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La porta dell’inferno

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La porta dell’inferno e il genere Jidaigeki

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La porta dell’inferno (titolo originale Jigokumon ) è un film giapponese del 1953 di genere jidaigeki. Jidaigeki è un genere di film giapponesi che si riferisce ai film drammatici d’epoca, in particolare l’epoca Edo nella cultura giapponese. Cioè dal 1600 al 1870. La porta dell’Inferno è ambientato ancora prima, nell’epoca del Giappone medioevale chiamata Heian. 

Il genere Jidaigeki si ambienta tra il popolo e racconta la vita di contadini, artigiani e samurai, e di come essi si relazionano con i principi locali. Questo genere di film mostrano spesso i chambara , i combattimenti con la spada, e usano una serie di convenzioni nella trama e nello sviluppo dei personaggi. 

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La porta dell’inferno: trama del film

Non è il caso de La porta dell’Inferno che non può essere affatto definito un film di cliché. Diretto da Teinosuke Kinugasa racconta la storia di Kazuo Hasegawa, un Samurai che si innamora follemente di una donna, Kesa Machiko, e che vuole a tutti i costi sposarla. 

Il film inizia durante la ribellione di Heiji: il principe locale si è allontanato dal suo territorio e due guerrieri ne approfittano per sferrare l’attacco al castello e conquistarlo. 

Kesa si offre volontaria per travestirsi da sorella del daimyō, e Il samurai Kazuo è incaricato di portarla fuori dal feudo. La coppia si salva da una sanguinosa battaglia. Kesa sviene e Kazuo la risveglia con uno spruzzo d’acqua. È così che il samurai, con un colpo di fulmine, si innamora della donna. 

Il problema è che la donna è già sposata e nella rigida cultura giapponese dell’epoca non è assolutamente possibile avere una donna che ha già un marito. Inoltre la donna non è attratta dal Samurai ma è fedele a suo marito, e non ha nessuna intenzione di tradirlo. L’unico sentimento che prova nei confronti del Samurai è la paura. 

Kazuo infatti non è un tipo normale. Già dall’inizio del film intuiamo segni di squilibrio mentale. Si rivela un uomo violento, succube di un’improvvisa passione e desiderio, che lo destabilizza fino a fargli perdere completamente l’equilibrio. 

La porta dell’Inferno è la storia di una passione malata e violenta, che molti uomini si ostinano a chiamare amore. Si può trattare di un grande vuoto interiore o di una forte attrazione erotica, ma questo tipo di passioni sicuramente non è amore. 

Stile e regia del film

Girato negli anni 50 in eastmancolor con una fotografia e dei costumi strepitosi La porta dell’Inferno è un vero gioiello pittorico, una delizia per gli occhi. Alla scena iniziale del saccheggio del villaggio si alternano dialoghi tra il samurai e il principe del villaggio in cui lui rivela la sua passione amorosa, deriso dagli uomini presenti. 

La regia è perfetta, ed osa con efficacia dialoghi essenziali, privilegiando recitazione ed espressioni facciali sopra le righe. Ma la vera maestria del regista arriva nella memorabile sequenza finale, quando dopo una serie di complicazioni, la suspense e la tensione diventa estrema. 

Si tratta di una lunga scena totalmente silenziosa in cui l’autore del film riesce a filmare l’invisibile: le foglie degli alberi accarezzate dal vento nel cortile della donna, le tende della casa che si muovono, oggetti immobili, sguardi nel buio. 

Con questo linguaggio il regista riesce a far percepire allo spettatore il male invisibile che sta per manifestarsi, quasi come un incantesimo malefico. La tensione diventa insopportabile e per certi versi ricorda il finale del film francese di George Clouzot I diabolici

Guarda La porta dell’inferno

Sì perché difatti di possessione diabolica si tratta. Il samurai perde lentamente il lume della ragione durante lo sviluppo del film, fino ad essere totalmente posseduto da una forza distruttiva. 

La bellezza di questo film è probabilmente la sua raffinatezza, la capacità di raccontare il mondo visibile con un flusso sotterraneo di passioni invisibili. Nella cultura giapponese e dell’estremo Oriente non è frequente manifestare esteriormente le proprie emozioni. Ma esse possono scorrere nascoste come un fiume impetuoso ed esplodere all’improvviso. 

Le passioni violente ribollono dietro la superficie di sete pregiate, formalità, dignità, autodisciplina e sublimi armonie estetiche. L’essenza stessa dell’antica cultura giapponese si condensa in questo film, che si può definire uno dei capolavori del cinema giapponese

La porta dell’Inferno ha vinto il Gran premio al Festival di Cannes nel 1954 e due premi Oscar, per i costumi, la fotografia. Ha vinto anche un premio del New York Film Critics Circle nel 1954 e il Pardo d’Oro al Festival Internazionale del Film di Locarno. 

La passione violenta del samurai

Una passione violenta come quella del film la porta dell’Inferno può essere definita amore? Quello che spesso viene chiamato colpo di fulmine e che dà inizio ad una specie di ossessione amorosa? 

La verità è che se nell’amore c’è passione esso diventa un inferno, l’inferno in cui sprofonda il samurai protagonista del film. Se nell’amore c’è attaccamento, l’amore diventa una prigione.

L’unico vero amore capace di elevare e migliorare le nostre vite è l’amore senza attaccamento. Quel tipo di amore che è come un tiepido vento primaverile, e non un fuoco devastante che brucia e distrugge. 

La violenza e la prepotenza con cui Kazuo vuole assolutamente avere Kesa è la causa di un ego smisurato. Il samurai vuole possedere la donna come un oggetto a qualunque costo. Quando si cerca di legare una persona a sé con la violenza nessun vero amore può esistere. 

Ma anche se non usi la violenza e chiudi una persona in una gabbia dorata tra gli agi e le comodità otterrai lo stesso risultato: per quanto la gabbia sia preziosa e piena di gioielli l’amore scomparirà. È quello che succede a tanti uomini ricchi che usano il loro potere per conquistare belle donne: si ritrovano dentro relazioni vuote. 

Ma Kazuo usa la strada peggiore, quella della violenza. La violenza di un mendicante che mendica amore da una donna che non è disposta a concederglielo. Una grande umiliazione per un guerriero che lo porta a perdere la dignità nei confronti di se stesso. 

Amore e libertà, passione e sofferenza

L’amore è uno dei fenomeni più misteriosi della vita. Da una parte ti può portare alla beatitudine e dalla libertà. Dall’altra ti spalanca la porta dell’Inferno. Da un lato libera la nostra anima, dall’altro lato sembra mettere in moto la dura legge del Karma. A seconda di come lo cerchiamo e lo percepiamo, l’amore può cambiare la nostra vita. 

Se scambi l’amore con una violenta passione sessuale, con il bisogno di colmare un vuoto interiore e quello di possedere l’altra persona allora avrai difficoltà a riconoscere il vero amore. Il vero amore lo riconosci perché ti dona stabilità ed equilibrio. La vita diventa più leggera e significativa, diventa quasi una meditazione continua. 

Se invece la tua relazione non provoca altro che una serie di problemi e sofferenze allora c’è qualcosa che non va. Forse la gelosia è il desiderio di possesso lo avvelenano. Forse non è vero amore, si tratta solo di desiderio erotico che hai nascosto dietro una facciata di perbenismo e trasformato in relazione stabile. 

L’amore che supera la gelosia, la possessività e gli istinti può portarti molto più in alto, in un luogo dove il sentimento e la spiritualità possono incontrarsi, dove due anime possono percorrere insieme il sentiero della vita. 

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