La nostra conversazione con Sara Ceracchi, autrice del cortometraggio scelto per l’evento di apertura della Terza edizione di Indiecinema Film Festival, “Come fossi una bambola”
L’onore (e l’onere) di aprire il Concorso Cortometraggi della Terza Edizione di Indiecinema Film Festival, che quest’anno ospiterà ben 25 lavori di 12 paesi diversi, spetta a un corto di cui ci ha parecchio colpito lo humour, l’originalità, la freschezza: Come fossi una bambola. Lo vedremo sul grande schermo giovedì 4 gennaio al Circolo ARCI Arcobaleno di Roma (Via Pullino 1, alla Garbatella), nel corso di un evento che lo vedrà affiancare uno dei documentari più apprezzati della scorsa edizione, La signora Matilde di Marco Melluso e Diego Schiavo. Quasi un ponte tra due edizioni della nostra autarchica kermesse cinematografica. Ma per introdurvi meglio questo primo cortometraggio in gara, abbiamo pensato di interpellare direttamente l’autrice, Sara Ceracchi… ed ecco cosa è venuto fuori dal nostro vivace confronto.
L’idea del corto
Sara, abbiamo particolarmente gradito questo tuo secondo lavoro, Come fossi una bambola, ma sappiamo che nel 2020 avevi già girato L’ultimo invito. Cosa puoi dirci di quest’altro film? E come nasce, più in generale, il tuo amore per il cinema?
L’ultimo invito è stata, sostanzialmente, la ripresa di un percorso interrotto per diversi anni, e che nella lunga pausa si era concentrato essenzialmente sulla scrittura: si tratta di un mediometraggio di 37 minuti, drammatico, che racconta le vicende di una giovane donna in una situazione di violenza di genere. La cosa più importante de L’ultimo invito – il cui titolo mi era stato suggerito da Gianluca Filippi, il mio operatore, come unico spunto per scrivere una vicenda di violenza contro le donne -, è stata in realtà la formazione della squadra. È per la stessa squadra che poi ho scritto nuove cose, tra cui Come fossi una bambola, avviato progetti anche professionali, messo a frutto conoscenze, canali, intrecci e tutto quanto si rivela di magica utilità nel momento in cui si voglia produrre un film indipendente.
La mia passione per il cinema nasce da lontano, ed è la risultante di più attitudini, per esempio il disegno (a me in particolare piace molto la vignettistica), la scrittura, l’amore per diverse forme di teatro: in generale l’amore per raccontare storie attraverso le immagini. Poi c’è stata la formazione che mi ha portato a mangiare pane e commedia all’italiana tutti i giorni, a leggere per lo più opere di grandi autori umoristici, e tutto questo, miscelato, ha definito soprattutto la mia inclinazione per la commedia.
Per commedia però intendo quella vera, quella dolceamara, umoristica, non quella attuale.
Venendo a Come fossi una bambola, questa idea così originale è nata in combutta con Andrea Guglielmino, apprezzato giornalista e scrittore che qui si è prestato anche a un piccolo cameo. Come si è sviluppata questa vostra collaborazione, sia a livello di scrittura che successivamente sul set?
In realtà l’idea di Come fossi una bambola è mia, però ai tempi in cui è nata avevo appena conosciuto Andrea Guglielmino per domandargli cosa studiare per imparare a scrivere sceneggiature per fumetti (cosa che poi non ho più intrapreso). Lui, al contrario, voleva cimentarsi col cinema, e allora gli parlai di questa nuova storia a cui poter collaborare. Così ci siamo messi a rielaborare alcuni elementi, su tutti quello di traslare il protagonista da uomo a donna (perché esisteva già un film dove succedeva più o meno quello che succede a Susanna, ma a un uomo), e tenere il colpo di scena per il finale del film. Così, in base a queste rielaborazioni ho riscritto il soggetto, ovvero la storia, e poi la sceneggiatura (tante volte!).
Per quanto riguarda il set, avevo proposto ad Andrea un cameo che mi sembrava abbastanza semplice per qualcuno che non avesse esperienza, e soprattutto adatto alla sua figura, alla sua espressività, col risultato che il ruolo del commesso gli è riuscito particolarmente bene. Il problema con Guglielmino è stato tenerlo a bada sui social, dov’è molto comunicativo, e ogni volta che parlava del film rischiava di rivelare il finale.
Gli interpreti e lo humour di fondo
Oltre alla fugace apparizione di Guglielmino e, naturalmente, alla tua spigliatissima, brillante presenza in scena, si fanno molto apprezzare gli altri interpreti, tutti aderenti ai rispettivi personaggi e dotati di una certa verve. A partire volendo da Riccardo Frezza. Come è avvenuto quindi il casting del tuo cortometraggio? E come ci si trova a scrivere, dirigere e al contempo interpretare un corto?
Con Riccardo ormai condividiamo questa stessa passione dal 2020, anche se pure lui è decisamente un artista poliedrico. Da L’ultimo invito in poi è stato in tutti i miei lavori, e adesso è parte del cast di un mio spettacolo teatrale in allestimento dal titolo Il nero non sfina. Diciamo che oramai gli cucio i personaggi addosso, ma questo non significa che non abbia il talento necessario per trasformarsi in qualsiasi cosa, anche senza dire una parola. Poi c’è Samuel Di Clemente che è anche lui un collaboratore da diversi anni, anche se molto più giovane di me: è un attore, doppiatore, drammaturgo, di una sensibilità umoristica rara, tanto che è sempre il primo interprete dei miei monologhi teatrali (ne coglie lo spirito istantaneamente): anche per il suo personaggio non ho mai avuto dubbi sull’interprete, tanto che l’ho chiamato direttamente “Samuel”. David Lecca l’ha trovato Riccardo durante una poetry slam, mentre cercavo un uomo che interpretasse Pamela: non potevo mettermi a cercare una donna brutta, allora avevo deciso che Pamela l’avrebbe interpretata un uomo, e David è stato veramente bravissimo a diventare letteralmente una donna, con lo spirito, la gestualità, quell’amor proprio evidente ma gentile e altruista che caratterizza il suo personaggio.
Scrivere un film non è un problema, specialmente se poi devi dirigerlo tu stesso, ma dirigere e interpretare in questo caso mi ha messo spesso in difficoltà, perché non avevo un assistente alla regia e molte situazioni per me (l’uso del green screen su tutte) erano completamente nuove. Avessi avuto una troupe completa di tutte le figure necessarie, avremmo in film molto più rifinito, e di questo mi rammarico molto: non a caso, per i prossimi lavori sto cercando di aumentare di molto il budget e potermi permettere un gruppo di lavoro ben strutturato.
In Come fossi una bambola abbiamo colto un’impronta “locale” ben riconoscibile, combinata, però, con uno humour che sembra guardare fuori dalle strettoie del nostro cinema, regalando situazioni surreali e paradossali forse più comuni in altre cinematografie. Cosa puoi dirci a riguardo?
C’è un libro di John Vorhaus che s’intitola “Scrivere il comico”, che definisce bene cosa sia la comicità “di sostanza”, quella che davvero fa ridere, magari a crepapelle, a un passo dall’arresto cardiaco, però mentre si avverte quella puntina di contraddizione che ti fa vergognare per il fatto che stai ridendo: la comicità, dice lui, è “verità e dolore”. Quando c’è questo, quando i personaggi e quindi la storia narrata recano queste due caratteristiche, abbiamo dei film che possono anche far esplodere il botteghino.
Il problema del cinema comico attuale è che prima di puntare al botteghino, non passa attraverso questa considerazione: in Italia si sfornano commedie continuamente, ma sono sempre la stessa pappa (oltre che gli stessi registi, gli stessi attori e le stesse storie, che ormai penso se la ridano tra loro e si facciano i complimenti tra loro). Questo perché si sceglie di lavorare a zero rischi, quindi proponendo situazioni, personaggi e storie che travalicano la verità, propongono mondi ideali e narrazioni stereotipate dove non c’è davvero niente da ridere, dove non c’è nessuna dolorosa verità. Questo per essere sempre politicamente corretti, quindi accedere ai fondi, non avere problemi di distribuzione eccetera: che sono ottime motivazioni, perché il cinema costa e quindi se non si fa per hobby deve fruttare, ma a lungo andare tutto questo sta diventando controproducente, si sta uccidendo una branca della nostra produzione mettendone a repentaglio il mercato nazionale e internazionale. Per quanto mi riguarda, cerco di salvarmi da tutto questo (non so se al prezzo di non lavorare mai ai piani alti), non sentendomi mai in dovere di omologarmi al sentire comune; neanche il contrario, nel senso che non per forza mi sento in dovere di essere in disaccordo per non omologarmi, e questa è sempre la base di partenza per tutto quello che scrivo. Così, anche allontanarsi dai grandi centri (geografici e cinematografici, in senso lato), oltre a essere una scelta pratica, in Come fossi una bambola in particolare mi ha aiutato a “circoscrivere” situazioni e personaggi, che proprio per non voler essere a tutti i costi universali, possono finire per diventarlo.
L’importanza della musica
Anche la fotografia e le musiche sembrano contribuire a questo appeal maggiormente internazionale. La colonna sonora, personalmente, m’ha ricordato anche un po’ le atmosfere dei film di Woody Allen… pure qui c’è qualcosa che vorresti puntualizzare?
La brutta notizia è che non c’è nessuna fotografia, il film è talmente povero che un d.o.p. non me lo sono potuto permettere. L’unico intervento di color correction che “si vede” intenzionalmente è quello sul flashback di Susanna, ma è eseguito ovviamente a posteriori col programma di montaggio.
Le musiche sono un capitolo a parte, che mi riempie di orgoglio, perché sono l’unica cosa perfetta di tutto il film (infatti non le ho composte io!): i compositori sono Andrea Pace e Michele Di Filippo, due grandi nomi della chitarra classica, anche se è un settore musicale un po’ defilato rispetto a quello mainstream. Andrea e Michele sono anche due miei carissimi amici, che alla proposta di comporre la colonna sonora hanno risposto subito entusiasticamente, anche risolvendomi problemi di copyright non indifferenti: per esempio non ho potuto utilizzare la canzone “La bambola” di Patty Pravo, che loro hanno sostituito col brano che si sente mentre Susanna si rade la barba; hanno composto il tappeto musicale della finta fiction che ho dovuto approntare per non poter mettere in sottofondo la trasmissione di Amadeus mentre Susanna cena da sola, sempre per problemi di copyright. Hanno fatto un lavoro pazzesco, i brani sono tutti stupendi, e sono peraltro ascoltabili su qualunque piattaforma di streaming musicale. Inoltre, il doppiaggio (perché non avevo il fonico) lo abbiamo eseguito negli studi di Assolo Produzioni Musicali di Andrea Pace, a titolo completamente gratuito.
Per finire, cosa pensi degli spazi riservati al cinema indipendente e ai cortometraggi nel nostro paese? E a parte far circolare questo tuo nuovo lavoro stai già seguendo qualche altro progetto?
Con la democratizzazione degli strumenti di produzione audiovisiva, se ci pensiamo, le opere indipendenti sono aumentate in maniera incalcolabile, di conseguenza esistono migliaia e migliaia di festival per cortometraggi in tutto il mondo che cercano di sfruttare questo fenomeno e anche un po’ di stargli dietro, ma la difficoltà è emergere, quando il materiale e le vetrine sono così tante: per emergere io intendo l’avanzare professionalmente una volta che si è riusciti a far girare un proprio lavoro indipendente. Vero è che se una produzione è valida riesce sicuramente a farsi un po’ di strada e a farsi vedere: la vera piaga sono le raccomandazioni, che ho scoperto essere una colonna per niente marginale in questo campo del cinema come in quello ai vertici, ma anche qui, per fortuna, se non hai niente da dire si vede anche se ti raccomandano.
Di nuovi progetti ne ho tanti. Al momento in realtà sto lavorando per due spettacoli teatrali, però al contempo sto cercando di trovare una produzione per un nuovo cortometraggio, pronto da girare ma senza fondi. Poi ci sono, in fila, un lungometraggio, una serie animata, la produzione di tre puntate pilota di una web serie (spin off, tra l’altro, di Come fossi una bambola), e l’idea per un corto a carattere storico che mi ronza in testa da una manciata di giorni.
Insomma, al momento qualcosa da dire ancora ce l’ho.
Stefano Coccia