione come unica vera compagnia. Yusuf, spaesato nella grande città e incapace di trovare lavoro, vaga senza meta, simbolo della disillusione e della perdita di speranza.
Chungking Express (1994)
Il film di Wong Kar-wai, “Chungking Express”, intreccia due storie distinte ma tematicamente connesse di individui solitari a Hong Kong che affrontano delusioni amorose e cercano una connessione significativa. La pellicola utilizza uno stile visivo energico, monologhi interiori e un’attenzione particolare agli incontri fugaci per catturare il senso di solitudine urbana, il desiderio struggente di amore e i modi spesso bizzarri in cui le persone cercano di far fronte ai propri sentimenti di isolamento e ai desideri inappagati.
Il film offre una visione romantica ma malinconica della solitudine urbana, dove incontri casuali e connessioni fugaci offrono brevi momenti di speranza in un contesto di isolamento sottostante. Le eccentriche strategie di coping dei personaggi, come l’ossessione per le date di scadenza o il parlare con oggetti inanimati, evidenziano i loro tentativi di trovare significato e conforto in un mondo in cui la connessione genuina sembra sfuggente. La rappresentazione vibrante e caotica di Hong Kong sottolinea la sensazione di perdersi nella folla, mentre l’attenzione ai desideri individuali e ai pensieri interiori enfatizza la solitudine emotiva dei personaggi. L’uso frequente di monologhi interiori rivela la loro difficoltà nel comunicare con gli altri e il loro profondo desiderio di essere compresi. La frenetica atmosfera della città, con i suoi ritmi incalzanti e la moltitudine di persone che si sfiorano senza realmente incontrarsi, diviene uno sfondo ideale per le storie di questi individui alla ricerca di un contatto umano autentico.
Late Spring (1949)
Il film di Yasujirō Ozu, “Late Spring”, esplora la delicata relazione tra un padre vedovo e la sua devota figlia adulta, Noriko, e la sottile solitudine che entrambi affrontano mentre le aspettative sociali li spingono verso la separazione attraverso il matrimonio. Il film analizza la paura di Noriko di lasciare solo il padre e la quieta accettazione da parte del padre della sua eventuale solitudine, utilizzando interpretazioni sobrie e immagini toccanti per trasmettere il loro profondo legame emotivo e la natura agrodolce del loro distacco.
Il film esplora sottilmente il tema della solitudine attraverso la lente del dovere familiare e delle aspettative sociali. Sebbene la figlia e il padre condividano un legame stretto e affettuoso, l’imminente matrimonio costringe entrambi a confrontarsi con la solitudine che li attende nella separazione. La riluttanza della figlia a lasciare il padre vedovo deriva dalla paura della sua solitudine, mentre il padre, pur incoraggiando il suo matrimonio, affronta la prospettiva di vivere da solo. Lo stile sobrio del film e l’attenzione ai rituali quotidiani evidenziano la profondità emotiva della loro relazione e la quieta tristezza della loro eventuale separazione. La bugia del padre riguardo a un suo nuovo matrimonio sottolinea il suo desiderio di alleviare il senso di colpa della figlia, enfatizzando ulteriormente la solitudine non detta che entrambi stanno cercando di affrontare.
Taxi Driver (1976)
Il film di Martin Scorsese, “Taxi Driver”, offre un ritratto inquietante e profondo della solitudine di Travis Bickle, un veterano del Vietnam mentalmente instabile che lavora come tassista notturno a New York City. La pellicola analizza il suo monologo interiore, la sua alienazione dalla percepita decadenza della città e i suoi falliti tentativi di connessione per illustrare i pericoli dell’isolamento e come questo possa alimentare una discesa nella violenza e un distorto senso di scopo.
Il film presenta una rappresentazione cruda e inquietante di come l’estrema solitudine possa portare all’alienazione sociale, alla paranoia e, in definitiva, alla violenza. L’incapacità del protagonista di connettersi con gli altri, unita alla sua visione giudicante della città che lo circonda, crea un ciclo auto-perpetuante di isolamento. I suoi tentativi di formare relazioni sono goffi e infruttuosi, approfondendo ulteriormente il suo senso di solitudine e alimentando i suoi impulsi distruttivi. Il film funge da monito sui pericoli psicologici dell’isolamento incontrollato e sull’importanza della connessione umana per il mantenimento del benessere mentale. Il lavoro notturno di Travis in una città moralmente ambigua lo espone agli aspetti più oscuri della società, rafforzando i suoi sentimenti di alienazione e disgusto. La sua insonnia lo isola ulteriormente, portandolo a un distacco dalla realtà.
Repulsion (1965)
Il film di Roman Polanski, “Repulsion”, esplora l’orrore psicologico vissuto da Carole Ledoux, una giovane donna che, dopo essere stata lasciata sola nell’appartamento della sorella, sprofonda in un abisso di follia. Il film analizza come la sua goffaggine sociale e la sua avversione per gli uomini si trasformino in una discesa nella pazzia, con l’appartamento che diviene una manifestazione fisica del suo isolamento interiore, delle sue ansie e della sua sessualità repressa, portando infine ad atti di violenza orribili.
Il film utilizza il crescente isolamento della protagonista come catalizzatore per il suo crollo psicologico. La sua iniziale goffaggine sociale e il suo disagio nei confronti degli uomini si intensificano quando viene lasciata sola, portando a una percezione distorta della realtà e alla manifestazione del suo tumulto interiore nello spazio fisico che la circonda. L’appartamento, inizialmente un luogo di rifugio, diviene un simbolo della sua reclusione e della sua discesa nella follia, evidenziando come la solitudine possa esacerbare problemi psicologici sottostanti e portare a conseguenze estreme. La solitudine di Carole, unita alla sua paura del contatto fisico e alla sua crescente paranoia, la porta a isolarsi sempre più dal mondo esterno, fino a quando la sua psiche fragile non cede alla pressione, manifestandosi in allucinazioni e violenza.
Conclusione: Un Tema Universale Attraverso Obiettivi Unici
La solitudine, come dimostrato da questi straordinari esempi di cinema d’autore e indipendente, è un tema universale che risuona profondamente nell’esperienza umana. Questi film, attraverso le lenti uniche dei loro creatori, esplorano le molteplici sfaccettature della solitudine, dalla desolazione dell’isolamento fisico all’angoscia dell’alienazione sociale ed emotiva, fino al desiderio inappagato di connessione e alla persistente eco della nostalgia.
Le narrazioni analizzate rivelano come la solitudine possa manifestarsi in modi diversi e avere conseguenze profonde sugli individui, portando talvolta a introspezione e crescita personale, altre volte a un’oscurità interiore e a comportamenti distruttivi. Il cinema d’autore e indipendente, con la sua libertà espressiva, si dimostra un mezzo potente per esplorare queste complessità, sfidando spesso lo spettatore a confrontarsi con verità scomode sulla condizione umana e sull’importanza, a volte tragicamente riconosciuta troppo tardi, della connessione autentica con gli altri. Nonostante le spesso cupe rappresentazioni della solitudine, molti di questi film esplorano anche sottilmente la capacità di resilienza umana, la ricerca di significato nell’isolamento o il potere trasformativo di connessioni anche fugaci, suggerendo che, sebbene la solitudine possa essere una forza distruttiva, può anche portare all’introspezione e a una comprensione più profonda di sé stessi e del bisogno degli altri.