I film sul mare da vedere

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Il mare, nel cinema, è una creatura a due volti. È la distesa scintillante dell’avventura mainstream, lo sfondo spettacolare per blockbuster da grande incasso. Ma lontano dalle rotte commerciali, nelle acque più profonde e agitate del cinema indipendente e d’autore, il mare si spoglia di ogni romanticismo per diventare uno specchio dell’anima. Diventa personaggio, antagonista, divinità primordiale. È una tela psicologica su cui i registi dipingono i recessi più oscuri della condizione umana: la solitudine, la follia, il lutto, la brutale lotta per la sopravvivenza.

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Il cinema indipendente non usa il mare come semplice ambientazione; lo evoca come uno stato della mente. La sua vastità indifferente diventa il catalizzatore che spinge i personaggi oltre il limite, la sua superficie un velo sottile che separa il reale dall’incubo, il conscio dall’inconscio. È uno spazio liminale dove il tempo si deforma, i miti riemergono dagli abissi e la cruda realtà della vita si manifesta con una poesia quasi insostenibile. Questo non è il mare delle vacanze, ma quello dell’isolamento esistenziale, un’entità che non offre risposte ma amplifica ogni domanda.

Ecco una selezione curata di film indipendenti che, navigando lontano dalle rotte commerciali, incarnano perfettamente la potenza viscerale e metaforica del mare:

The Lighthouse (2019)

In una remota isola del New England alla fine del XIX secolo, due guardiani del faro, il veterano Thomas Wake e il novellino Ephraim Winslow, devono convivere per quattro settimane. L’isolamento, l’alcol e una tempesta implacabile li spingono in una spirale di paranoia e follia, dove mito e realtà si fondono in un incubo lovecraftiano.

Robert Eggers non si limita a raccontare una storia di isolamento; scolpisce un’esperienza sensoriale opprimente. Girato in un bianco e nero granuloso e claustrofobico, con un formato quasi quadrato che intrappola i personaggi e lo spettatore, il film usa il mare come un costante assalto acustico. Il suono assordante della sirena da nebbia, lo schianto incessante delle onde contro gli scogli, il vento che ulula: l’oceano è un mostro invisibile che assedia la psiche dei due uomini. L’acqua salata impregna ogni cosa, dalla loro pelle ai loro sogni, diventando il catalizzatore di un delirio freudiano in cui emergono segreti inconfessabili e desideri repressi. Il faro, con la sua luce proibita e incantatrice, diventa un simbolo fallico di conoscenza e potere, un segreto che il mare custodisce gelosamente.

All is Lost (2013)

Un uomo, in viaggio solitario attraverso l’Oceano Indiano, si sveglia e scopre che la sua barca a vela ha subito una falla dopo una collisione con un container alla deriva. Con la radio e gli strumenti di navigazione fuori uso, deve affrontare una violenta tempesta e lottare per la sopravvivenza contro gli elementi, armato solo del suo ingegno e della sua tenacia.

Il capolavoro di J.C. Chandor è un esercizio di minimalismo radicale. Con un Robert Redford monumentale e quasi completamente muto, il film spoglia il genere della sopravvivenza di ogni dialogo o retroscena, riducendolo alla sua essenza: la lotta pura tra l’uomo e la natura. Qui, il mare è l’antagonista assoluto. Non è malevolo, ma potentemente, terribilmente indifferente. Ogni onda, ogni tempesta, ogni calma piatta è una prova esistenziale. La quasi totale assenza di parole trasforma il film in un’opera di cinema puro, un balletto silenzioso di gesti precisi e disperati. È un’affermazione straziante sulla resilienza umana di fronte a una forza che non può essere né compresa né sconfitta, solo sopportata.

Manchester by the Sea (2016)

Lee Chandler, un uomo solitario e taciturno che lavora come tuttofare a Boston, è costretto a tornare nella sua città natale sulla costa del Massachusetts dopo la morte improvvisa del fratello. Lì scopre di essere stato nominato tutore legale del nipote adolescente, un ritorno che lo costringe a confrontarsi con un passato tragico che lo ha allontanato dalla sua famiglia e dalla comunità.

Nel film di Kenneth Lonergan, il mare non è un simbolo di libertà, ma una prigione di ghiaccio e memoria. La costa del New England, grigia, fredda e spazzata dal vento, è il paesaggio emotivo del protagonista. Il suo passato è legato indissolubilmente all’acqua, e ogni vista dell’oceano, ogni suono di una barca da pesca, è un costante e doloroso promemoria della tragedia che ha distrutto la sua vita. Il mare qui non offre catarsi o purificazione; è una presenza oppressiva e immutabile, proprio come il dolore di Lee, un’immensa distesa di lutto da cui è impossibile fuggire.

Stromboli, Terra di Dio (1950)

Per sfuggire a un campo di internamento italiano dopo la Seconda Guerra Mondiale, la profuga lituana Karin sposa un pescatore e lo segue nella sua isola natale, Stromboli. Lì, si scontra con la durezza della vita, la diffidenza della comunità tradizionalista e la natura selvaggia e minacciosa del vulcano attivo, trovandosi in una nuova forma di prigionia.

Roberto Rossellini, pioniere del neorealismo, usa il paesaggio come un personaggio fondamentale. L’isola di Stromboli è un microcosmo brutale, dominato da due forze primordiali: il mare e il vulcano. Per Karin, il mare non è una via di fuga ma un muro liquido che la isola dal mondo, intrappolandola in una cultura che non comprende e che non la accetta. Il vulcano, con le sue eruzioni imprevedibili, diventa la manifestazione fisica della sua angoscia e della sua rabbia repressa. La sua disperata scalata finale sulla montagna non è solo un tentativo di fuga, ma un confronto con le forze esistenziali che governano la sua vita, una ricerca di grazia in un mondo spietato.

Archipelago (2010)

Una famiglia si riunisce per una vacanza d’addio su una delle remote Isole Scilly, al largo della costa della Cornovaglia, prima che il figlio Edward parta per un anno di volontariato in Africa. L’idilliaco paesaggio diventa presto il palcoscenico di tensioni a lungo sopite, risentimenti passivo-aggressivi e una profonda incapacità di comunicare.

Il titolo del film di Joanna Hogg è la sua metafora centrale. I membri di questa famiglia borghese sono come le isole di un arcipelago: vicini ma irrimediabilmente separati da invisibili e fredde correnti di incomprensione. Hogg utilizza uno stile austero, con inquadrature fisse e distanti e l’assenza di una colonna sonora, per accentuare l’isolamento emotivo dei personaggi. Il paesaggio marino, con le sue spiagge battute dal vento e i cieli mutevoli, non offre conforto, ma riflette la loro desolazione interiore. Sono fisicamente insieme in un luogo di straordinaria bellezza, ma psicologicamente alla deriva, ognuno bloccato sulla propria isola di egoismo e dolore.

Una visione curata da un regista, non da un algoritmo

In questo video ti spiego la nostra visione

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The Sailor Who Fell from Grace with the Sea (1976)

La vedova Anne Osborne inizia una relazione con Ryuji, un ufficiale della marina mercantile. Suo figlio tredicenne, Noboru, inizialmente idolatra il marinaio, vedendo in lui l’incarnazione di un ideale eroico. Tuttavia, quando Ryuji decide di abbandonare il mare per sposare Anne e intraprendere una vita borghese, Noboru e la sua banda di amici nichilisti lo considerano un tradimento imperdonabile che richiede una punizione terribile.

Tratto dal romanzo di Yukio Mishima, questo film inquietante esplora il mare come un concetto filosofico, un simbolo di purezza, gloria e destino maschile. Per Noboru, il mare è un regno assoluto, e il marinaio è il suo eroe, un essere superiore non contaminato dalla mediocrità della vita a terra. La decisione di Ryuji di “scendere a terra” è una caduta letterale dalla grazia, un abbandono dell’ideale per la corruzione della routine e della domesticità. Il mare qui non è un luogo fisico, ma uno stato dell’essere, un ideale romantico e mortale che non può sopravvivere al contatto con la terraferma.

Il Metodo Kempinsky

Il Metodo Kempinsky
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Film drammatico, di Federico Salsano, Italia, 2020.
L’introspettivo immaginario road movie di un uomo nei meandri della propria mente, i suoi ricordi di gioventù, le passioni mai sopite e le verità contraddittorie. La strada è fatta d’acqua, la destinazione è falsamente ignota. I suoi compagni di viaggio sono tre uomini misteriosi, proiezioni della sua fantasia e di differenti aspetti della sua personalità: il perenne malinconico, il creativo folle, il fanciullo introverso. Lo segue anche una presenza femminile che racconta l'ennesima vicenda umana. Ad un certo punto della traversata decide di abbandonare la barca ed i suoi fantasmi tuffandosi in mare e arriva a nuoto su una spiaggia deserta, nudo, con un piccolo pupazzo di Pinocchio chiuso da un lucchetto.

Spunto di riflessione
La vita è come un lungo viaggio per mare e l'essere umano è una piccola creatura che si confronta con l'immensità. A volte l'oceano è tranquillo, altre volte ci sono terribili tempeste. Qualche volta siamo capitani di una barca con una rotta ben definita, altre volte siamo naufraghi in cerca di una terra in cui metterci in salvo. Ma nonostante il lungo viaggio e lo spostamento nello spazio fisico sono altre le domande che risuonano nella mente: chi sono questi uomini in compagnia di cui viaggio? Qual è il mistero di questa immensa massa di acqua che sembra fatta dei miei ricordi? Puoi circumnavigare tutto il mondo ma la domanda principale rimane sempre la stessa: chi sono io veramente?

LINGUA: italiano
SOTTOTITOLI: inglese, spagnolo, francese, tedesco, portoghese

Enys Men (2022)

Ambientato nel 1973, il film segue una volontaria che vive da sola su un’isola disabitata al largo della costa della Cornovaglia. Il suo compito è osservare un fiore raro. La sua routine metodica inizia a sgretolarsi quando la realtà si fonde con visioni spettrali del passato dell’isola, tra cui minatori, giovani donne e un misterioso monolite di pietra.

Mark Jenkin, dopo Bait, si immerge ancora più a fondo nel “folk horror” della Cornovaglia. Enys Men (che in cornico significa “isola di pietra”) è un’opera ipnotica e disorientante. Il mare è la forza che isola questo luogo, rendendolo un contenitore dove il tempo non scorre in modo lineare ma si stratifica. L’isola è infestata non da fantasmi, ma dalla memoria stessa, e il mare è il custode di queste storie traumatiche. Lo stile di Jenkin, con il suo montaggio frastagliato e l’uso di una pellicola 16mm dai colori saturi, riflette la frammentazione della psiche della protagonista, che diventa un tutt’uno con l’isola e le sue inquietanti leggende marine.

Sea Fever (2019)

Siobhán, una brillante ma solitaria studentessa di biologia marina, si unisce all’equipaggio di un peschereccio irlandese per una ricerca sul campo. L’equipaggio, superstizioso, la vede come una presenza sfortunata. Quando la barca viene immobilizzata da una creatura bioluminescente sconosciuta e un parassita misterioso inizia a infettare l’equipaggio, la razionalità scientifica di Siobhán si scontra con l’istinto di sopravvivenza.

Questo thriller irlandese sovverte brillantemente i cliché dell’horror acquatico. Il mostro non è una creatura famelica, ma un organismo incomprensibile, e l’orrore non deriva tanto dalla minaccia fisica quanto dal mistero biologico e dalla paranoia del contagio. L’Oceano Atlantico è rappresentato come un abisso primordiale, un “brodo” da cui possono emergere forme di vita aliene e inconcepibili. Il film diventa una tesa allegoria sulla quarantena e sulla responsabilità collettiva, dove il vero mostro è la paura dell’ignoto e la difficile scelta tra l’autoconservazione e la protezione del mondo esterno.

The Wicker Man (1973)

Il sergente di polizia Neil Howie, un devoto cristiano, si reca sulla remota isola di Summerisle, nelle Ebridi, per indagare sulla scomparsa di una ragazza. Scopre che gli isolani, guidati dal carismatico Lord Summerisle, hanno abbandonato il cristianesimo per praticare una forma di paganesimo celtico. La sua indagine si trasforma in uno scontro mortale tra due fedi inconciliabili.

Capolavoro fondativo del genere folk horror, The Wicker Man utilizza il mare come elemento essenziale per la sua narrazione. L’oceano è la barriera fisica e culturale che ha permesso a Summerisle di rimanere isolata, un laboratorio sociale dove un’antica religione ha potuto prosperare lontano dalle leggi e dalla morale della terraferma. Il viaggio in idrovolante di Howie non è solo uno spostamento geografico, ma un passaggio in un altro mondo, un regno dove la sua autorità e la sua fede non hanno alcun valore. L’orrore del film nasce da questo scontro culturale, reso possibile solo dal profondo isolamento garantito dal mare.

Triangle (2009)

Jess, una giovane madre, si unisce a un gruppo di amici per una gita in barca a vela. Quando una strana tempesta capovolge la loro imbarcazione, trovano rifugio su un transatlantico apparentemente deserto. A bordo, Jess ha una sconcertante sensazione di déjà vu e si rende presto conto di essere intrappolata in un loop temporale omicida, costretta a rivivere gli stessi eventi terrificanti ancora e ancora.

Christopher Smith costruisce un thriller psicologico che trasforma l’oceano in un limbo purgatoriale. Il transatlantico Aeolus non è una semplice nave fantasma, ma un palcoscenico per un ciclo infernale ispirato al mito di Sisifo, dove la protagonista è condannata a ripetere all’infinito un atto di violenza per espiare una colpa passata. L’oceano sconfinato e vuoto che circonda la nave rafforza la sensazione di essere intrappolati al di fuori del tempo e dello spazio convenzionali, rendendo il mare un elemento chiave della sua punizione eterna.

Dead Calm (1989)

Dopo la tragica morte del figlio, John e Rae Ingram si ritirano sulla loro barca a vela per un lungo viaggio nel Pacifico. La loro solitudine viene interrotta quando salvano un uomo, Hughie, unico sopravvissuto di una goletta alla deriva. Presto scoprono che Hughie è uno psicopatico omicida, e quella che doveva essere una convalescenza si trasforma in una terrificante lotta per la sopravvivenza in mare aperto.

Il thriller di Phillip Noyce è un magistrale studio sulla tensione psicologica. Il titolo stesso, “Bonaccia Mortale”, è emblematico: la calma piatta dell’oceano, solitamente un’immagine di serenità, diventa una fonte di angoscia insopportabile. L’assenza di vento e l’immensa distesa d’acqua vuota significano che non c’è via di fuga né speranza di soccorso. La barca diventa una prigione claustrofobica, un’arena isolata dove l’intelligenza e la resistenza di Rae vengono messe alla prova contro la follia imprevedibile di Hughie. Il mare trasforma un paradiso in una trappola mortale.

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Évolution (2015)

Su una remota isola vulcanica abitata solo da donne e ragazzini, il giovane Nicolas fa una scoperta inquietante mentre nuota: il cadavere di un ragazzo con una stella marina rossa sul ventre. Questo evento lo porta a mettere in discussione la sua realtà, in particolare le strane procedure mediche a cui lui e gli altri ragazzi sono sottoposti dalle loro “madri”.

Il film di Lucile Hadžihalilović è un body horror d’autore, suggestivo e profondamente perturbante. Il mare è rappresentato come uno spazio primordiale, quasi uterino, fonte di vita e di terrore. L’orrore del film è legato a doppio filo con la biologia marina, esplorando i temi della nascita, della metamorfosi e della riproduzione attraverso un’estetica acquatica e surreale. L’isola isolata funge da laboratorio per una strana e inquietante forma di evoluzione, traducendo le paure adolescenziali del cambiamento corporeo in un incubo marittimo.

Leviathan (2012)

Un documentario sperimentale che immerge lo spettatore nella vita a bordo di un peschereccio industriale al largo della costa di New Bedford, Massachusetts. Senza dialoghi, narrazione o una struttura convenzionale, il film utilizza piccole telecamere GoPro posizionate ovunque, dagli uomini alle reti, per catturare la violenta e caotica realtà del lavoro in mare.

Quest’opera del Sensory Ethnography Lab di Harvard non è un film sulla pesca, ma è l’esperienza fisica e sensoriale della pesca. Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel trasformano il lavoro industriale in uno spettacolo quasi astratto e terrificante. Le immagini sono disorientanti, i suoni assordanti. Il mare è una massa nera e turbolenta, una forza caotica che scuote uomini e macchine. Il film è un’immersione totale nella brutalità della lotta tra uomo e natura, un’apocalisse acquatica che rivela la poesia terrificante e sublime nascosta nel cuore dell’industria.

Bait (2019)

In un villaggio di pescatori della Cornovaglia, Martin Ward, un uomo senza barca, lotta per sbarcare il lunario vendendo il suo magro pescato. La sua vita tradizionale si scontra con l’invasione dei turisti benestanti che hanno comprato la casa di famiglia e trasformato il porto in un parco giochi. Le tensioni sociali, economiche e culturali esplodono in un conflitto aspro e inevitabile.

L’estetica unica del film di Mark Jenkin è un riflesso diretto dei suoi temi. Girato con una cinepresa a manovella Bolex in 16mm bianco e nero, e con un suono interamente aggiunto in post-produzione, Bait ha l’aspetto di un manufatto perduto, un reperto di un’epoca passata, proprio come lo stile di vita che Martin cerca disperatamente di preservare. L’effetto straniante del suono asincrono sottolinea l’incomunicabilità tra i locali e i “forestieri”. Il mare è il cuore pulsante del conflitto: per Martin è fonte di identità e sostentamento, per i turisti è solo una cartolina.

The Last of the Sea Women (2024)

Questo documentario segue le “haenyeo” dell’isola di Jeju, in Corea del Sud, una comunità di donne anziane che da secoli si immergono in apnea per raccogliere frutti di mare. Oggi, questa tradizione matriarcale è in pericolo a causa dell’inquinamento, del cambiamento climatico e dell’età avanzata delle ultime praticanti, che lottano per preservare la loro cultura.

Prodotto da A24, il film è un ritratto commovente di un rapporto simbiotico e minacciato con l’oceano. Il mare è tutto per le haenyeo: è il loro campo, la loro eredità, il fondamento della loro indipendenza economica in una società patriarcale. Ma è anche un luogo di pericolo e, ora, di scarsità. Lo stile immersivo e meditativo del documentario mostra come l’oceano sia al tempo stesso “casa e avversario” per queste guerriere, la cui resilienza di fronte a un mondo che sta cambiando le loro acque è tanto potente quanto la marea.

Geographies of Solitude (2022)

Un ritratto intimo di Zoe Lucas, una naturalista che da oltre quarant’anni vive come unica abitante permanente della remota Sable Island, al largo della Nuova Scozia. Il film documenta la sua vita dedicata allo studio dell’ecosistema dell’isola, dai cavalli selvaggi agli insetti, fino alla meticolosa catalogazione dei rifiuti di plastica che il mare deposita incessantemente sulla spiaggia.

Questo documentario è una profonda meditazione su una vita vissuta in totale simbiosi con il mare. L’oceano è il compagno costante di Zoe, la forza che modella l’isola e la sua biodiversità, ma anche il nastro trasportatore che le porta i detriti di un mondo lontano e incurante. Girato in 16mm con tecniche eco-sostenibili che rispecchiano l’etica della sua protagonista, il film è una collaborazione poetica con il mondo naturale, una storia di solitudine in cui il mare è al tempo stesso maestro, musa e vittima.

The Inland Sea (1991)

Basato sull’omonimo diario di viaggio del 1971 dello scrittore e nipponista Donald Richie, questo documentario è un viaggio poetico e malinconico attraverso le isole del Mare Interno del Giappone. Richie cerca le tracce di una cultura tradizionale che sta svanendo, riflettendo sulla bellezza, sulla perdita e sul passare del tempo.

Diretto da Lucille Carra, il film è un’elegia per un mondo perduto. Il Mare Interno è rappresentato come uno spazio quasi mitico, un “cuore senza tempo” del Giappone che la modernità ha in gran parte risparmiato. La narrazione pacata di Richie, unita alla colonna sonora evocativa di Toru Takemitsu, crea un’atmosfera contemplativa. Il mare qui non è un luogo di conflitto, ma di quiete e riflessione, uno specchio d’acqua che custodisce i ricordi di uno stile di vita che sta scomparendo lentamente, come la scia di una barca.

Kon-Tiki (2012)

Il film racconta l’audace impresa dell’esploratore norvegese Thor Heyerdahl che, nel 1947, attraversò l’Oceano Pacifico su una zattera di legno di balsa. Per dimostrare la sua teoria secondo cui i polinesiani discendevano dai sudamericani, Heyerdahl e il suo piccolo equipaggio percorsero 4.300 miglia nautiche dal Perù alle isole Tuamotu, affrontando tempeste, squali e le incognite del mare aperto.

Pur essendo un film narrativo con un budget considerevole per una produzione norvegese, Kon-Tiki mantiene una forte impronta di realismo che lo avvicina al documentario. L’Oceano Pacifico è il vero protagonista, descritto come una frontiera tanto meravigliosa quanto letale per l’avventura umana. Le sequenze in mare aperto sono mozzafiato e trasmettono la vulnerabilità della zattera di fronte alla potenza smisurata della natura. È un omaggio all’esplorazione vecchio stile, un racconto epico sulla determinazione umana di fronte all’immensità del mare.

The Red Turtle (2016)

Un uomo naufraga su un’isola deserta. I suoi tentativi di fuggire su una zattera vengono sistematicamente ostacolati da una grande tartaruga rossa. Dopo un violento scontro, la creatura si trasforma in una donna. L’uomo e la donna iniziano una vita insieme sull’isola, attraversando tutte le fasi dell’esistenza umana: amore, genitorialità e mortalità.

Questo capolavoro d’animazione, co-prodotto dallo Studio Ghibli e diretto da Michaël Dudok de Wit, è una favola universale completamente priva di dialoghi. Il film è una pura allegoria visiva della condizione umana. L’isola è un microcosmo della vita, e il mare rappresenta il vasto ignoto che prima isola l’uomo e poi, misteriosamente, gli consegna la salvezza e l’amore sotto forma di tartaruga. La narrazione esplora il ciclo della vita e il nostro rapporto con una natura rappresentata come una forza potente, mistica e, in ultima analisi, compassionevole.

Song of the Sea (2014)

Ben e la sua sorellina muta, Saoirse, vivono in un faro con il padre, ancora affranto per la scomparsa della moglie. Quando la nonna li porta a vivere in città, i due fratelli fuggono per tornare a casa. Durante il viaggio, Ben scopre che Saoirse è una “selkie”, una creatura mitologica metà umana e metà foca, e che la sua voce è l’unica speranza per salvare le creature magiche del folklore irlandese.

Il secondo film del regista irlandese Tomm Moore è un’immersione incantevole nella mitologia celtica. La costa irlandese è il luogo dove il mondo moderno e quello magico si incontrano. Il mare è la fonte dei poteri di Saoirse, il suo legame con la madre perduta e il regno delle creature fatate. Lo stile di animazione, descritto come “splendido e pittorico”, fonde con grazia la quotidianità con l’incanto del folklore, suggerendo che la magia non è scomparsa, ma semplicemente nascosta sotto la superficie delle onde.

Ponyo (2008)

Il piccolo Sosuke, un bambino di cinque anni, salva un pesciolino rosso con un volto umano e lo chiama Ponyo. Ponyo, in realtà, è la figlia di un potente stregone del mare e desidera ardentemente diventare umana. Usando la magia del padre, riesce a trasformarsi, ma questo atto sconvolge l’equilibrio della natura, scatenando uno tsunami che minaccia di sommergere il villaggio di Sosuke.

La rilettura de “La Sirenetta” da parte di Hayao Miyazaki è un’esplosione di gioia visiva e fantasia. Il mare è rappresentato come un luogo di magia caotica, vibrante e a tratti inquietante. Lo tsunami non è una catastrofe terrificante, ma un’espressione della gioia incontenibile di Ponyo. Sotto la superficie di questa favola per bambini, Miyazaki inserisce i suoi classici temi ecologici: l’inquinamento che il padre di Ponyo, Fujimoto, disprezza, e la necessità di ristabilire un equilibrio tra il mondo degli uomini e quello selvaggio e magico del mare.

Whale Rider (2002)

In una tribù Maori della Nuova Zelanda, la linea di discendenza maschile dei capi viene interrotta. La giovane Paikea, nipote del capo attuale, sente un profondo legame spirituale con i suoi antenati e con il mitico cavaliere delle balene da cui discendono. Nonostante il rifiuto del nonno, che crede che solo un uomo possa guidare il popolo, Pai dovrà dimostrare di essere la leader predestinata.

Questo film neozelandese è una favola moderna potente e commovente. L’oceano è l’elemento centrale dell’identità e della spiritualità Maori; è la via attraverso cui gli antenati sono giunti e la fonte del potere spirituale della tribù. Il legame di Pai con le balene è la manifestazione di questo sacro vincolo. La scena culminante in cui cavalca una balena non è solo un atto di coraggio, ma una comunione spirituale che sana la frattura tra un passato rigido e un futuro in cui la leadership può assumere una nuova forma, riaffermando il ruolo centrale del mare nell’identità del suo popolo.

L’Avventura (1960)

Durante una gita in yacht al largo delle Isole Eolie, una giovane donna di nome Anna scompare misteriosamente. Il suo amante, Sandro, e la sua migliore amica, Claudia, iniziano a cercarla. Tuttavia, la loro ricerca si trasforma presto in un viaggio senza meta attraverso una Sicilia arida e desolata, mentre tra i due nasce una nuova e incerta relazione sentimentale.

Capolavoro di Michelangelo Antonioni e punto di svolta del cinema moderno, L’Avventura utilizza il paesaggio marino per riflettere il vuoto morale ed emotivo della borghesia. Le isole vulcaniche, spoglie e battute dal vento, e il mare immenso e impassibile, simboleggiano l’aridità interiore dei personaggi. La trama irrisolta è il cuore del film: la vera “avventura” non è la ricerca di Anna, ma il vagare senza scopo dei protagonisti in un mondo privo di significato. Il mare è un vuoto magnifico e indifferente, che inghiotte persone ed emozioni con la stessa noncuranza.

Still Walking (2008)

Una famiglia giapponese si riunisce per la commemorazione annuale della morte del figlio maggiore, Junpei, annegato quindici anni prima per salvare un altro ragazzo. Nell’arco di una giornata, attraverso conversazioni, pasti condivisi e piccoli rituali domestici, emergono vecchi risentimenti, dolori silenziosi e le complesse dinamiche di una famiglia segnata dal lutto.

Nel cinema di Hirokazu Kore-eda, il mare è una “presenza assente”. È il luogo della tragedia che ha definito la famiglia Yokoyama, un evento che aleggia su ogni interazione, sebbene l’acqua sia raramente mostrata. La casa di famiglia si trova vicino alla costa, e il suono lontano delle onde o il fischio di un traghetto fungono da sottili promemoria della perdita. Il dolore per l’annegamento ha generato una stasi emotiva, un’incapacità di andare avanti, specialmente per i genitori anziani. Il mare, quindi, non è un’ambientazione, ma una ferita aperta nel tempo.

The Isle (2000)

Su un lago isolato, una donna muta gestisce delle capanne da pesca galleggianti, che affitta a uomini ai quali offre anche il suo corpo. Sviluppa una relazione ossessiva e pericolosa con un uomo in fuga dalla legge, un legame espresso attraverso atti di violenza estrema, automutilazione e una dipendenza reciproca.

Sebbene ambientato su un lago, il film del regista sudcoreano Kim Ki-duk tratta questo specchio d’acqua come un “mare interno”, un corpo liquido che isola i suoi abitanti dalla società e dalle sue regole. L’acqua è uno spazio di una bellezza poetica e, allo stesso tempo, di una brutalità scioccante, che riflette l’esistenza marginale dei personaggi. L’ambientazione acquatica diventa un palcoscenico quasi primordiale dove Kim Ki-duk esplora emozioni crude e istintive, al di fuori dei confini della convenzione sociale, in un’opera tanto crudele quanto affascinante.

Breaking the Waves (1996)

In una rigida comunità calvinista sulla costa scozzese negli anni ’70, la giovane e ingenua Bess sposa Jan, un operaio di una piattaforma petrolifera. Quando Jan rimane paralizzato in un incidente sul lavoro, la convince a cercare altri amanti e a raccontargli i dettagli dei suoi incontri. Bess, credendo che questo sacrificio possa salvare Jan, interpreta la sua richiesta come un volere divino, intraprendendo un percorso di martirio sacro e profano.

Il mare, nel capolavoro di Lars von Trier, è il luogo dell’amore (il lavoro di Jan sulla piattaforma) e della tragedia (l’incidente che lo paralizza). Il paesaggio costiero, aspro e spazzato dal vento, rispecchia la natura repressiva e spietata della comunità religiosa. Lo stile crudo del film, con la sua macchina da presa a mano, immerge lo spettatore in questo ambiente brutale, rendendo il radicale atto di fede di Bess una lotta disperata contro la repressione sociale e la forza indifferente della natura.

Ondine (2009)

Syracuse, un pescatore irlandese solitario e con un passato difficile, un giorno tira su con le sue reti una donna bellissima e misteriosa. La sua giovane figlia, malata e costretta sulla sedia a rotelle, si convince che la donna sia una “selkie”, una creatura mitologica del folklore celtico. La sua presenza sembra portare fortuna e magia nella loro vita, confondendo i confini tra fiaba e realtà.

Neil Jordan utilizza la costa irlandese come un luogo dove il mito può ancora manifestarsi nel mondo moderno. Il mare è la fonte del mistero e della magia, il veicolo attraverso cui Ondine arriva a scuotere il cinismo e la disperazione del protagonista. La fotografia di Christopher Doyle evita la bellezza da cartolina, immergendo la fiaba in un mondo costiero aspro e realistico. Il mare non è solo uno sfondo, ma l’elemento che permette a una favola di mettere radici nella terra, suggerendo che un po’ di magia è necessaria per sopravvivere alla dura realtà.

For Those in Peril (2013)

Aaron è l’unico sopravvissuto a un incidente di pesca in un piccolo villaggio scozzese, in cui hanno perso la vita cinque persone, tra cui suo fratello maggiore. Emarginato e tormentato dal senso di colpa, Aaron si aggrappa alle leggende locali, convincendosi che un demone marino abbia rapito gli uomini e che suo fratello sia ancora vivo, intrappolato nelle profondità.

Il mare, in questo potente dramma scozzese, è un luogo di trauma e folklore. Il regista Paul Wright esternalizza il dolore e il senso di colpa del sopravvissuto attraverso il mito del “diavolo del mare”. La comunità usa la superstizione per dare un senso a una tragedia inspiegabile, trasformando Aaron in un capro espiatorio. Lo stile visivo ipnotico e frammentato, che mescola filmati di cellulari e reportage, riflette lo stato psicologico del protagonista, consumato da un lutto che la realtà non può contenere e che trova espressione solo nella mitologia oscura del mare.

Lucía (1968)

Un’epopea della storia cubana raccontata attraverso le vite di tre donne di nome Lucía in tre periodi cruciali: la guerra d’indipendenza del 1895, la lotta contro la dittatura negli anni ’30 e i cambiamenti culturali del post-rivoluzione negli anni ’60. Ogni segmento adotta uno stile cinematografico diverso per riflettere lo spirito del suo tempo.

Il terzo episodio di questo film monumentale di Humberto Solás è una commedia ambientata in una comunità rurale. Sebbene non sia strettamente costiero, il suo contesto vicino al mare lo rende un microcosmo della nuova Cuba. La lotta della protagonista contro il maschilismo del marito, che le impedisce di lavorare dichiarando “La rivoluzione sono io!”, esplora l’idea che un cambiamento politico non si traduce automaticamente in una liberazione sociale. Il mare vicino simboleggia un orizzonte di libertà ancora da raggiungere, dove gli ideali rivoluzionari si scontrano con le radicate strutture patriarcali.

The Color of Pomegranates (1969)

Un ritratto non narrativo e profondamente poetico della vita del trovatore armeno del XVIII secolo, Sayat-Nova. Il regista Sergei Parajanov abbandona la biografia convenzionale per creare una serie di “tableaux vivants” (quadri viventi), composizioni visive ricche di simbolismo religioso, folcloristico e nazionale per esplorare il mondo interiore del poeta.

Questo film non è ambientato sul mare, ma la sua inclusione in questa lista è un testamento alla sua profonda comprensione del simbolismo elementare. L’acqua è una presenza costante e vitale. I pesci vivi, che si dimenano tra le pagine di un libro, nelle mani del poeta o tra due pani, sono un’immagine ricorrente e potente. Essi simboleggiano la vita, la spiritualità, il sacrificio e il tormento. In questo capolavoro, l’acqua non è un’ambientazione, ma un elemento puro, un simbolo che si connette all’idea universale del mare come fonte di vita e mistero, dimostrando un approccio al tema che va oltre la rappresentazione letterale.

Il mare del cinema indipendente è, in definitiva, un luogo dell’anima. Questi film, con la loro audacia formale e profondità tematica, ci mostrano che le onde possono essere uno specchio delle nostre paure più profonde, un catalizzatore per la nostra resilienza o un portale verso il mito. Si allontanano dalla superficie per esplorare le correnti invisibili che modellano l’esperienza umana, offrendo visioni dell’oceano tanto complesse, terrificanti e indimenticabili quanto l’oceano stesso.

Una visione curata da un regista, non da un algoritmo

In questo video ti spiego la nostra visione

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Immagine di Fabio Del Greco

Fabio Del Greco

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