Il regista, che si divide tra cinema e teatro, ha realizzato la mirabile ‘space opera’ selezionata per il concorso cortometraggi, “Pale Blue Dot: A Tale of Two Stargazers”
Ancora un apprezzato passaggio dal triestino Science + Fiction al capitolino Indiecinema Film Festival. Da noi scoperto a Trieste, Pale Blue Dot: A Tale of Two Stargazers era già stato inserito all’interno di Radar – Esploratori dell’immaginario, tra i cortometraggi di genere proiettati nella capitale a settembre. E ora lo ritroviamo anche nel Concorso Cortometraggi di Indiecinema Film Festival, fiero rappresentante di un filone, la space opera, poco praticato per varie ragioni – alcune delle quali di ordine squisitamente economico – in Italia. Eppure, nonostante il budget ridotto, Matteò Scarfò è riuscito a realizzare un piccolo film dal respiro internazionale, che omaggia la fantascienza cinematografica con classe, idee e notevoli suggestioni visive. Abbiamo voluto sapere direttamente da lui come ha fatto!
Il cinema di genere come Stella Polare
Pale Blue Dot: A Tale of Two Stargazers non è la tua prima incursione in un terreno, quello relativo al cinema di genere, che ti ha già visto realizzare altri lavori e che potrebbe vederti nuovamente impegnato. Diciamo bene, Matteo?
Ciao, sì è corretto. Ho realizzato un lungometraggio nel 2017 dal titolo L’ultimo sole della notte, un tipo di fantascienza sociale e umanista ispirata ai romanzi “Il condominio” e “L’isola di cemento” di James Ballard. È di genere post apocalittico, ma diverso, più metafisico. Pone molte domande sul nostro presente più che sul nostro futuro, anche se nel film, che si svolge su due piani temporali, il presente e il futuro si influenzano a vicenda. Il mio primo cortometraggio, del lontano 2006, intitolato Fantascienza in pillole, era stato invece ispirato da un altro autore, Philip K. Dick, e trattava di mondi alternativi realizzati con l’uso delle droghe e dei computer. Pale Blue Dot a sua volta prende spunto da Isaac Asimov e Carl Sagan. Prendo sempre qualcosa dalla letteratura. Ho anche esplorato un po’ l’horror con dei racconti intitolati “Uomo mangia uomo” e il corto Ricordati di santificare le feste nell’antologia Death of the ten commandments, ma entrambi sono virati sulla commedia e sul surreale.
Questo tuo cortometraggio rappresenta una delle rare declinazioni italiane della fantascienza e in particolare della “space opera”, nelle quali ci siamo imbattuti di recente. Quanto è difficile realizzare un corto di questo tipo in Italia? E quali sono i modelli – sia internazionali che eventualmente italiani – cui guardi con maggior ammirazione, relativamente a tale genere cinematografico?
Credo che realizzare la space opera sia difficilissimo, io stesso nel mio piccolissimo sono andato incontro a difficoltà enormi, ma poi alla fine ci sono riuscito. Non credo che manchino le abilità, o le tecniche, o i mezzi. Credo che la mancanza della fantascienza, non solo della space opera, nel nostro paese sia dovuto a una cultura che non l’ha mai presa seriamente e quindi non si investe in tale direzione. Eppure, nel 1997, Nirvana di Salvatores fu un grande successo già in sala. Oggi mi piace molto la fantascienza di Mike Cahill, autore di Another Earth oppure Chloe Zhao, Richard Linklater. Mi piace il cinema russo di fantascienza e tra gli italiani onirici Matteo Garrone e Mario Martone.
Avventurandoci nell’ignoto
Pare che anche dietro la scelta di un titolo così lungo vi siano riferimenti particolari. Cosa puoi dirci a riguardo?
Pale Blue Dot è una fotografia del pianeta Terra scattata il 14 febbraio 1990 dalla sonda spaziale Voyager 1 da una distanza record di circa 6 miliardi di chilometri, oltre l’orbita di Nettuno, voluta dall’astrofisico e scrittore Carl Sagan. Il pallido punto blu nell’immensità oscura dell’universo è la nostra Terra, la nostra casa. Migliaia di idee, di persone, di dottrine, di vanità, di scoperte, di gioie e dolori, di “comandanti supremi” e di follie, di guerre e di amori. Tutto è stato su quel palco nella vastità del cosmo. Sagan dice che non c’è un’altra casa, che ci piaccia o meno, per il momento la Terra è dove ci giochiamo le nostre carte. Mi sembra molto attuale. Il sottotitolo invece è che alla fine è anche un racconto di immaginazione, di sogni, tra due “osservatori delle stelle”, idealmente uniti dal sogno di estendere il proprio sguardo ben oltre i propri limiti. Un po’ come il desiderio profondo dell’umanità.
I paesaggi in cui si avventura l’esploratrice di Pale Blue Dot: A Tale of Two Stargazers sono maestosi, di notevole impatto. Come – e soprattutto dove – hai trovato location del genere?
In alcune di quelle location ci sono quasi cresciuto. Quelle più grandi vengono dal Parco Nazionale della Sila in Calabria, che in parte conoscevo già. Poi però ci sono andato con una guida esperta e insieme abbiamo trovato dei luoghi che altrimenti sarebbe stato impossibile vedere. Abbiamo girato una scena in una gola dove non c’è strada per arrivare, bisogna provare a scendere lungo uno strato di roccia tra gli arbusti. Purtroppo ne ho dovute lasciare molte fuori: vallate, strapiombi, sorgenti d’acqua, boschi di alberi antichissimi, gole e quant’altro. L’altra località, non meno bella, è intorno alla città di Terracina nel Lazio, scoperta grazie all’artista Gemma Marigliani, che ha la particolarità di avere delle enormi rocce grigie che sbucano dal terreno. Per me era perfetta la sensazione “aliena”. Infine gli scogli di Punta Rossa vicino il Circeo, altra location maestosa per il finale.
Un altro aspetto che ci ha positivamente impressionato è la cura dei costumi, del trucco dei personaggi, di quei piccoli accessori o di altri accorgimenti che, nonostante le ristrettezze di un budget modesto, riescono a suggerire la presenza di una civiltà evoluta. Cosa puoi dirci di come si sono sviluppate sul vostro set queste componenti, decisamente importanti?
Ho lavorato creando un gruppo tra il prop master Manuel De Cicco e la costumista Francesca Di Giuliano. Il primo si è occupato dei caschi, delle armi, dei piccoli oggetti, la seconda di creare tutto il vestiario retro-futuristico della protagonista esploratrice interstellare e del robot “nativo della terra”, e anche poi dei personaggi cattivi rigorosamente vestiti alla “imperiale”. Non è stato facile inventare un mondo per pochi minuti. Per alcune cose ci siamo ispirati alla fantascienza d’avventura degli anni ‘30, quella delle riviste Amazing Stories, Analog, Incredible Science Fiction, di Flash Gordon e poi anche da quella un po’ pop degli anni ‘60. Per altre, come la maschera del robot, a Battlestar Galactica e agli elmi degli antichi greci. Per l’astronave della protagonista ho voluto una forma tonda. Mi è sempre piaciuta questa forma per una nave spaziale, come l’avevo vista in certe illustrazioni di Peter Elson. Per alcuni oggetti ci siamo sbizzarriti, come le statuine pagane che il robot prega in una scena, figure umane ricostruite con plastica e bulloni. Le conservo ancora a casa. Il trucco di Nadia Mastroieni ci ha aiutato moltissimo a raggiungere la moda dei capelli o del trucco che potrebbero avere degli umani abitanti di un altro pianeta. Sono molto soddisfatto di come il trucco abbia arricchito tantissimo i personaggi, come i capelli arancioni e le labbra blu della protagonista, colori “punk” a sottolineare la sua diversità dai comandanti glabri.
Il cast, tra cinema e teatro
Assai credibile poi il cast, a nostro avviso. Conoscevamo già Francesca La Scala per la sua intensa attività a teatro. Lei e gli altri interpreti li hai scelti, quindi, facendoti ispirare non solo dalle precedenti esperienze cinematografiche, ma anche da quelle teatrali?
In parte. Per la parte della protagonista avevo bisogno di un’attrice che fosse a suo agio con l’inglese e che allo stesso tempo avesse un volto particolare, un po’ alla David Bowie de L’uomo che cadde sulla Terra. Ho trovato Valeria Belardelli su suggerimento di un’amica e penso di aver avuto esattamente quello che volevo. Valeria è un’attrice eccezionale, pienamente cinematografica. Allo stesso tempo la sua controparte robotica è stata interpretata dal mio amico attore e performer Alessandro Damerini che ha fatto un lavoro sul corpo che mi ha stupito più che mai. Francesca La Scala ha studiato moltissimo per interpretare la vera cattiva del film, una subdola presenza che appare anche irriconoscibile grazie al trucco, insieme a Enzo de Liguoro che appare nel cammeo di una glaciale Guida Suprema.
Per finire, vuoi tracciare brevemente qual è stato finora il tuo percorso artistico, in cui sappiamo che hanno avuto importanza, per l’appunto, sia il cinema che il teatro?
Ho realizzato penso molte cose, anche se poche rispetto a quelle che avrei voluto. Sono fiducioso che nel futuro potrò ancora esprimermi con il mio mezzo preferito, il cinema, e con il mio genere preferito, la fantascienza. Però sono sempre stato aperto ad altri generi, ho realizzato infatti anche docufilm su personaggi ed eventi storici italiani e sulla poesia americana. Ho anche scritto opere teatrali che, sì, trattano temi sociali contemporanei, ma con in mezzo sempre un po’ di fantasy: nella mia prima opera di teatro “Mare di pietra” i personaggi si muovono su una barca ancorata in quello che forse è il mare dell’aldilà, pieno di storie e fantasmi marini; nella seconda, “Anita al buio”, si parla di generazioni contemporanee in quella che a volte sembra essere una società distopica. Penso che le storie di trovino bene dentro il genere fantastico, che ha confini molto elastici e adattabili. Ora sto lavorando a un nuovo film di genere cyberpunk, sto collaborando a un progetto collettivo di fantascienza post apocalittica e sto cercando di finire un libro giallo pulp di fantascienza. Mi piacerebbe un giorno arrivare a fare un film sugli alieni e uno gotico. Una sceneggiatura che li unisce entrambi scritta da Mattia De Pascali l’avrei già…
Stefano Coccia