Parla Michael Anthony Kratochvil, in concorso ad indiecinema FF

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La nostra intervista al regista australiano, autore del sorprendente, terrificante “Sweet Mary, Where Did You Go?”

Una sorta di orrore cosmico, non disgiunto da feroce ironia, si è fatto strada nel nostro animo dopo aver visto Sweet Mary, Where Did You Go?. È successo subito dopo la scoperta di tale cortometraggio, che ha partecipato nel 2021 a S+F, il festival della fantascienza di Trieste. A quel punto abbiamo avvertito due esigenze, specie dopo aver selezionato tale lavoro per Indiecinema Film Festival 2022: scoprire qualcosa di più sull’episodio storico avvenuto in Australia nel XIX secolo, che ha ispirato questo racconto agghiacciante, ed esplorare il versante estetico del film assieme al regista Michael Anthony Kratochvil. Perciò cominciamo.

Tra Storia dell’Ottocento e nuova mitologia horror

Per la realizzazione di “Sweet Mary, Where Did You Go?” ti sei ispirato anche a episodi realmente accaduti nel diciannovesimo secolo, in un luogo così remoto come Sullivan Bay. Sono molto conosciuti in Australia? O in ogni caso come ne eri venuto a conoscenza e cosa ti aveva colpito di più?

C’è una storia ben nota in Australia sul prigioniero William Buckley, che riuscì a fuggire dal distaccamento di detenuti a Sullivan Bay e si riteneva fosse morto, ma finì per vivere con una tribù locale di Aborigeni. Con lui scapparono anche altri detenuti, ma non sappiamo nulla di quanto è successo a loro. Si pensa che siano morti tutti. La mia storia parla di cosa sarebbe potuto accadere a uno di quei fuggitivi. Un racconto di cui non sentiremo mai parlare, poiché è svanito in un vuoto temporale, e non ha avuto nemmeno la possibilità di essere documentato a livello storico. Ero davvero interessato a creare da ciò una nuova storia, fondendo insieme nel film il futuro e il passato.

Anche le location che hai scelto per le riprese appaiono decisamente selvagge. Hai girato il tuo racconto cinematografico proprio lì o in qualche ambiente simile?

Purtroppo non siamo riusciti a girare nell’esatta posizione di Sullivan Bay. Ci è voluto molto tempo per trovare un luogo adatto, che potesse funzionare per quello che avevo immaginato. Quando ho visitato ‘Devilbend‘, ho subito capito che sarebbe stato il luogo perfetto per il film e che avrebbe potuto contribuire a creare quella sensazione, così evocativa, di perdersi in un paesaggio dai contorni incerti. In effetti, quando stavo esplorando il sito, mi sono effettivamente perso nella fitta boscaglia, il che è stato terrificante! Penso che quella sensazione e anche il senso di isolamento delle riprese, all’inizio della pandemia, abbiano contribuito a creare l’atmosfera inquieta nel film.

Un incrocio di generi, da cui si sprigiona l’orrore metafisico

Sin dalla prima visione del film, siamo rimasti positivamente colpiti dal curioso mix di generi: la traccia storica si fonde mirabilmente con l’horror metafisico. Cosa puoi dirci del tuo approccio?

Questo è un ottimo modo per descrivere l’approccio avuto alla realizzazione del film. Prendere la Storia e trasformarla in qualcosa di insolito, per creare un nuovo tipo di racconto. Sono stato molto ispirato da un dipinto dell’artista Frederick McCubbin, “Down on his luck“. Volevo trovare un modo per dare vita a quel dipinto, ma introducendo elementi che non potevano appartenere a quel mondo. Ho avuto questa visione di un approccio anacronistico alle riprese, così da accoppiare due aspetti che non appartengono allo stesso ambito in un unico fotogramma. Questa possibilità è stata esplorata anche in I Call Upon Thee, l’altro cortometraggio che ho realizzato contemporaneamente a SWEET MARY. Ed è un approccio che esplorerò maggiormente nei miei futuri film.

Per quanto riguarda gli aspetti metafisici, penso che sia presente in tutti i miei film un senso di nostalgica attrazione per la trascendenza, per qualcosa che sta al di là della nostra esperienza quotidiana.

Scrivendo altrove un’analisi critica del tuo lavoro, abbiamo trovato corrispondenze con l’universo di Clive Barker, riguardo al fascino crudele e sovrannaturale che spigiona il tuo film. Puoi dirci quali sono i tuoi riferimenti principali per il cinema di genere? Abbiamo visto ottimi horror dall’Australia, negli ultimi anni, che però riguardavano quasi sempre storie di serial killer…

La tua citazione di Clive Barker è molto perspicace, specialmente per i personaggi di Dum e Dee. Ho sempre amato lo stile dei Cenobiti. Ho cercato di non farmi influenzare troppo da altre pellicole, attingendo principalmente all’arte, alla cultura, alla religione e alla mia immaginazione, come riferimenti per il film. Detto questo, The Prowler e L’arancia meccanica sono due film molto importanti per me e per il concepimento del cortometraggio.

Down on his luck (Frederick McCubbin)

L’importanza della colonna sonora e degli interpreti

Anche il sound design del corto mi è sembrato molto curato, evocativo, con i suoi silenzi e con l’impatto rivelatore della canzone intonata dal protagonista. Cosa puoi dirci di questo?

La melodia della canzone e il testo mi sono venuti in mente sotto la doccia! È stato uno dei primi elementi, credo prima ancora di scrivere la sceneggiatura. I testi e la melodia hanno vissuto con me per un po’ e hanno contribuito a stabilire quel sentimento malinconico che avevo in mente per il cortometraggio, per il personaggio di ‘Len‘. In effetti, l’intero film è stato qualcosa su cui ho meditato a lungo, finché non mi sono sentito pronto per realizzarlo.

Ho lavorato a stretto contatto con il sound designer Sean Kelly per quasi sei mesi, a dir poco ossessivi, per mettere a punto determinate sonorità. Suonavamo già in una band, BEST WISHES, e per certi versi abbiamo usato un approccio al sound design simile a quanto avevamo sperimentando, collaborando per la band. Ci piace lavorare con quelle dinamiche e costruire qualcosa di grandioso.

Benedikt Schiefer ha creato musiche davvero ultraterrene per il film, che hanno contribuito anche a dare il tono al sound design. In realtà abbiamo lavorato provedendo all’indietro. Ottenere la musica finale giusta era essenziale, per capire quale sarebbe stato l’apice del film, e trovare quindi un modo per raggiungerlo. Per il brano finale, appunto, avevo una visione in mente, come se Phil Spector incontrasse “All I Want For Christmas Is You” di Mariah Carey e “Great Gig In The Sky” dei Pink Floyd. Questa era la mia richiesta a Benedikt e lui l’ha presa in carico creando il suo originalissimo approccio. Una volta elaborato il brano musicale conclusivo, è stato possibile elaborare il resto della musica e quindi il sound design. Era un approccio che si muove “all’indietro”, ma per il film ha funzionato.

Chi sono gli attori del tuo film? E come li hai trovati?

Eliza Baker, che interpreta “Dee“, è una modella e non aveva molta esperienza di recitazione prima, ma si è dimostrata totalmente naturale. Aveva istinti fantastici, grandi idee per il suo personaggio ed è stata del tutto impavida nel dare vita a questo personaggio.

Darcy Halliday, che impersona “Dum“, ha mostrato un approccio meticoloso al suo personaggio e lo ha compreso dall’interno proiettandolo verso l’esterno, il che si riflette nella sua interpretazione agghiacciante. È un talento straordinario e ha abbracciato completamente il personaggio, creando qualcosa di veramente unico.

Paul de Freitas, che interpreta ‘Len‘, è stato il solo scelto per il film attraverso un casting, meno di una settimana prima che cominciassimo a girare, ed ha fatto un lavoro straordinario. In realtà aveva interpretato “The Grim Pope” nel mio altro cortometraggio I Call Upon Thee. Aveva 73 anni quando ha partecipato alle riprese e possedeva un’incredibile quantità di energia, che ha ispirato tutti noi sul set, specialmente nelle difficili condizioni che abbiamo dovuto affrontare per realizzare il corto. Ha portato qualcosa di molto profondo ed evocativo nel film. Ho avuto davvero l’impressione che si stesse sintonizzando con i fantasmi del nostro passato ancestrale, attraverso la sua performance. Ho già lavorato con Paul a diversi progetti e sto realizzando un nuovo cortometraggio con lui, che uscirà nel 2023.

Festival e nuovi progetti

Quali sono state le tue precedenti esperienze, in ambito cinematografico, e a quali progetti ti stai dedicando in questo momento?

In precedenza, avevo realizzato principalmente cortometraggi e video musicali. La mia attenzione ora si sta spostando sulla realizzazione del mio lungometraggio d’esordio. I Call Upon Thee è in fase di adattamento per un lungometraggio che intendo sia scrivere che dirigere, in più vi è una manciata di altri lungometraggi che ho in mente di realizzare, ad esempio JUDETH, UNCOVERED, MILITIANS tra gli altri. Sono anche a metà della scrittura di un adattamento della precedente sceneggiatura di SWEET MARY, di cui sono davvero entusiasta. Porterà i personaggi di “Dum” e “Dee” verso nuovi lidi.

Per finire, abbiamo scoperto “Sweet Mary, Where did You Go?” grazie al triestino Science + Fiction di Trieste e ora lo troviamo in concorso, sempre in Italia ma a Roma, all’Indiecinema Film Festival. Sei soddisfatto del percorso svolto finora e dell’accoglienza che il tuo lavoro sta ricevendo nei festival?

È stato fantastico vedere il film entrare in contatto con il pubblico di tutto il mondo. Ho messo in campo di tutto per realizzare questo film, il mio cuore, la mia anima, i miei risparmi! Il film ha rappresentato un grosso rischio per molti versi. Nasce da un periodo molto difficile della mia vita. Quindi, prima di tutto, era una forma di espressione personale. E penso che il pubblico possa sintonizzarsi con questo e vedere se stai esprimendo qualcosa di davvero puro, in tal modo. Vedere il film apprezzato da altre culture è fantastico per me, specialmente in Italia! Sono cresciuto guardando il cinema italiano, ed è un vero onore poter contare su rassegne come Indiecinema Film Festival che sostengono il mio lavoro.

Stefano Coccia

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Stefano Coccia