I cortometraggi sono da sempre la palestra dei giovani registi che iniziano la loro carriera cinematografica nel cinema indipendente. Convenzionalmente sono considerati cortometraggi tutti i film che durano meno di 40 minuti, secondo l’Academy chi assegna l’Oscar.
I registi iniziano quasi sempre producendo da soli o con un piccolo finanziamento di parenti amici o associazioni i propri film di cortometraggio. Anche Martin Scorsese ad esempio ha iniziato autoproducendo il film breve The Big Shave, che lo portò all’attenzione di alcuni produttori per realizzare il suo primo film di lungometraggio.
David Lynch ha una lunghissima produzione di straordinari cortometraggi sia all’inizio della carriera, sia successivamente. Per David Lynch, che è un regista che ama sperimentare dalla pittura alle serie tv fino ai videoclip, il cortometraggio è una delle forme di espressione preferite.

La storia del cinema nasce proprio con i cortometraggi. Thomas Edison Fu uno dei primi a proporli con il modello di visione individuale del kinetoscopio. Successivamente all’invenzione del Cinematografo dei fratelli Lumière, tutti i film proiettati in pubblico con modalità collettiva erano film di cortometraggio. Essi duravano anche meno di un minuto.
Il limite di durata delle bobine cinematografiche infatti era di pochi minuti. Realizzare film di lungometraggio era un’attività complicata e costosa, difficilmente raggiungibile con le tecnologie di post-produzione di quell’epoca.
Molti dei cortometraggi girati dagli operatori che i fratelli Lumière mandarono in tutto il mondo erano brevi documentari di viaggio, formati da un’unica ripresa, senza nessun intervento di montaggio.
Molte società di produzione nell’epoca del muto producevano solo cortometraggi. Lo spettacolo cinematografico infatti era concepito come un pacchetto che comprendeva un film principale ed un film breve, che veniva proiettato di solito prima del lungometraggio.
Cortometraggi famosi

Charlie Chaplin ha iniziato la sua carriera realizzando esclusivamente I famosi cortometraggi comici con il personaggio di Charlot. Il cortometraggio comico era uno degli spettacoli più famosi e popolari dell’epoca del muto. Anche i comici Laurel e Hardy realizzarono quasi esclusivamente cortometraggi fino alla fine degli anni trenta, quando la produzione si spostò completamente sui lungometraggi.
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Altri cortometraggi famosi dell’epoca furono i film di Joe McDoakes e i cortometraggi di animazione di studi come Walt Disney Productions e Warner Bros. Cartoons. Verso la metà degli anni cinquanta il cortometraggio cinematografico era completamente scomparso, mentre i cortometraggi di animazione continueranno ad essere famosi e popolari.
Cortometraggi d’animazione
Il cortometraggio infatti era il formato preferito anche dalla televisione per trasmettere i film di animazione. Cortometraggi come quelli di Hanna Barbera e della Pantera Rosa prodotti da grandi Studios hanno continuato ad essere distribuiti nelle televisioni per decenni, con puntate nuove fino agli anni Ottanta e repliche durante gli anni 90.
Oggi la casa di produzione più importanti che continua la tradizione del cortometraggio è la Pixar. Nel 2007 la Pixar è stata acquistata dalla Disney che continua a produrre cortometraggi live-action come la serie dei Muppets ed altri cortometraggi realizzati per il canale YouTube.
Cortometraggi nei Festival
I cortometraggi sono stati spesso relegati al circuito dei Festival. Quasi tutti i festival più prestigiosi ed importanti hanno una categoria riservata al cortometraggio, compreso il premio Oscar. Negli ultimi anni c’è stata un’importanza crescente del cortometraggio nel circuito dei Festival, grazie ai canali digitali che permettono di guardare film brevi e fuori dai formati di durata tradizionali.
In effetti, a partire dagli anni 2000, La supremazia del film di lungometraggio come formato standard sta perdendo importanza. Sono nate molte piattaforme digitali che danno estremamente rilievo alla distribuzione di film di cortometraggio.
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Cortometraggi amatoriali
. Non c’è dubbio che vi siano alcuni cortometraggi realizzati con uno smartphone che sono superiori a cortometraggi professionali realizzati da uno studio con un budget grande.
È un esempio evidente di come le idee, le emozioni, la sensibilità e la visione del mondo di un cortometraggio amatoriale possono essere a volte molto più interessanti di un film professionale con attori famosi. La confezione non è essenziale: con lo sviluppo della tecnologia che democratizza l’arte cinematografica questo sta diventando sempre più evidente.
I grandi studi però ora si assicurano il monopolio attraverso la distribuzione, il marketing e la fidelizzazione del pubblico. La tecnologia digitale infatti non basta per convincere il pubblico a guardare un cortometraggio o un film indipendente.
Attraverso complesse strategie di omologazione delle preferenze del pubblico. Pilotare il pubblico di massa resta un’operazione abbastanza semplice quando non esiste una coscienza critica diffusa.
Cortometraggi d’autore
Non c’è dubbio che il cortometraggio d’autore è uno dei film più realizzati dai grandi maestri del cinema all’inizio della loro carriera. Da questo punto di vista uno dei motivi è che il cortometraggio d’autore e consente di sperimentare oltre il film di lungometraggio, più costoso e difficile da realizzare.
Il cortometraggio è il territorio ideale per il cinema sperimentale e d’essai, per costruire nuove forme di avanguardia. Nel mondo del cortometraggio d’autore troviamo film con una forte componente visiva, privi di una narrazione tradizionale, a volte privi di dialoghi.
Anche il formato stesso del cortometraggio costringe i registi ad inventare cose nuove, a cercare la sintesi cinematografica degli eventi, spesso con un valore simbolico e metaforico.
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La lista dei migliori cortometraggi da vedere assolutamente
Ecco una selezione curata di film che incarnano perfettamente la potenza e la versatilità del formato breve: un viaggio attraverso opere che hanno infranto le convenzioni, toccato l’anima con l’animazione, documentato l’indicibile e catturato frammenti di vita con una lucidità spietata. Questi sono cortometraggi da vedere assolutamente, capolavori che dimostrano come, a volte, i racconti più brevi siano quelli che restano con noi più a lungo.
Un Chien Andalou
Nato da un incontro tra due sogni – quello di Luis Buñuel di un occhio tagliato da un rasoio e quello di Salvador Dalí di formiche che brulicano da una mano – Un Chien Andalou è un assalto di sedici minuti alla logica narrativa. Privo di una trama lineare, il film procede per associazioni libere e immagini scioccanti, da un uomo che trascina pianoforti carichi di asini in putrefazione a una mano trafitta da cui emergono insetti, sfidando ogni interpretazione razionale.
Questo cortometraggio non è semplicemente un film, è un manifesto. L’iconica e brutale sequenza iniziale, in cui un occhio viene reciso, è una dichiarazione programmatica: per entrare in questo nuovo mondo cinematografico, lo spettatore deve abbandonare il suo sguardo convenzionale, deve accettare di essere ferito nella sua percezione. Buñuel e Dalí, seguendo la regola ferrea di rifiutare qualsiasi immagine che potesse avere una spiegazione razionale o culturale, usano il formato breve per scatenare la potenza pura dell’inconscio, dell’automatismo psichico teorizzato dai surrealisti. È un atto di liberazione violenta che dimostra come il cortometraggio possa essere non solo un veicolo di storie, ma uno strumento per alterare radicalmente la coscienza.
Meshes of the Afternoon
Una donna, interpretata dalla stessa regista Maya Deren, torna a casa, si assopisce su una poltrona e sprofonda in un sogno labirintico. All’interno di questo sogno, rivive ossessivamente la stessa sequenza di eventi, ma ogni volta con variazioni sempre più sinistre. Oggetti quotidiani – una chiave, un coltello, un telefono – diventano carichi di minaccia, mentre la protagonista si sdoppia, si triplica, inseguita da una misteriosa figura incappucciata con il volto di uno specchio.
. Maya Deren, madrina del cinema sperimentale americano, usa il cortometraggio per mappare la psiche, trasformando lo spazio domestico in un teatro dell’inconscio. Il film diventa un “psicodramma poetico”, dove la narrazione circolare e la ripetizione non servono a scioccare, ma a esplorare temi come l’identità, la dualità e l’angoscia esistenziale da una prospettiva squisitamente femminile. Deren addomestica il surrealismo, lo porta tra le mura di casa e dimostra che il formato breve è lo strumento perfetto per la più profonda e personale delle introspezioni.
La Jetée
In una Parigi sotterranea e post-apocalittica, un uomo è ossessionato da un’immagine della sua infanzia: il volto di una donna e la morte di un uomo sulla banchina (“la jetée”) dell’aeroporto di Orly. Questa memoria, così potente, lo rende il candidato ideale per un esperimento di viaggio nel tempo. Viene inviato nel passato, dove ritrova e si innamora di quella donna, in un ciclo temporale destinato a chiudersi tragicamente proprio su quella stessa banchina.
Chris Marker definisce la sua opera un “photo-roman”, un fotoromanzo. E infatti, La Jetée è composto quasi interamente da fotografie fisse, un montaggio di istanti congelati accompagnato da una voce narrante. Questa scelta stilistica non è un vezzo, ma il cuore pulsante del film. Marker disinnesca il meccanismo primario del cinema – l’illusione del movimento – per costringerci a riflettere sulla natura stessa del tempo e della memoria. La memoria non è un flusso continuo, ma una collezione di istanti, di fotografie impresse nella mente. La forma del film è una perfetta metafora del suo contenuto. In questo capolavoro di fantascienza filosofica, il cortometraggio diventa il laboratorio ideale per un esperimento radicale sul linguaggio cinematografico, dimostrando che l’emozione più potente può scaturire non da ciò che si mostra, ma da ciò che si nega.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
In questo video ti spiego la nostra visione
Luxo Jr.
In una stanza buia, una grande lampada da tavolo, Luxo Sr., osserva la sua piccola e iperattiva progenie, Luxo Jr., giocare con una palla colorata. L’entusiasmo del piccolo è tale che finisce per sgonfiare accidentalmente il suo giocattolo. Dopo un attimo di sconforto, Luxo Jr. scompare e riappare trionfante, spingendo una palla da spiaggia molto più grande, sotto lo sguardo rassegnato e affettuoso del genitore.
Questi due minuti hanno cambiato la storia dell’animazione. Nato come una demo tecnica per dimostrare le capacità del Pixar Image Computer, in particolare la gestione delle ombre proprie (“self-shadowing”), Luxo Jr. è diventato il mito fondativo della Pixar. John Lasseter, applicando i principi classici dell’animazione disneyana a forme geometriche inanimate, ha compiuto un miracolo: ha dato un’anima a due lampade. Il cortometraggio ha dimostrato che la computer grafica non era solo uno strumento freddo e tecnico, ma un nuovo medium per raccontare storie e veicolare emozioni. È l’atto di nascita della filosofia Pixar: la tecnologia al servizio del personaggio e del cuore.
12 cm di tacco

Cortometraggio, thriller, di Fabio Giovinazzo, Italia, 2018.
"12 cm di tacco" è un thriller sulla morte surreale di un attore senza nome dove le indagini seguono linee capricciose e bizzarre.
LINGUA: italiano
SOTTOTITOLI: inglese
Vincent
Vincent Malloy è un bambino di sette anni, educato e gentile. Ma nella sua mente, egli è il suo idolo, l’attore Vincent Price. Si rinchiude nella sua stanza, trasformandola in un laboratorio gotico dove conduce esperimenti sul suo cane Abercrombie e si strugge per la perdita della sua amata, sepolta viva, ispirandosi ai racconti di Edgar Allan Poe. La sua fantasia macabra si scontra con la banale realtà di una madre che lo vorrebbe semplicemente mandare a giocare fuori, al sole.
Realizzato in stop-motion e in un bianco e nero espressionista mentre lavorava come animatore alla Disney, Vincent è la Stele di Rosetta dell’intera filmografia di Tim Burton. In questi sei minuti c’è già tutto il suo universo: l’emarginato sognatore, il fascino per il macabro, il contrasto tra un’immaginazione oscura e la colorata banalità dei sobborghi, l’amore per il gotico. Il formato breve ha permesso a Burton di creare un distillato purissimo della sua estetica e delle sue ossessioni, un manifesto personale e intimo. Guardare
Vincent significa accedere al codice sorgente di un autore che avrebbe definito l’immaginario di intere generazioni.
Bao
Una madre cino-canadese, sola e afflitta dalla sindrome del nido vuoto, sta preparando dei baozi, i tipici ravioli al vapore. Improvvisamente, uno di questi prende vita. La donna lo cresce come un figlio, proteggendolo ossessivamente dal mondo esterno. Ma il “raviolo-bambino” cresce, diventa un adolescente ribelle e un giorno decide di andarsene di casa con la sua fidanzata. In un gesto disperato e scioccante, la madre lo afferra e lo mangia.
Vincitore del premio Oscar, Bao segna un’evoluzione fondamentale nel cortometraggio Pixar. Se opere come Luxo Jr. parlavano un linguaggio universale, quasi privo di parole, il film di Domee Shi affonda le radici in un’esperienza culturale profondamente specifica. La storia, ispirata alla vita della regista, utilizza il cibo e le dinamiche familiari della comunità di immigrati cinesi in Canada per raccontare una metafora universale sull’amore materno e sul dolore del lasciare andare. Il successo di
Bao ha dimostrato che il pubblico era pronto per narrazioni più personali e diverse, agendo come un perfetto “proof of concept” che ha aperto la strada a Shi per dirigere il lungometraggio Red.
World of Tomorrow
Una bambina di nome Emily viene contattata da una sua clone di terza generazione, proveniente da 227 anni nel futuro. La clone adulta porta la piccola Emily in un viaggio surreale attraverso i suoi ricordi, archiviati in una sorta di internet del futuro chiamato “Outernet”. Mentre la clone racconta con tono malinconico e distaccato una vita di amori perduti, lavori sulla luna e la ricerca dell’immortalità, la piccola Emily risponde con le divagazioni ingenue e assurde tipiche di una bambina di quattro anni.
Don Hertzfeldt compie un’impresa miracolosa: crea una delle opere di fantascienza più profonde e commoventi degli ultimi decenni usando un’animazione minimalista, quasi infantile, con personaggi stilizzati. Il genio di World of Tomorrow risiede proprio in questo contrasto: la complessità filosofica del monologo della clone (che affronta temi come la memoria, la mortalità, la tecnologia e il significato della vita) si scontra con la semplicità disarmante delle reazioni della bambina (doppiata dalla vera nipotina di Hertzfeldt). Questo cortometraggio dimostra che non servono budget colossali ed effetti speciali per esplorare le grandi domande dell’esistenza. A volte, basta un disegno stilizzato per arrivare dritti al cuore della condizione umana.
Le Ballon Rouge
Un bambino di nome Pascal trova un grande palloncino rosso legato a un lampione nelle strade grigie e austere della Parigi del dopoguerra. Libera il palloncino, che si rivela essere dotato di una propria volontà e coscienza. Diventano amici inseparabili: il palloncino segue Pascal a scuola, in autobus, a casa, come un fedele animale domestico. La loro amicizia magica, però, attira l’invidia di un gruppo di bulli, che finiranno per distruggere il palloncino a sassate.
Vincitore della Palma d’Oro per il miglior cortometraggio e, caso unico nella storia, dell’Oscar per la migliore sceneggiatura originale, Le Ballon Rouge è un’opera di pura poesia visiva. Albert Lamorisse realizza un film quasi muto, dove la narrazione è affidata interamente alle immagini. Il contrasto cromatico tra il rosso vibrante del palloncino e i toni desaturati della città crea una potente metafora visiva dell’innocenza, della fantasia e della gioia infantile che si scontrano con la prosaicità e la crudeltà del mondo adulto. Il finale, in cui tutti i palloncini di Parigi accorrono per sollevare Pascal e portarlo in cielo, è un momento di trascendenza cinematografica che consacra il film come un’allegoria senza tempo sulla perdita e sulla speranza.
B-52

Cortometraggio, dramma, di Flavio Nani, Italia, 2021.
In un prossimo futuro, una nuova tecnologia ci rende ancora più alienati e iperconnessi. Marco, schiacciato da una vita noiosa e monotona, cerca il suo posto nel mondo. Quando incontra Nico al bancone di un bar, pensa di averlo finalmente trovato. Ma finirà per essere solo un pezzo di un gioco più grande, con implicazioni inquietanti. Un cortometraggio di finzione per denunciare la pericolosa deriva culturale che si nasconde dietro i crimini d’odio a sfondo razzista e xenofobo, dramma sociale in continua crescita – in Italia e nel resto del mondo – e potenzialmente in grado di generare un circolo vizioso senza fine. B·52 è il cocktail superalcolico che deve il suo nome al bombardiere Boeing B-52, impiegato dagli americani nella guerra del Vietnam per sganciare bombe al napalm. Il film breve diretto dal regista Flavio Nani, patrocinato da Amnesty International Italia in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale. Ambientato in un futuro prossimo, il film mette in luce alcune dinamiche che si stanno verificando nel mondo in cui viviamo. L’integrazione razziale ed i suoi promotori diventano un bersaglio da eliminare, in uno schema malefico dove il confine tra vittima e carnefice diventa difficile da identificare. La veridicità della narrazione di B-52 è in grado di restituire la deriva culturale che abbiamo già sotto i nostri occhi, Il contesto distopico rafforza l’autenticità del racconto. Non si tratta di un film di fantascienza: lo spettatore è portato a chiedersi quanto sia imminente lo scenario descritto nel film.
LINGUA: italiano
SOTTOTITOLI: inglese
Nuit et Brouillard
Dieci anni dopo la liberazione dei campi di sterminio nazisti, la macchina da presa di Alain Resnais si muove lentamente, con carrellate fluide e a colori, tra le rovine silenziose e verdeggianti di Auschwitz e Majdanek. A queste immagini del presente (1955), pacifiche e quasi pastorali, si contrappongono, con tagli netti, le terrificanti riprese d’archivio in bianco e nero della vita e della morte nei campi. Una voce narrante, pacata e quasi clinica, commenta l’orrore, ponendo domande sulla memoria, la responsabilità e l’oblio.
Nuit et Brouillard non è un documentario, ma un saggio filosofico, un “antidocumentario” che interroga l’atto stesso di ricordare. Resnais capisce che l’orrore dell’Olocausto è irrappresentabile nella sua interezza e che qualsiasi tentativo di drammatizzazione rischierebbe di banalizzarlo. La forza del cortometraggio risiede proprio nella sua struttura dialettica: il contrasto insopportabile tra la quiete del presente e l’atrocità del passato. Le immagini a colori dei campi vuoti sono forse più spaventose di quelle d’archivio, perché ci mostrano con quale facilità l’erba possa ricrescere sull’orrore, con quale rapidità la memoria possa sbiadire. Il film è un monito potentissimo, una chiamata alla responsabilità dello spettatore, che viene costretto a confrontarsi con una domanda terribile: se è successo una volta, perché non potrebbe accadere di nuovo?
Wasp
Zoë è una giovane madre single con quattro figli piccoli e senza un soldo. La sua vita è una lotta costante per la sopravvivenza in un degradato quartiere popolare inglese. Un giorno, incontra un vecchio amico, Dave, che le chiede di uscire. Disperata per un momento di normalità e di evasione, Zoë accetta, ma non sa a chi lasciare i bambini. Li porta con sé, dicendo a Dave che sta solo facendo da babysitter, e li lascia fuori dal pub con un sacchetto di zucchero come cena, in attesa che lei finisca il suo appuntamento.
. La regista Andrea Arnold, con la sua macchina a mano incollata ai personaggi, ci immerge nella vita di Zoë senza filtri e senza giudizio. Il formato breve è perfetto per questo tipo di narrazione “slice of life”: non c’è bisogno di un arco narrativo complesso o di una risoluzione. I 24 minuti del film sono sufficienti per trasmettere l’angoscia, la fame (letterale e metaforica) e le scelte impossibili di una donna intrappolata in un ciclo da cui sembra non esserci via d’uscita. È un ritratto umano, empatico e devastante.
Six Shooter
Un uomo di nome Donnelly, il cui volto è una maschera di dolore trattenuto, ha appena perso la moglie. Durante il triste viaggio in treno verso casa, si ritrova a condividere lo scompartimento con una giovane coppia distrutta dalla morte del figlio neonato e con un ragazzo logorroico, sboccato e palesemente psicotico. La conversazione che ne segue è un surreale e macabro balletto di dolore, violenza improvvisa e umorismo nerissimo, che culmina in una sparatoria e in un finale tanto tragico quanto assurdo.
Con il suo debutto alla regia, il drammaturgo Martin McDonagh firma un’opera che è un perfetto distillato del suo intero universo creativo. Six Shooter è una commedia nera che cammina costantemente sul filo del rasoio, mescolando la tragedia più profonda con dialoghi bizzarri e situazioni grottesche (come il racconto di una mucca esplosa per il gas intestinale). Il cortometraggio funziona come un laboratorio in cui McDonagh sperimenta e perfeziona quel funambolismo tonale che diventerà il suo marchio di fabbrica in film come
In Bruges e Tre manifesti a Ebbing, Missouri. È la dimostrazione di come il formato breve possa essere utilizzato per forgiare una voce autoriale unica e inconfondibile.
The Neighbors’ Window
Alli, una madre di mezza età oberata dalla routine familiare, trova un’inaspettata via di fuga osservando dalla finestra i suoi nuovi vicini: una coppia di ventenni belli, liberi e pieni di vita. La sua iniziale curiosità si trasforma presto in un’ossessione voyeuristica, un misto di invidia e nostalgia per la giovinezza perduta. Giorno dopo giorno, spia la loro passione, le loro feste, la loro apparente perfezione. Ma un giorno, lo spettacolo cambia, e Alli diventa testimone di una tragedia che ribalterà completamente la sua prospettiva.
Ispirato a una storia vera e vincitore dell’Oscar, The Neighbors’ Window è un esempio magistrale di come un cortometraggio possa orchestrare un potente ribaltamento emotivo. Per gran parte dei suoi 20 minuti, il film costruisce con abilità un sentimento universale e riconoscibile: l’idea che l’erba del vicino sia sempre più verde. Ci identifichiamo nell’invidia di Alli. Poi, nel finale, la rivelazione della malattia del giovane vicino frantuma questa percezione, trasformando l’invidia in empatia e, infine, in gratitudine per la propria vita, con tutte le sue imperfezioni. La forza del film risiede proprio in questa economia narrativa: la capacità di costruire e poi decostruire una singola, potente premessa emotiva con un’efficienza che un lungometraggio difficilmente potrebbe eguagliare.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
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