Conversando nuovamente con Matteo Scarfò!

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Il regista era già stato in concorso ad Indiecinema Film Festival con il cortometraggio “Pale Blue Dot: A Tale of Two Stargazer”, lo abbiamo intervistato di nuovo, poiché quest’anno partecipa invece col corto “Ricordati di santificare le feste” e con il lungometraggio “L’ultimo sole della notte”

Domenica 23 giugno alle ore 21, presso l’ormai rodata sede capitolina della Bottega dell’Attore a San Lorenzo, Via dei Volsci 3, è in programma l’ormai tipica serata di Indiecinema da dedicare interamente al cinema di genere. Per la terza edizione di Indiecinema Film Festival verranno infatti proiettati, tra gli altri, ben due cortometraggi italiani in concorso: When Buying a Fine Murder di Gabriele Tacchi e Ricordati di santificare le feste di Matteo Scarfò.
Quest’ultimo sarà rappresentato in sala dall’attore Pierre Bresolin. Ma lo stesso regista, Matteò Scarfò, non è nuovo alla nostra competizione…. e quest’anno partecipa anche al Concorso Lungometraggi con una sua opera precedente, L’ultimo sole della notte, da noi rivalorizzata per l’occasione. Ben due i motivi, quindi, per intervistarlo ancora una volta!

Una presenza costante ad Indiecinema Film Festival

Questa nostra conversazione, Matteo, ne segue un’altra avvenuta durante la seconda edizione di Indiecinema Film Festival, quando l’altro tuo cortometraggio “Pale Blue Dot: A Tale of Two Stargazer” ottenne una Menzione Speciale per il Trucco e gli Effetti Speciali, assai lusinghiera essendo il tuo un lavoro di fantascienza. Come vorresti commentare, intanto, tale riconoscimento e gli altri premi che il corto ha raccolto finora?

Ne sono ovviamente molto lusingato. Quando fai un corto non ti aspetti di vincere dei premi ma in qualche modo ci speri, non tanto per vanità ma perché è uno dei significati che si possono dare al proprio lavoro e a quello delle tante persone che hanno collaborato ai film. Significa che delle persone lo hanno visto e lo hanno apprezzato, hanno trovato delle qualità e hanno deciso di lasciare un riconoscimento a quelle qualità.

Procedendo un po’ a passo di gambero, questa nuova edizione del festival ospita invece ben due lavori da te precedentemente realizzati: un corto e un lungo. Dando la precedenza stavolta proprio al lungometraggio, come nasce il tuo film d’esordio “L’ultimo sole della notte”? E quanto è stato impegnativo dal punto di vista della produzione?

Innanzitutto devo dire che la genesi è stata molto lunga. Era addirittura il 2011 e stavo leggendo un caposaldo della fantascienza sociale che è Il Condominio (High Rise) di James Ballard. Allora hanno cominciato a frullarmi in testa un po’ di visioni legate soprattutto al contesto dove sono cresciuto, ovvero un pezzo di Calabria dove si potevano trovare questi paesaggi bellissimi ma allo stesso perturbanti perché la presenza dell’uomo aveva lasciato un segno straniante. Ma poi l’uomo era sparito da certi posti e così avevi questo senso di solitudine quasi alla De Chirico. Questi paesaggi con le vestigia dell’uomo moderno mi hanno segnato. Ho immaginato una visione opposta a quella di Ozymandias dalla poesia di Shelley, lì erano le rovine di un sovrano a rimanere a imperitura disperazione, qui quelle dell’uomo comune. Ecco allora Ballard mi è sembrato congeniale per descrivere la vita senza vita dei paesaggi moderni e così ho preso ispirazione da quel suo romanzo e da L’isola di cemento per una storia tutta nuova sul dopo apocalisse. Per quanto riguarda la produzione è stata difficile, inutile negarlo. Fortunatamente abbiamo avuto una squadra di persone eccellenti e dedicate, con un mestiere solidissimo dietro, che ha svolto il lavoro di una troupe di 50 persone… in 10! Ma andare su quel set, per quanto stancante, era una gioia e lo rifarei altre 100 volte. Ricreare un mondo post apocalittico aveva bisogno di particolari accorgimenti, ma penso che abbiamo scelto una strada originale, molto umanistica e sociale.

Cinema di genere ed interpreti sempre funzionali, in parte

Del tuo lungometraggio, L’ultimo sole della notte, abbiamo apprezzato anche il modo di rapportarsi a generi impegnativi, sul piano rappresentativo, ma in totale economia e attingendo a un profilmico che già sembra suggerire tanto. La desolazione di certi ambienti, quel loro naturale appeal “post-apocalittico”, è un qualcosa da inquadrare solo in funzione della distopia che intendevi raccontare o è anche possibile parafrasi di un presente che, specie in Italia, ha visto in passato non poche speculazioni e devastazioni ambientali?

Certamente c’era una volontà di narrare anche questo presente vuoto e banale in Italia e forse nel mondo occidentale in generale. Mi è venuto in mente solo il genere post apocalittico per rapportarmi col presente. Poi le ambientazioni come sai erano quasi tutte reali, abbiamo trovato uno scenario post atomico in casa, l’uomo per annientarsi non ha bisogno della bomba atomica. Può farlo tranquillamente annullando anima e coscienze, riducendo l’uomo comune a un burattino del consumo interessato solo alle proprie cose e ai soldi.

Come è avvenuto il casting del film?

Avevo in mente il protagonista fin dalla scrittura, e doveva essere Andrea Lupia, con cui finora abbiamo condiviso un’esperienza artistica e umana che porterò sempre con me. Invece per gli altri ho trovato gli attori in Calabria, come Danilo Rotundo o Lucia Cristofaro, ma anche a Roma, Alessandra Mortelliti e Claudia Fratarcangeli, e a Potenza, Giovanni Andriuoli. Bravi attori che hanno dato tutto quello che potevano per il film. Ma soprattutto ho scelto tra chi mi ispirava anche per gentilezza, spirito ironico e normalità. Se deve essere un set difficile, non lo vuoi condividere con uno stronzo arrogante. Semmai vuoi crearti una piccola famiglia di amici, con cui condividere una parte della tua vita e lasciare che questa sia anche un’esperienza per tutti.

La “factory” di Matteo e i suoi modelli cinematografici

Più in generale, abbiamo notato che ti piace portarti dietro da un lavoro all’altro determinati interpreti ed elementi della troupe. Passando quindi al corto che presentiamo in concorso quest’anno, Ricordati di santificare le feste, come era stato assemblato un cast così scoppiettante, che attinge anche dal teatro come nel caso di Pierre Bresolin?

Beh, Pierre oltre a essere un amico e un gentiluomo, è anche un grande attore. Mi è venuto naturale chiamarlo per fare la parte del genitore di una creatura demoniaca che non si scompone davanti a niente. Invece per quanto riguarda gli altri conoscevo benissimo Andrea Lupia, presente nel lungometraggio,e Indri Shiroka con cui abbiamo condiviso vari palchi e non solo. Indri e Andrea, per la loro comicità innata e spontanea, erano solo da mettere in coppia. Hanno un talento comico naturale, riescono a creare situazioni assurde anche al di fuori del film. Quel tipo di ironia va usata in un film, ha un potenziale fortissimo se ben diretta. Poi c’era Al Bettini nella parte del demone. Ha dovuto fare tutto sotto una maschera parecchio pesante in piena estate. Ed Elena Console nel ruolo surreale della moglie di Pierre.

La tradizione della dark comedy nel mondo anglosassone, il proliferare di horror grotteschi e satirici nella Spagna di Álex de la Iglesia… nel panorama italiano qualcosa come “Ricordati di santificare le feste appare invece insolito e anche per questo ci è piaciuto. Cosa puoi dirci della particolare porzione dell’immaginario cinematografico che il corto va a sondare?

Oltre alle dark comedy da te accennate, uno dei miei pensieri è stato: da dove inizia la commedia italiana? Forse dalle differenze regionali della commedia dell’arte? Ecco la nostra è una commedia che spesso ha fatto ricorso alle differenze regionali, alle contrapposizioni nord, centro e sud. Ho pensato ma se mettiamo il classico personaggio comico del nord e quello del sud insieme, in un horror, cosa succede? Mi fa molto piacere il riferimento a de la Iglesia, un genio della contrapposizione tra horror e grottesco.

Guardando al futuro

In un’edizione del festival che ci ha già visto affrontare il rapporto tra registro comico e religione nell’ottimo documentario “Una risata ci salverà”, anche questo tuo lavoro qualche spunto irriverente e salace lo contiene, vedi la citazione di Padre Pio. Come ti sei rapportato quindi al discorso religioso?

C’è un aspetto della religione assolutamente grottesco, io mi ricordo quando ero piccolo questi quadri con Gesù che teneva un cuore enorme in mano, oppure le grandi statue di Padre Pio ovunque, come fai a non pensare anche a una via irriverente a tutto questo? E io non parlo da ateo, ho una mia spiritualità, ma certamente non è quella da baraccone o delle immagini dei santi parlanti fatte con l’intelligenza artificiale o dei dogmi arcaici.

Per finire, come sta proseguendo ora la tua carriera di cineasta indipendente?

Non so se sta proseguendo perché ogni volta mi trovo sul filo del rasoio. Tutte le volte che penso a qualcosa, poi si accende una lampadina che illumina i problemi enormi che si pongono davanti. Adesso ho appena finito un film di fantascienza che si chiama Esistenza Zero, siamo in post produzione dopo due anni di lavoro. È forse il secondo capitolo ideale di una possibile trilogia, non legata nei suoi episodi, dove con la fantascienza provo a guardare verso il presente. Parla di cyborg e transumanesimo, di tecnologia e utopie, di mondi alternativi digitali, di quando e come possiamo dire se qualcosa è reale o no. E poi del fatto che questo è il mondo che abbiamo, l’unico, dove dovremmo provare a trovare soluzioni guardando anche gli altri, e non chiudendoci nei nostri piccoli egoismi.

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Stefano Coccia

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