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Kaurismäki: Rocky secondo Aki ed i suoi irresistibili corti

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C’è chi il cinema di Aki Kaurismäki lo ha scoperto relativamente da poco. Magari col pur notevolissimo Miracolo a Le Havre (2011) o con L’altro volto della speranza (2017). E andrebbe già bene così, in un mondo che alla magia del grande schermo va gradualmente sostituendo la catena di montaggo delle serie televisive.

Ma chi vi scrive è tra coloro che il geniaccio finlandese lo attendevano al varco già quando, verso la metà degli anni ’90, si presentò al Palazzo delle Esposizioni di Roma, per accompagnare una corposa retrospettiva dei suoi lavori. Sugli schermi italiani erano comunque passati, come meteore, certi gioielli da lui diretti, vedi l’incantevole e malinconico Vita da bohème (1992).

Ma per quanto il suo humour stralunato si potesse intravvedere anche lì, non erano forse altrettanto note le punte di demenzialità, follia e irriverenza raggiunte talvolta dal cineasta scandinavo. Ebbene, il gustoso appuntamento capitolino servì pure a prendere confidenza con tali aspetti, presenti sia nella sua personalità che negli esiti più eccentrici di quella filmografia, talmente fuori dagli schemi da apparire unica, inimitabile.

Cominciamo proprio dall’uomo. Basti pensare che all’attesissimo incontro col pubblico Aki Kaurismäki non volle cominciare a parlare, restando muto di fronte alle prime domande, finché non fossero state distribuite tra i relatori diverse bottiglie di birra. All’inizio gli organizzatori pensavano che scherzasse. Ma lui continuava a starsene zitto.

E allora chi lo ospitava dovette rassegnarsi a ordinare presso il bar del museo un bel po’ di Peroni in bottiglia, compresa quella che il sottoscritto, con una faccia tosta che venne subito apprezzata, riuscì ad arraffare e farsi autografare sull’etichetta… cimelio pressoché unico, nel panorama degli autografi concessi ai festival.

Insomma, sembrerebbe esserci una scarica di salutare follia che dall’autore finlandese si espande sorniona, propagandosi nell’aria circostante come anche nei suoi racconti cinematografici, nella sua surreale inventiva, nei suoi personaggi più assurdi, stilizzati, improbabili.

E questo appariva ancor più evidente agli esordi, quando il raffinato bianco e nero di un lungometraggio come Calamari Union (1985) si prestava, per esempio, a ospitare una trama noir fatalmente eterea e bizzarra; tanto da schierare  ai blocchi di partenza ben 15 svitati, legati tra loro da un piano delirante, quattordici dei quali hanno nome Frank e uno soltanto Pekka. Nessuno si preoccupi, tutto sotto controllo: il resto del plot non sarà infatti meno fuori di testa delle premesse.

Kaurismäki

Eppure, è nei corti che le stravaganze di Kaurismäki rendono al massimo, fondendo quella vena eccentrica e naïf con un istinto ribelle, con l’affiorare di un umorismo raggelato e con una musicalità dai tratti sinuosi, eleganti, per quanto ancorata alle pittoresche tenute e al rock scanzonato dei Leningrad Cowboys.  Ciuffi ribelli. Scarpe a punta.

Abbigliamento e riferimenti iconografici beffardamente a metà strada tra mitologia sovietica e Stati Uniti anni ’50. L’originalissima band finnica, musa di pellicole picaresche e demenziali come il cult assoluto  Leningrad Cowboys Go America (1989) e il meno fortunato sequel Leningrad Cowboys Meet Moses (1994), ha peraltro animato una discreta scorta di corti e videoclip, sarabande davvero indiavolate, in grado di scivolare con spavalda euforia dalla ballad struggente ad ardite rivisitazioni di classici del rock’n’roll.

E se Thru the Wire (1987) parafrasava con classe gli stereotipi della vecchia Hollywood, Those Were the Days (1992) ironizzava con leggiadria sul fascino di Parigi e These Boots (1992) proponeva una bislacca, coloratissima, irresistibile contro-storia della Finlandia in musica, la più indimenticabile delle stilettate era giunta proprio all’inizio dell’immaginifico tour: nel 1986, per la precisione, con Rocky VI. Ovvero come far scricchiolare il mito creato da Sylvester Stallone a colpi di stelle rosse, balalaike, slitte nella tundra e pesanti cazzotti!

Cazzotti subiti a raffica e senza una reazione adeguata, a dire il vero, dal fin troppo esile boxer americano. Fino alla tanto auspicata catastrofe a stelle e strisce. Evidentemente ad Aki Kaurismäki la sconfitta subita appena un anno prima dal leggendario Ivan Drago non era proprio andata giù.

Come poteva uno yankee cresciuto ad hamburger e coca cola sopraffare l’energico figlio della steppa, emerso prepotentemente all’ombra del Cremlino? Eresia! E per rimettere le cose a posto si è inventato, con la complicità dei già menzionati Leningrad Cowboys, questa folle e gagliarda parodia, il cui asciutto bianco e nero trascina lo spettatore in una stilizzata rivincita pugilistica, che sa di sberleffo dalla prima all’ultima inquadratura; ma con indiscutibile perizia registica, amplificata peraltro dalla travolgente colonna sonora e da un montaggio assai spigliato, sia durante la preparazone dell’incontro che nelle scene così grottesche girate sul ring.

Rocky VI lo potete trovare  facilmente su Youtube e, che amiate o meno Stallone, non potrete fare a meno di concedervi un ghigno, di fronte al tragicomico esito della sfida lanciata al suo alter ego dall’oltremodo efficace, per quanto grezzissimo, campione sovietico.    

Stefano Coccia

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