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Intervista a Michele Senesi, in concorso a Indiecinema FF

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Il cineasta delle Marche nuovamente protagonista del Concorso Lungometraggi, dopo la Menzione Speciale ottenuta nella prima edizione per “Bumba Atomika”, col suo secondo film di finzione “Il Cerchio delle Lumache”.

Michele Senesi si può ormai definire un “aficionado” di Indiecinema Film Festival. Del resto il suo Bumba Atomika, nel corso della prima edizione, aveva ottenuto una lusinghiera Menzione Speciale nell’ambito del Premio Maurizio Principato per la migliore colonna, «per l’effetto dirompente dell’antologia di brani riconducibile all’underground marchigiano, con in prima fila l’hard rock ad alto tasso etilico dei Kurnalcool».

Colonna sonora ugualmente da sballo e sorprese a non finire anche in questo suo secondo lungometraggio di finzione, Il Cerchio delle Lumache, che però alla consueta autarchia produttiva aggiunge soluzioni estetiche e narrative ancora una volta diverse, che valeva quindi la pena di approfondire direttamente con l’autore…

Effettisti al lavoro: la preparazione del bizzarro “Cane Psichedelico”

Avventurosa nascita di un progetto cinematografico fuori dagli schemi

Sin dalla didascalia iniziale, che per inciso afferma “film dichiarato di nessun interesse culturale urbanistico paesaggistico turistico e territoriale – prodotto senza alcun contributo e sostegno istituzionale”, emergono i toni ironici e l’irriverenza di fondo dell’operazione… anche nei confronti dell’establishment culturale e cinematografico italiano, volendo. Cosa puoi aggiungere, a riguardo?

Beh, sai, se vinci un bando della film commission o simili sei obbligato a scrivere in testa qualcosa tipo “film dichiarato di interesse culturale urbanistico paesaggistico turistico, blablabla…”. Se i fondi ti vengono negati ben due volte, ci si sente in dovere di segnalarlo comunque. Ma non serbo rancore.

E adesso la domanda dalla quale nessuno può esimersi, a quanto pare, in conferenza stampa come nelle interviste: come è nata l’idea?

E adesso la risposta dalla quale nessuno può esimersi:
“Innanzitutto la ringrazio per la domanda”.
L’idea nasce da più esigenze e materiali. Da giovane sono stato vittima di molti incidenti stradali di notevole entità, su due e quattro ruote, e ho prestato volontariato in Croce Rossa (non contemporaneamente). Queste vicende mi hanno infuso un certo fastidio nei confronti dei film, d’azione o meno, ma di piglio verosimile/realista, in cui vengono mostrati mirabolanti incidenti stradali da cui l’eroe di turno esce in un battibaleno senza nemmeno il bisogno di un collarino cervicale, come nulla fosse. Non funziona così, fidati.
Volevo quindi realizzare in questo senso un qualcosa di abbastanza unico e definitivo; in fase di sceneggiatura ho infatti anche richiesto una consulenza medica professionale. A questo si sono aggiunte altre idee pregresse che mi ero segnato negli anni e che si sono poi modellate su un millefoglie di dolori accumulati in un breve lasso di tempo che vanno da quelli di cronaca locale a vicende più intime. Quasi un’autoterapia, come poi d’altronde è spesso l’arte. Infine, ovviamente, l’idea è stata scelta e modellata sulle risorse e budget a disposizione. Il titolo del film è solo l’ultimo figlio di una serie di proposte simili ma diverse su cui abbiamo riflettuto più tempo.

Tra le interpreti principali del film la bellissima Mascia Antonelli
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Cinema “slow” & Indie Rock a profusione

Rispetto a “Bumba Atomika”, il tuo film d’esordio, ci sembra che “Il Cerchio delle Lumache” proponga ancora una volta qualcosa di frastornante, inusuale per il cinema italiano, indirizzando però il cuore della ricerca verso altre direzioni: il tempo, ad esempio. Con dilatazioni temporali pazzesche, segmenti onirici, brevi finestre – in flashback -sul passato dei personaggi principali, più l’immobilità cui il protagonista stesso è a lungo costretto. Questa quindi è una delle chiavi di volta, con la lumaca a porre il sigillo “slow” su tutto ciò?

Mi capita molto spesso – come è giusto che sia lavorando nel contesto dell’indipendenza (e quindi chiedendo aiuto e supporto a molte persone) – di supportare al contempo altri indipendenti, band, artisti, giovani che hanno bisogno di una mano. Accetto praticamente sempre a patto che il progetto contenga una sfida interessante, in modo da poter crescere anche io. Questo per dire che anche studiando tenacemente, bisogna lavorare molto sulla pratica per capire come funziona “la morale del giocattolo”; non si smette mai di imparare. Se ho un produttore, che mi sculacci (ma mi paghi). Ma se lavoro nell’indipendenza più assoluta, i progetti che realizzo li uso anche per sperimentare, capire e tastare il polso a tante cose.
Dopo Bumba Atomika, il suo ritmo e i suoi infiniti tagli di montaggio volevo fare qualcosa di totalmente diverso, uscire dalla mia comfort zone e cercare di capire, in relazione alla storia che voglio narrare, quanto posso dilatare e tenere a lungo il ritmo. Ero abbastanza terrorizzato ad esplorare un qualcosa di molto nuovo per me, ma ora ho decisamente le idee più chiare e riesco a giocarmela meglio anche su quel versante. Poi, a fronte del ritmo pacato, c’è comunque, credo, la mia attitudine ad alternare a contrasto, ritmi e umori. Infatti praticamente ad ogni scena melò se ne contrappone una grottesca, senza la quale credo sarebbe stato un prodotto estremamente triste, quasi da suicidio.
Un’altra cosa che volevo fare era dare al film un taglio che facesse tesoro del mio lavoro più che decennale nel campo della pubblicità video per aziende; quindi un aspetto estetizzante, patinato, con menzione ai social e alla loro capillarità. Una scelta che non è poi così gratuita come può apparire; in fin dei conti ci sono nel film indizi sparsi tali da accennare al fatto che il protagonista faccia proprio il mio stesso lavoro e tutto il delirio sia conseguenza e riflesso esteriore amplificato e distorto di ciò che ha dentro.
Infine, [SPOILER ALERT! PASSATE ALLA PROSSIMA DOMANDA SE NON AVETE VISTO IL FILM] il concept l’avevo ideato molti, molti anni fa e allora era un qualcosa di abbastanza inedito e originale. Ma nel frattempo sono usciti tutta una serie di titoli (Buried, Haze, 127 Ore, ad esempio) tali da farlo diventare quasi un sottogenere. Sottogenere che però ha delle regole: persona abile, con possibilità di comunicare, bloccata in un posto angusto dove non passa nessuno. E facilissimo lavoro sulla tensione. Io ho deciso, per sperimentare qualcosa di nuovo, di fare esattamente il contrario ribaltando il genere: persona inabile, senza la possibilità di comunicare, bloccata in un posto spazioso dove passano infinite persone distratte, che “non guardano bene”. Lavorando sul delirio.

Oltre agli immancabili riferimenti ai social, più che altro al loro uso distorto, la colonna sonora è al pari di “Bumba Atomika” un marchio di fabbrica imprescindibile. “Fuxia come Gesù” e altri brani non passano certo inosservati. Come li hai trovati, scelti, inseriti, questa volta?

Adoro lavorare sulle colonne sonore. Devi sapere che molte idee mi vengono durante i concerti, tant’è che è capitato spesso andassi dalla band dopo il live a dirgli che prima o poi avrei inserito un loro pezzo in un film, a volte anche un pezzo specifico. Magari dopo anni e anni. Ed è avvenuto ne Il Cerchio delle Lumache (in questo caso con i Family Portrait). Anche in Bumba. Poi so quello che voglio e allora vado a cercare la band adatta a quel momento narrativo. Spesso tra gruppi che già conosco o apprezzo. Da molto volevo lavorare con i Camillas che ho visto “mille” volte dal vivo, c’erano molti pezzi adatti e che avrei sempre voluto usare. Me ne hanno regalati tre. Alcuni mi hanno contattato direttamente e non dico di no quasi mai; ho trovato nei loro brani ciò che mi serviva (Tica). Anche il romano Cobol Pongide (che mi ha dato due inediti) lo avevo visto dal vivo e per la parte “retrogaming” è stato la scelta ovvia. Così come Lupi Negvi. In quella zona del film mi serviva un tormentone estivo, ma non volevo un vero tormentone estivo ma un tormentone estivo secondo il mio cervello, quindi ho pensato a loro, mi sono riascoltato la loro discografia e poi la scelta è caduta su Fucsia come Gesù (a volte riportato come Fuxia come Gesù) anche per via del mio ricorrente gusto nel giocare con i simboli e i tabù. Un pezzo “abbastanza Senesi”. Se ho dubbi chiamo Vanni Fabbri (La Tosse Grassa) che possiede “robuste dosi di” competenze musicali e quindi riesce sempre a propormi nomi o idee stimolanti.
Beethoven lo abbiamo fatto eseguire e lo abbiamo inciso live, per mano di Mattia Rugiano, l’unico pezzo suonato appositamente. Lo volevo e l’ho pensato fin dalle prime fasi di produzione. Infine è giunto Nicola Boari (artista eclettico, sua la monografia su Wakamatsu uscita nelle librerie in Italia) e la sua Spettro Rec. che con i relativi siti contenitori di band internazionali mi ha risolto tutta la parte più noise/ambient con musicisti di tutta Europa. Grazie.
Anche qui, come avrai notato, è un salto continuo e un po’ folle da un genere all’altro. Tutto un po’ macinato e tagliato con l’accetta perché Ėjzenštejn ci ha insegnato così.

Il protagonista Mauro Negri

Dal casting alle altre sfide di un film indipendente

E il cast, invece, come esce fuori?

Con gli attori mi reputo sempre fortunato. Col protagonista, Mauro Negri, avevo già lavorato e diventa sempre più bravo; quella di attore è la sua professione, a Milano. Volevo lui ma stavolta mi ha detto di no (come la donna che amo). Poi, tempo dopo, mi telefona per comunicarmi che si sarebbe sposato e se potevo fargli il servizio fotografico matrimoniale.
INTERNO: UFFICIO – GIORNO
Ambiente con luce bassa, il disordine generale è illuminato leggermente da una lampada da tavolo, un ragazzo di spalle, Michele, è seduto al computer. Squilla il cellulare, Michele si allontana dal computer facendo scivolare la sedia da ufficio sulle relative rotelle, afferra il cellulare e risponde.
MAURO (voce off telefono):
Sai, mi sposo blablabla
MICHELE:
Hem, sai Mauro, io tra un po’ giro il film
MAURO (voce off telefono):
Ah, è una trappola?
MICHELE:
Si
Così ho avuto Mauro, tramite baratto.
Valentina Lauducci, pazza e adorabile, la conoscevo di fama, è attrice e artista talentuosa, riesce a recitare qualunque cosa e l’ho prima “testata” in un cortometraggio girato back-to-back al film (Natale a Visso). E poi confermata volentieri.
Infine Mascia Antonelli, la scelta più difficile. Il suo personaggio è mutato dalla prima stesura della sceneggiatura. Inizialmente aveva un character design diverso, banale, non so perché il mio cervello l’avesse concepito così. Poi in fase di casting ho iniziato ad avere dubbi e quel personaggio è divenuto più delicato e “sacrale”, non volevo mi distraesse lo spettatore portandolo dove io non volessi. Ho riflettuto molto su chi contattare fino a che mi è venuta in mente la giovanissima compagna – che conoscevo pochissimo – di un caro amico. Un’esordiente. Un rischio, perché per i personaggi principali cerco sempre di conquistare figure con esperienza. Ma sono felicissimo della scelta fatta, Mascia perfora lo schermo ed è finita sui poster del film.

Anche nei ruoli tecnici, a partire dall’effettistica, ci sono presenze che si fanno notare, tra cui gente che aveva già partecipato al tuo esordio cinematografico e/o che si adopera attivamente, con le proprie opere, per movimentare il quadro delle produzioni indipendenti italiane. Vedi il “cameo” di Federico Sfascia. Quella che ti accompagna in queste imprese è per certi versi una piccola “factory”?

No, purtroppo no. Ci sono molte figure ricorrenti, vero, ma sono professionisti con il loro lavoro, e che mi mette sempre più in difficoltà coinvolgere in progetti come questo, senza nessuna retribuzione. E’ ingiusto, e mi prende male, anche se poi si cerca sempre di darsi una mano a vicenda e ricambiare quando ci sono progetti con dei budget. Quindi non c’è una vera e propria factory (in passato feci parti di diversi collettivi, ma troppe teste portano troppi compromessi e a volte ad un ribasso della libertà di espressione) ma una casa di produzione, la PALONEROfilm che è garanzia di un universo narrativo coerente e personalissimo. Poi ci sono figure molto fisse: Martina Colorio, genio smanettone, generosa, instancabile, che è una sorta di mia metà artistica che riesce a materializzare in chiave grafica, informatica e di effettistica digitale tutto quello che mi passa per la testa. Se una factory può essere fatta da due persone, allora lo è. E Sfascia, si, un amico generoso con il quale collaboro spesso, più che posso.
Il suo cameo non era previsto, si è presentato a sorpresa come “comparsa” quando giravamo la scena di massa e gli ho dato ovviamente quella parte. Lo “schifoso” oltre ad essere un bravo regista e un fumettista mostruoso, recita pure bene.
Federico Flamini, fonico, e Noemi Montironi, truccatrice, sono altre figure centrali che continuano ad aiutarmi, e verso cui lacrimo estrema riconoscenza, come Erika Ferranti (la Berna B di Bumba Atomika) che si è proposta per un ruolo minore (e chi sono io per negarglielo?). Molti tra gli altri attori e comparse sono figure con cui ho già collaborato in passato. Ma soprattutto, Il Cerchio delle Lumache esiste grazie a due new entry, Francesca Fiordelmondo e Alice Piergiacomi, due giovanissime studentesse dell’Accademia di Belle Arti, che si sono poggiate in spalla la montagna della produzione facendo di tutto e diventando parte centrale della conduzione a termine dell’opera. Credo che la loro importanza si intuisca dai titoli di coda (bellissimi, fatti dalla già citata Martina).

Sappiamo già, avendone discusso più volte, quanta fatica siano costati questi due film. Cosa ha significato quindi per te fare cinema con modalità tanto autarchiche? E come valuti, più in generale, la possibilità di fare film indipendenti adesso in Italia?

Per prima cosa c’è un fatto di cui pendere atto; dal primo film a questo sono cambiate molte cose. Ora “tutti” fanno film (film, non Cinema), spesso sono ricchi, hanno soldi e attrezzatura e c’è una sovrapproduzione di titoli. Mandare in giro la propria opera è esponenzialmente più difficile rispetto al passato, ai limiti della frustrazione tanto che spesso ci si domanda se il gioco valga la candela. Nonostante la crisi delle sale c’è pochissimo spazio per progetti sperimentali, innovativi, perturbanti o che non posseggano una sana natura conciliante di progressismo retorico. E spesso i fondi elargiti sono solo per quella tipologia di opere e creativ*. La demotivazione è enorme. Vale la pena investire tempo, energie, risorse, coinvolgimento di persone per un qualcosa che potrebbe non vedere praticamente nessuno?
Fare un’autoproduzione o un film indipendente del genere oggi è l’atto più cristallinamente artistico e punk he possa esistere, ovvero realizzare un qualcosa che ti mangia un’enorme quantità di tempo e risorse, per sola esigenza, per riconfermare il posto che senti tuo, per autoterapia, per esprimerti. Tutto il resto è bramoso e bavoso mercato, compromesso e ricerca di fama facile, elemosina di like e di follower.
Poi il discorso è facile; l’indie puro o l’autoproduzione ti da la possibilità di spingere il pedale quanto vuoi, raccontare quello che vuoi, volendo fregandotene di tutto, anche del pubblico, credendo fermamente nella tua idea, che sia libera, folle, fuori formato e tempi (come questo film che si attesta su un’ora). Così nasce e si evolve l’arte (e ogni cosa). E’ bellissimo. Nessuno può censurarti, impedire di esprimerti, silenziarti. Ma ovviamente paghi pegno in visibilità, diffusione, resa qualitativa e ambizione della storia narrata. Vorrei davvero lavorare in una grande produzione, ma anche i prodotti a bassissimo budget mi fanno sentire vivo, mi motivano ad andare avanti, mi danno istanti indimenticabili di vita, quindi bene così. Credo l’uomo nasca per costruire qualcosa che lo faccia sentire vivo e nel posto giusto; è difficile, frustrante e tutto ma io lo sono quando posso “costruire” storie e universi. E sul set, qualunque set, sono ancora vivo.

Stefano Coccia

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Stefano Coccia