Quando pensiamo a un “film sulla Seconda Guerra Mondiale”, la mente corre a immagini codificate: lo sbarco in Normandia, le missioni suicide, l’epopea dell’eroismo e del sacrificio. Queste opere monumentali hanno definito il genere e plasmato la nostra memoria collettiva del conflitto. Ma questa visione, per quanto potente, è solo una scheggia del mosaico.
Le esplorazioni cinematografiche più profonde e strazianti del conflitto non sono nate solo sotto il sole della California, ma sono state forgiate nel fango e nella memoria ferita delle nazioni che hanno vissuto la devastazione sulla propria pelle. È un cinema che non offre risposte facili ma pone domande terribili.
Questa guida è un viaggio attraverso l’intero spettro del conflitto. È un percorso che unisce i grandi capolavori occidentali ai film indipendenti. Dalle steppe ghiacciate del fronte orientale alle fogne di Varsavia, esploreremo come registi sovietici, polacchi, tedeschi e giapponesi abbiano usato la macchina da presa per interrogare la propria storia, confrontarsi con la colpa e cercare un barlume di umanità nell’abisso. È un cinema che non si limita a raccontare la storia, ma ne interroga l’anima.
Parte I: L’Anima Ustionata – Il Cinema Sovietico e Russo
Nessuna nazione ha pagato un tributo di sangue più alto dell’Unione Sovietica durante la Seconda Guerra Mondiale. La “Grande Guerra Patriottica”, come viene ricordata, ha lasciato una cicatrice indelebile nella psiche collettiva, un trauma di proporzioni inimmaginabili che il cinema ha cercato di elaborare per decenni. Lontano dalla semplice propaganda, i migliori film sovietici sul conflitto trascendono la celebrazione della vittoria per diventare profonde esplorazioni esistenziali. Sono opere che utilizzano un iperrealismo quasi insopportabile, spesso trasfigurato in un surrealismo allucinato, per comunicare non tanto la cronaca della guerra, quanto la sua essenza: un evento metafisico che ha squarciato il tessuto della realtà e annientato l’innocenza.
Va’ e vedi (Idi i smotri, 1985) di Elem Klimov
Un giovane ragazzo bielorusso, Florya, si unisce con entusiasmo ai partigiani per combattere l’invasione nazista. Invece dell’avventura che si aspettava, viene catapultato in un incubo surreale e sempre più terrificante di brutalità inimmaginabile. Il film segue il suo viaggio straziante mentre assiste al genocidio perpetrato sul suo popolo, un’esperienza che lo invecchia fisicamente e spiritualmente oltre i suoi anni.
Definire Va’ e vedi un film di guerra è riduttivo; è un’immersione sensoriale nell’inferno. Elem Klimov utilizza una macchina da presa soggettiva e un sound design espressionista per trascinare lo spettatore dentro l’esperienza di Florya, rendendo la visione quasi fisicamente insopportabile. Non c’è eroismo, non c’è catarsi. C’è solo il progressivo disfacimento dell’umanità. La trasformazione del volto del giovane protagonista, da ragazzo innocente a maschera di terrore invecchiata, è una delle metafore visive più potenti della storia del cinema, simbolo della distruzione psicologica di un’intera generazione. È forse la più definitiva dichiarazione contro la guerra mai filmata, un’opera che non si limita a mostrare l’orrore, ma lo fa sentire nelle ossa.
L’infanzia di Ivan (Ivanovo detstvo, 1962) di Andrej Tarkovskij
Ivan, un orfano di dodici anni la cui famiglia è stata sterminata dai soldati tedeschi, lavora come esploratore per l’Armata Rossa. Spinto da un bruciante desiderio di vendetta, si offre volontario per le missioni di ricognizione più pericolose. La cruda realtà della guerra, fatta di paludi e trincee, si contrappone ai suoi sogni lirici, ricordi di un’infanzia irrimediabilmente perduta.
Nel suo folgorante esordio, Andrej Tarkovskij definisce già il suo linguaggio cinematografico unico. Il film è un doloroso contrappunto tra la desolazione del fronte, con i suoi paesaggi acquitrinosi e spogli, e le sequenze oniriche, inondate di luce, che rappresentano il paradiso perduto dell’infanzia. La guerra per Tarkovskij non è solo un conflitto fisico, ma un evento metafisico che ha violato l’anima di Ivan, rendendo l’infanzia stessa una vittima. L’opera evita ogni mistica eroica per concentrarsi sulla violenza subita da un’anima infantile, trasformando un racconto di guerra in una profonda elegia sulla perdita dell’innocenza.
Quando volano le cicogne (Letyat zhuravli, 1957) di Mikhail Kalatozov
A Mosca, Veronika e Boris vivono un amore intenso e pieno di speranza, ma il loro futuro viene distrutto quando la Germania invade l’Unione Sovietica e Boris si arruola volontario. Rimasta sola, Veronika deve affrontare le difficoltà del fronte interno, la perdita, il tradimento e complesse prove emotive, mentre attende il ritorno di un uomo che potrebbe non tornare mai più.
Palma d’Oro a Cannes e simbolo del “disgelo” culturale di Krusciov, questo film fu rivoluzionario per il cinema sovietico. Per la prima volta, l’attenzione si spostava dalle eroiche gesta sul campo di battaglia al tumulto emotivo dell’individuo, in particolare di una complessa protagonista femminile sul fronte interno. La fotografia virtuosistica e mobile di Sergej Urusevskij cattura con una carica emotiva senza precedenti i tormenti di Veronika, esplorando temi come l’amore, l’infedeltà e la speranza tenace in mezzo al trauma collettivo. È un melodramma potente e visivamente sbalorditivo che ha aperto la strada a un cinema di guerra più umano e personale.
Ballata di un soldato (Ballada o soldate, 1959) di Grigorij Čuchraj
Alyosha, un giovane soldato dell’Armata Rossa, distrugge due carri armati tedeschi quasi per caso e, come ricompensa, ottiene una breve licenza per visitare sua madre. Il suo viaggio verso casa si trasforma in un’odissea attraverso un paese devastato dalla guerra, un percorso a tappe in cui incontra varia umanità, aiuta gli altri e si innamora, rivelando la resilienza dello spirito umano anche nei momenti più bui.
Lontano dalla brutalità di altri film di guerra, Ballata di un soldato è un road movie lirico e profondamente umanista. La semplice ricerca di Alyosha, il suo desiderio di riabbracciare la madre, diventa un potente simbolo del costo umano del conflitto: i momenti perduti, gli amori fugaci, le connessioni mancate e, in definitiva, il sacrificio della gioventù di un’intera generazione. La regia di Čuchraj è intrisa di una malinconica poesia, che contrasta la gentilezza del suo protagonista con la desolazione del paesaggio, creando un’opera pacifista di rara grazia e impatto emotivo.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
In questo video ti spiego la nostra visione
Parte II: Tra Eroismo e Abisso – La Scuola Polacca e il Cinema dell’Europa Orientale
Nata letteralmente dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, la Scuola Cinematografica Polacca ha dato vita a un movimento definito da una prospettiva romanticamente tragica e profondamente cinica. Registi come Andrzej Wajda e Andrzej Munk hanno usato il conflitto per esplorare i paradossi della storia polacca: la nobiltà di un eroismo destinato alla sconfitta, l’assurdità del sacrificio e i compromessi morali necessari per la sopravvivenza. Questo approccio si estende ad altre cinematografie dell’Europa orientale, come quella cecoslovacca, jugoslava e ungherese, che hanno utilizzato la guerra come una potente allegoria per le loro complesse storie nazionali, spesso usando il trauma del nazismo come linguaggio in codice per criticare l’oppressione dell’era sovietica.
I dannati di Varsavia (Kanał, 1957) di Andrzej Wajda
Negli ultimi, disperati giorni della Rivolta di Varsavia del 1944, una compagnia di combattenti della Resistenza polacca tenta di sfuggire all’esercito tedesco attraverso il labirintico sistema fognario della città. Il loro viaggio nell’oscurità si trasforma rapidamente in una discesa in un inferno claustrofobico e psicologico, che li spoglia di ogni eroismo, speranza e umanità.
Capolavoro di Wajda e film simbolo della Scuola Polacca, Kanał demolisce il mito romantico della resistenza eroica, ritraendola come una lotta disperata, tragica e, in ultima analisi, futile. Le fogne non sono solo un’ambientazione, ma una potente metafora dell’abisso della guerra, una visione dantesca dove l’umanità si dissolve nel sudiciume e nell’oscurità. La regia crea una tensione quasi insopportabile, trasformando il sottosuolo di Varsavia in un purgatorio senza via d’uscita, un’immagine indelebile del soffocamento di una nazione.
La passeggera (Pasażerka, 1963) di Andrzej Munk
Anni dopo la guerra, una donna tedesca, Liza, a bordo di un transatlantico, crede di riconoscere in un’altra passeggera Marta, un’ex prigioniera di Auschwitz dove lei stessa era una guardiana. L’incontro innesca una serie di flashback conflittuali e autoassolutori, mentre Liza tenta di ricostruire e giustificare il suo complesso rapporto con la prigioniera.
L’unicità di questo film risiede nella sua natura frammentaria, risultato della tragica morte del regista Andrzej Munk durante la produzione. I suoi collaboratori assemblarono il materiale girato, utilizzando fotografie di scena e una narrazione per colmare le lacune. Questa incompletezza, tuttavia, diventa una scelta estetica potentissima, che riflette perfettamente la natura fratturata e inaffidabile della memoria e del senso di colpa. È un’opera radicale che esplora l’Olocausto non dal punto di vista della vittima, ma attraverso la lente distorta e auto-ingannevole del carnefice.
Il negozio al corso (Obchod na korze, 1965) di Ján Kadár & Elmar Klos
In una cittadina slovacca durante la Seconda Guerra Mondiale, al mite falegname Tóno viene assegnato il ruolo di “controllore ariano” della bottega di bottoni di un’anziana vedova ebrea, sorda e ignara della realtà esterna. Tra i due si instaura uno strano e tenero rapporto, che viene però brutalmente infranto dalla realtà delle deportazioni, costringendo Tóno a confrontarsi con la propria viltà morale.
Vincitore dell’Oscar al miglior film straniero e capolavoro della Nová Vlna cecoslovacca, Il negozio al corso è una magistrale illustrazione della “banalità del male” teorizzata da Hannah Arendt. Il suo tono tragicomico non si concentra sui mostri nazisti, ma sulla complicità della gente comune, sui piccoli compromessi e sull’indifferenza che aprono la strada a immense tragedie. È una parabola potente e straziante sulla coscienza, sul fallimento morale e sulla fragile linea che separa l’umanità dalla barbarie.
Treni strettamente sorvegliati (Ostře sledované vlaky, 1966) di Jiří Menzel
Nella Cecoslovacchia occupata dai tedeschi, un giovane e ingenuo apprendista capostazione è molto più preoccupato di perdere la verginità che della guerra che infuria intorno a lui. Le sue ansie personali e le sue frustrazioni sessuali si intrecciano casualmente con un piccolo atto di sabotaggio partigiano, dando vita a una storia di formazione tanto comica quanto, alla fine, tragica.
Altra opera fondamentale della Nová Vlna cecoslovacca, questo film mescola con genio umorismo, erotismo e tragedia. Menzel, adattando un racconto di Bohumil Hrabal, utilizza lo sfondo bellico per esplorare temi come la mascolinità, l’innocenza perduta e l’assurda intersezione tra la sfera personale e quella politica. L’atto di resistenza del protagonista diventa quasi una conseguenza della sua maturazione sessuale, una brillante e malinconica sovversione del genere eroico di guerra, che mostra come anche i grandi eventi storici vengano vissuti attraverso il filtro delle piccole ossessioni umane.
Underground (1995) di Emir Kusturica
Un’epopea surreale e tentacolare che segue due amici, Blacky e Marko, dal bombardamento di Belgrado nel 1941, attraverso gli anni di Tito, fino alle guerre jugoslave degli anni ’90. Marko, diventato un pezzo grosso del regime, tiene l’amico e un gruppo di partigiani chiusi in una cantina per decenni, facendo loro credere che la Seconda Guerra Mondiale stia ancora infuriando, mentre lui si arricchisce vendendo le armi che producono.
Vincitore della Palma d’Oro a Cannes, Underground è una fantasmagorica allegoria tragicomica della storia della Jugoslavia. La cantina del titolo è una metafora della delusione collettiva e della manipolazione storica sotto il comunismo. Con la sua energia frenetica, la colonna sonora assordante della brass band e la sua visione controversa, Kusturica collega direttamente i conflitti balcanici degli anni ’90 ai traumi irrisolti della Seconda Guerra Mondiale, dipingendo un ritratto grottesco e disperato di un paese che “non c’è più”.
La valle della pace (Dolina miru, 1956) di France Štiglic
In Slovenia, due bambini rimasti orfani a causa della guerra, un ragazzo del posto e una bambina tedesca, fuggono dalla devastazione alla ricerca di una mitica “Valle della Pace”. A loro si unisce un pilota afroamericano il cui aereo è stato abbattuto. Questo improbabile trio deve attraversare insieme i pericoli della guerra, formando un legame che trascende la nazionalità e il conflitto.
Questo film jugoslavo è una fiaba universale e umanista ambientata sullo sfondo della guerra. Raccontata attraverso lo sguardo innocente dei bambini, la storia spoglia il conflitto della sua ideologia politica, concentrandosi invece sulla ricerca fondamentale di sicurezza e connessione umana. La performance di John Kitzmiller, premiata a Cannes, è rivoluzionaria per l’epoca. Con il suo tono gentile e anti-propagandistico, La valle della pace si distingue come un’opera di rara poesia, che celebra la solidarietà in un mondo diviso dall’odio.
Parte III: L’Onere della Colpa – Prospettive dalla Germania
Affrontare la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista tedesco ha rappresentato una delle sfide più complesse per il cinema del dopoguerra. Il concetto di Vergangenheitsbewältigung, ovvero il processo di “fare i conti con il passato”, ha dominato la produzione culturale per decenni. I registi tedeschi hanno spesso evitato le narrazioni di combattimento dirette, concentrandosi invece sull’esperienza civile, sulla psicologia dell’indottrinamento nazista e sull’abisso morale degli ultimi giorni del Reich. Questi film non cercano eroi né si crogiolano nella vittimizzazione, ma conducono una critica spietata della complicità e del fallimento morale, umanizzando i “carnefici” non per assolverli, ma per esporre il tragico meccanismo ideologico che li ha creati.
Il ponte (Die Brücke, 1959) di Bernhard Wicki
Negli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale, un gruppo di sette studenti tedeschi, adolescenti pervasi di fervore patriottico, viene arruolato nell’esercito. Viene loro assegnato il compito, apparentemente insignificante, di difendere un ponte locale. Quando i carri armati americani si avvicinano, quella che doveva essere una missione sicura si trasforma in una battaglia brutale, insensata e tragica.
Uno dei film tedeschi più importanti del dopoguerra, Il ponte è una potente accusa contro la cinica manipolazione dell’idealismo giovanile da parte di un regime morente. La sua struttura è esemplare: la prima parte descrive in dettaglio la vita quasi idilliaca dei ragazzi, per poi precipitare il tutto, nella seconda parte, nel caos improvviso e brutale del combattimento. La forza del film risiede nell’assurdità tragica di un singolo, inutile scontro, che diventa il simbolo della follia di un’intera nazione. È un cinema anti-bellico che trova la sua potenza non nelle grandi battaglie, ma nel sacrificio senza senso della gioventù.
Germania anno zero (1948) di Roberto Rossellini
Tra le macerie di una Berlino spettrale, il giovane Edmund lotta per sopravvivere e mantenere la sua famiglia. Influenzato dall’ideologia nichilista e persistente di un suo ex insegnante nazista, Edmund viene spinto a compiere un atto terribile, diventando il simbolo di una generazione moralmente e spiritualmente distrutta dalla guerra e dalle sue conseguenze.
Sebbene diretto da un italiano, questo film è un caposaldo del Trümmerfilm (“film delle macerie”) e un’opera essenziale per comprendere la prospettiva tedesca. Lo sguardo neorealista di Rossellini è impietoso nel catturare la devastazione non solo fisica, ma soprattutto morale, di Berlino. Il film collega in modo diretto e agghiacciante l’ideologia nazista alla distruzione della famiglia e all’annientamento dell’innocenza infantile, culminando in una delle scene finali più disperate e indimenticabili della storia del cinema.
Il disertore (Der Überläufer, 2020) di Florian Gallenberger
Nel 1944, un giovane soldato della Wehrmacht sul fronte orientale inizia a dubitare del proprio dovere e dello scopo della guerra. Combattuto tra la sua coscienza, la lealtà verso i commilitoni e l’amore per una partigiana polacca, è infine spinto a disertare, solo per scoprire che cambiare schieramento non offre una facile chiarezza morale.
Basato su un romanzo di Siegfried Lenz a lungo rimasto inedito, questo film recente è una moderna esplorazione della coscienza del soldato tedesco. Approfondisce la complessa psicologia della diserzione, non come atto di codardia, ma come scelta morale all’interno di un sistema immorale. L’opera analizza come il vero “nemico” non sia una nazionalità, ma la logica disumanizzante della guerra stessa, un conflitto interiore in cui la lealtà alla patria si scontra con la lealtà verso la propria umanità.
Parte IV: L’Ombra della Resistenza – Il Cinema Francese
Il cinema francese del dopoguerra ha intrapreso un lungo e complesso percorso di elaborazione del trauma dell’Occupazione. Inizialmente dominato dal mito “résistancialiste” promosso da De Gaulle – una narrazione di una nazione quasi unanimemente unita nella resistenza – ha visto emergere, soprattutto dopo il 1968, voci più critiche e complesse. Registi come Jean-Pierre Melville e Marcel Ophüls hanno offerto uno sguardo più freddo, psicologicamente rigoroso e moralmente ambiguo, trasformando il racconto della Resistenza in un thriller esistenziale sulla paranoia, il tradimento e la solitudine di chi combatte nell’ombra.
L’armata degli eroi (L’armée des ombres, 1969) di Jean-Pierre Melville
Philippe Gerbier, un membro di alto rango della Resistenza francese, si muove nel mondo infido delle operazioni clandestine. Il film offre un ritratto freddo, procedurale e privo di sentimentalismo della vita quotidiana dei partigiani, una vita segnata dalla paranoia, dalla solitudine e dalla brutale necessità della violenza, anche contro i propri compagni.
Capolavoro assoluto di Melville, L’armata degli eroi è la rappresentazione antieroica per eccellenza della Resistenza. Applicando i codici del suo cinema gangster, con il suo stile minimalista, i colori desaturati e i dialoghi ridotti all’osso, Melville trasforma la guerra in un thriller esistenziale cupo e teso. Il film è pervaso da un fatalismo ineluttabile: l’eroismo, in questo mondo di ombre, è una professione solitaria, ingrata e mortale, dove ogni vittoria è solo un passo verso la propria fine.
Operazione Apfelkern (La bataille du rail, 1946) di René Clément
Un omaggio ai ferrovieri francesi, spina dorsale di una forma cruciale di Resistenza. Il film documenta i loro atti di sabotaggio – ritardare i treni, dirottare i carichi, organizzare imboscate – che furono vitali per ostacolare la macchina da guerra tedesca, specialmente in vista dello sbarco in Normandia.
Vincitore del Premio della Giuria a Cannes, questo film è una miscela unica di realismo documentaristico e tensione narrativa, un’opera chiave dell’immediato dopoguerra. Il suo stile semi-documentario, che utilizza molti veri ferrovieri come attori, cattura la natura collettiva e operaia di questa forma di resistenza. Si contrappone magnificamente alle lotte più individuali ed esistenziali del cinema di Melville, mostrando un altro volto, più corale e pragmatico, della lotta contro l’occupante.
L’ultimo metrò (Le dernier métro, 1980) di François Truffaut
Nella Parigi occupata, Marion Steiner assume la direzione del teatro del marito, un regista ebreo costretto a nascondersi nella cantina dello stesso edificio. Mentre cerca di mandare avanti gli spettacoli e proteggere il marito, Marion si muove nel complesso mondo della censura, del collaborazionismo e di un nascente amore per il suo primo attore.
Il film di Truffaut è una superba esplorazione della “resistenza attraverso l’arte”. Il teatro diventa un microcosmo della Francia occupata, uno spazio assediato dove la vita, l’amore e la creazione artistica devono continuare sotto l’ombra dell’oppressione. Attraverso i temi della clandestinità, della recita e delle linee sfumate tra finzione e realtà – sia sul palco che per le strade di Parigi – Truffaut realizza un’opera appassionata e complessa sull’importanza della cultura come ultimo baluardo di umanità.
Arrivederci ragazzi (Au revoir les enfants, 1987) di Louis Malle
Basato sui ricordi d’infanzia del regista, il film racconta la storia di Julien, un ragazzo in un collegio cattolico nella Francia occupata. Stringe un’amicizia stretta ma competitiva con Jean, un nuovo allievo, solo per scoprire che Jean è un ragazzo ebreo nascosto dai nazisti dal preside del collegio. Un piccolo, involontario tradimento avrà conseguenze devastanti.
Questo film profondamente personale e commovente è un racconto sulla perdita dell’innocenza e sulla casuale crudeltà del tradimento. Lo stile sottile e osservativo di Malle ritrae l’Olocausto non attraverso l’orrore su larga scala, ma attraverso il suo impatto silenzioso e devastante sulla vita dei bambini. Lo sguardo finale tra i due ragazzi, carico di rimpianto e consapevolezza, è una delle più potenti condanne cinematografiche all’indifferenza e alla complicità.
Le chagrin et la pitié (1969) di Marcel Ophüls
Un monumentale documentario di quattro ore che smantella il mito di una Francia unita e resistente durante l’occupazione nazista. Attraverso interviste a ex partigiani, collaborazionisti, ufficiali tedeschi e cittadini comuni della città di Clermont-Ferrand, Ophüls dipinge un ritratto complesso e scomodo di una nazione segnata da apatia, opportunismo e antisemitismo.
Quest’opera ha avuto un impatto sismico sulla coscienza nazionale francese, tanto da essere bandita dalla televisione per oltre un decennio. Il suo metodo giornalistico, che giustappone le testimonianze per creare un potente effetto dialettico, costringe lo spettatore a confrontarsi con le zone grigie della storia. Non è solo un documentario, ma un’indagine spietata sulla memoria, sulla colpa e sull’auto-narrazione di una nazione.
Parte V: L’Umanità tra le Macerie – Il Neorealismo Italiano e le sue Voci Minori
Il Neorealismo italiano è universalmente riconosciuto per aver ridefinito il linguaggio del cinema nel dopoguerra. Sebbene opere come Roma città aperta o Ladri di biciclette siano pilastri della storia del cinema, il movimento era molto più vasto e politicamente sfaccettato. Lontano dai riflettori, un filone di neorealismo “minore” si concentrava sulla Resistenza non solo come lotta di liberazione nazionale, ma come momento fondativo di una nuova identità italiana, radicata nell’alleanza tra i partigiani e la classe operaia. Questi film sono documenti preziosi di un cinema impegnato a costruire un futuro dalle rovine del fascismo.
Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano
Dopo l’armistizio del 1943, un soldato disilluso torna nel suo villaggio in Lombardia. Lì si ritrova coinvolto sentimentalmente sia con una decadente aristocratica sia con un’operaia politicamente consapevole. Il suo percorso personale rispecchia il risveglio politico della regione, portandolo infine a unirsi ai partigiani nella lotta contro nazisti e fascisti.
Finanziato dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI), questo film è un esempio lampante di neorealismo politicamente impegnato. La sua narrazione pone la lotta di classe al centro della Resistenza, vedendola come una rivoluzione non solo contro l’invasore straniero, ma anche contro il vecchio ordine sociale. Con una sceneggiatura a cui collaborarono futuri maestri come Giuseppe De Santis e Carlo Lizzani, il film offre un ritratto crudo e autentico della guerra partigiana nel Nord Italia.
Un uomo ritorna (1946) di Max Neufeld
Un soldato torna a casa dopo anni di prigionia per trovare la sua casa distrutta e la sua famiglia dispersa e moralmente compromessa dalla guerra. Deve affrontare le rovine, sia fisiche che spirituali, del suo paese, lottando contro la burocrazia e la disperazione per ricostruire non solo una centrale elettrica, ma anche un senso di speranza e dignità.
Interpretato da due giganti come Anna Magnani e Gino Cervi, questo film è un esempio toccante del filone neorealista dedicato al difficile reinserimento dei reduci. Affronta con coraggio i temi del trauma post-bellico, del collasso morale e dell’immensa sfida della ricostruzione, fisica e psicologica, in una nazione sconfitta e divisa. È un ritratto amaro e potente della fatica di ricominciare.
Achtung! Banditi! (1951) di Carlo Lizzani
Nella Genova occupata, un gruppo di partigiani scende dalle montagne per recuperare un carico di armi da una fabbrica. La loro missione si intreccia con uno sciopero degli operai, portando a una battaglia culminante in cui partigiani e lavoratori combattono fianco a fianco contro le forze tedesche.
L’esordio di Carlo Lizzani è un potente film d’azione neorealista, prodotto da una cooperativa di spettatori, che incarna lo spirito collettivo che mette in scena. Il tema centrale del film è l’unione tra la Resistenza armata delle montagne e la classe operaia urbana, visti come i due motori della liberazione e del futuro dell’Italia. La scena finale, in cui i partigiani portano in spalla non solo i fucili ma anche i macchinari della fabbrica, è un simbolo potente della lotta per la difesa del futuro del paese.
Parte VI: L’Individuo Contro la Macchina – Il Cinema Giapponese Anti-Bellico
Dalle ceneri della sconfitta totale e del trauma atomico, il cinema giapponese del dopoguerra ha prodotto alcune delle più profonde e devastanti riflessioni sulla guerra. Raramente focalizzati sul combattimento convenzionale, questi film conducono una dolorosa inchiesta sull’anima nazionale, mettendo in discussione l’ideologia militarista e imperialista che ha portato alla catastrofe. Il vero conflitto si sposta dal campo di battaglia all’interiorità dell’individuo, in una lotta tra la coscienza e un sistema disumanizzante, trasformando il racconto di guerra in un pellegrinaggio spirituale attraverso la sofferenza.
La condizione umana (Ningen no jōken, 1959-1961) di Masaki Kobayashi
Questa monumentale trilogia di nove ore segue Kaji, un pacifista e socialista giapponese, attraverso il suo calvario durante la guerra. Dai suoi tentativi di gestire umanamente un campo di lavoro per prigionieri in Manciuria, alla sua brutalizzazione come soldato e al suo disperato viaggio finale attraverso un paesaggio devastato, Kaji lotta per mantenere la propria umanità contro un sistema opprimente e crudele.
Una delle imprese più sbalorditive della storia del cinema, La condizione umana è un’epopea romanzesca che funge da atto d’accusa spietato contro il militarismo giapponese. Il viaggio di Kaji è una tragedia esistenziale, un’indagine implacabile sulla possibilità che la morale individuale possa sopravvivere all’interno di un sistema totalitario. È il film anti-guerra definitivo, perché mostra come la guerra distrugga l’anima molto prima di distruggere il corpo.
L’arpa birmana (Biruma no tategoto, 1956) di Kon Ichikawa
Alla fine della guerra in Birmania, un soldato giapponese, Mizushima, viene separato dalla sua compagnia. Ossessionato dalla vista dei corpi insepolti dei suoi compatrioti, si traveste da monaco buddista e dedica la sua vita a seppellire i morti, scegliendo un cammino spirituale piuttosto che il ritorno a casa.
Il film di Ichikawa è una meditazione poetica, commovente e profondamente spirituale sulle conseguenze della guerra. Il ruolo centrale della musica, linguaggio universale che unisce persino i nemici, sottolinea il messaggio pacifista dell’opera. Il viaggio di Mizushima non è un racconto di conflitto militare, ma un pellegrinaggio per trovare un senso e un’espiazione di fronte alla morte di massa, trasformando il dolore in un atto di compassione universale.
I bambini di Hiroshima (Genbaku no ko, 1952) di Kaneto Shindō
Anni dopo il bombardamento atomico, una giovane insegnante torna nella sua città natale, Hiroshima, per ritrovare i suoi ex allievi e colleghi. Attraverso le sue visite, assiste alle cicatrici fisiche e psicologiche lasciate dalla bomba sui sopravvissuti (gli hibakusha), tra cui malattie, povertà e ostracismo sociale.
Uno dei primi e più diretti confronti cinematografici con l’eredità della bomba atomica, questo film adotta uno stile quieto, quasi neorealista, per concentrarsi sul costo umano piuttosto che sulla polemica politica. Dà voce alle vittime dimenticate, gli hibakusha, la cui sofferenza è continuata a lungo dopo la fine della guerra, raccontando un trauma che non è solo storico, ma esistenziale e profondamente personale.
Momotarō: I divini guerrieri del mare (Momotarō: Umi no shinpei, 1945) di Mitsuyo Seo
Il primo lungometraggio d’animazione giapponese è un’opera di propaganda commissionata dalla Marina Imperiale. Il film ritrae l’eroe del folklore Momotaro che guida una truppa di simpatici animali soldato mentre “liberano” le isole del Pacifico da goffi demoni occidentali con le corna, in una celebrazione della missione imperiale del Giappone.
Includere questo film è fondamentale per comprendere il contesto da cui è nato il cinema pacifista del dopoguerra. La sua animazione, sorprendentemente sofisticata e ispirata a Fantasia di Disney, è al servizio di un messaggio propagandistico che santifica l’imperialismo. La sua esistenza rende ancora più potente e radicale il profondo senso di colpa e disillusione che ha alimentato i capolavori anti-bellici realizzati solo pochi anni dopo.
Parte VII: Fronti Dimenticati e Prospettive Inesplorate
La Seconda Guerra Mondiale è stata un conflitto globale, ma la sua rappresentazione cinematografica è stata spesso limitata a pochi fronti principali. Il cinema indipendente di nazioni la cui esperienza bellica è spesso marginalizzata offre storie uniche e potenti, che allargano la nostra comprensione della portata del conflitto e dei suoi complessi paesaggi morali. Questi film spesso si concentrano su un singolo evento, una scelta impossibile o una situazione estrema che diventa un microcosmo per l’intera esperienza nazionale della guerra.
Kukushka – Disertare non è reato (Kukuška, 2002) di Aleksandr Rogožkin
Verso la fine della guerra finno-sovietica, un cecchino finlandese e un capitano russo, nemici giurati, trovano rifugio presso una donna Sami nelle desolate terre selvagge della Lapponia. Incapaci di comprendere le rispettive lingue, i tre formano una strana e primordiale famiglia, dove le assurdità della guerra lasciano il posto ai bisogni e alle connessioni umane fondamentali.
Questa è una parabola anti-guerra tanto bella quanto arguta. La barriera linguistica funziona come dispositivo centrale del film, spogliando i personaggi delle loro identità nazionali e costringendoli a comunicare a un livello puramente umano. Kukushka suggerisce che la pace non è il risultato di un trattato, ma la riscoperta di un’umanità condivisa, un messaggio potente veicolato con grazia e umorismo.
Land of Mine – Sotto la sabbia (Under sandet, 2015) di Martin Zandvliet
In Danimarca, subito dopo la resa della Germania, un gruppo di giovanissimi prigionieri di guerra tedeschi viene costretto a un compito suicida: bonificare migliaia di mine antiuomo dalla costa danese a mani nude. Sotto il comando di un sergente danese indurito dall’odio, i ragazzi affrontano la morte a ogni passo, mentre il sergente è costretto a confrontarsi con il proprio desiderio di vendetta.
Questo film teso e moralmente complesso fa luce su un capitolo poco noto della storia del dopoguerra. La dinamica tra il sergente e i ragazzi esplora i temi della colpa collettiva, della vendetta e del difficile processo di ri-umanizzazione del nemico. La suspense non riguarda solo le mine, ma anche la salvezza dell’anima del sergente, in un potente dramma psicologico sulla possibilità del perdono.
The King’s Choice (Kongens Nei, 2016) di Erik Poppe
Il film drammatizza tre giorni cruciali dell’aprile 1940, quando la macchina da guerra tedesca invade la Norvegia neutrale. La storia si concentra su Re Haakon VII, che si trova di fronte a un ultimatum impossibile da parte dei tedeschi: arrendersi o affrontare una guerra totale. La sua decisione determinerà il destino della sua nazione.
Più che un film di guerra convenzionale, The King’s Choice è un thriller politico che si concentra sull’immensa pressione morale e politica posta su un singolo uomo. Il film contrappone abilmente il dramma diplomatico e personale del Re e del suo governo con la realtà caotica e terrificante dell’invasione per i giovani e impreparati soldati sul campo, mostrando come le grandi decisioni della storia ricadano sulle spalle di individui.
Dark Blue World (Tmavomodrý svět, 2001) di Jan Svěrák
La storia dei piloti cecoslovacchi che fuggono dalla loro patria occupata per combattere con la RAF britannica. Dopo la guerra, questi eroi vengono traditi dal nuovo regime comunista in Cecoslovacchia, che li etichetta come nemici dello stato e li imprigiona nei campi di lavoro.
La struttura narrativa tragica e ironica di questo film inquadra l’eroismo della guerra all’interno dell’amaro tradimento della pace. È una critica potente a come le ideologie politiche possano scartare e punire gli stessi individui che hanno combattuto per la libertà. Le scene di combattimento aereo sono impressionanti, ma il cuore del film risiede nella tragedia del dopoguerra, un monito sulla fragilità della libertà.
Wil (2023) di Tim Mielants
Nella Anversa occupata, due giovani agenti di polizia ausiliari sono combattuti tra il loro dovere verso le autorità tedesche e il loro sostegno segreto alla resistenza. Un incidente violento li spinge più a fondo in un mondo di ambiguità morale, dove ogni scelta potrebbe significare la vita o la morte per loro e per coloro che cercano di proteggere.
Questo recente film belga è un’esplorazione cruda e dalle tinte noir della “zona grigia” della collaborazione e della resistenza. Evita facili giudizi morali, immergendo lo spettatore nella terrificante e complessa realtà di dover fare delle scelte quando la sopravvivenza e la moralità sono in diretto conflitto. È un film potente sull’impossibilità di rimanere neutrali di fronte al male.
La recita (O Thiasos, 1975) di Theo Angelopoulos
Una compagnia di attori girovaghi vaga per la Grecia tra il 1939 e il 1952, tentando di mettere in scena un dramma pastorale del XIX secolo. Le loro vite private, che rispecchiano l’antico mito della casa di Atreo, si intersecano con la tumultuosa storia del loro paese: dittatura, guerra, occupazione e guerra civile.
L’epopea di quattro ore di Angelopoulos è un capolavoro del cinema politico e storico. La sua struttura non lineare e l’uso magistrale del piano-sequenza per collegare diversi periodi storici in un’unica inquadratura sono rivoluzionari. Il film intreccia brillantemente storia, mito e teatro per creare un arazzo profondo e complesso del trauma nazionale greco nel XX secolo, un’opera monumentale che richiede ma ripaga l’attenzione dello spettatore.
1945 (2017) di Ferenc Török
In un’afosa giornata estiva del 1945, in un remoto villaggio ungherese, due ebrei ortodossi scendono da un treno. La loro camminata silenziosa e decisa verso il villaggio scatena un’ondata di panico, senso di colpa e paranoia tra gli abitanti, che si sono appropriati dei beni dei loro vicini ebrei deportati durante la guerra.
Girato in un bianco e nero austero e potente, questo film è una parabola formidabile sulla colpa irrisolta e sulla complicità. L’arrivo dei due uomini agisce da catalizzatore, costringendo un’intera comunità a confrontarsi con i crimini che ha cercato di seppellire. È un thriller a combustione lenta dove la tensione è interamente morale e psicologica, un’indagine spietata sulla coscienza sporca di una nazione.
I Do Not Care If We Go Down in History as Barbarians (2018) di Radu Jude
Una giovane e intransigente regista teatrale tenta di mettere in scena una rievocazione pubblica del massacro di Odessa del 1941, in cui l’esercito rumeno, alleato dei nazisti, massacrò decine di migliaia di ebrei. Si scontra con i funzionari della città, con attori recalcitranti e con un pubblico che non vuole affrontare questo capitolo oscuro della propria storia nazionale.
Questo film ferocemente intelligente e meta-testuale della Nuova Onda Rumena utilizza la struttura del “film nel film” per decostruire il revisionismo storico e la creazione di miti nazionalisti. È un’opera brillante e provocatoria sulla difficoltà di rappresentare la storia e sulla responsabilità dell’arte in un’epoca di negazionismo, che interroga non solo il passato della Romania, ma il modo in cui tutte le nazioni si confrontano con le proprie atrocità.
Rapsodia bulgara (2014) di Ivan Ničev
Nella Sofia del 1943, due ragazzi adolescenti — uno ebreo, l’altro no — si innamorano della stessa ragazza ebrea proveniente dalla Tracia greca. La loro storia d’amore giovanile si svolge sullo sfondo della complessa storia bellica della Bulgaria e della minaccia incombente della deportazione degli ebrei dai territori occupati.
Questo film offre un raro sguardo cinematografico sul ruolo della Bulgaria nella Seconda Guerra Mondiale. Utilizza un classico triangolo amoroso adolescenziale per esplorare l’ambiguità storica di una nazione che, da un lato, salvò la propria popolazione ebraica e, dall’altro, fu complice della deportazione degli ebrei dai territori che controllava, offrendo una prospettiva sfumata e dolorosa.
Black Book (Zwartboek, 2006) di Paul Verhoeven
Nei Paesi Bassi occupati dai nazisti, una cantante ebrea si unisce alla resistenza dopo che la sua famiglia viene assassinata. Le viene affidato il compito di sedurre un alto ufficiale della Gestapo per raccogliere informazioni, ma si ritrova in una relazione moralmente ambigua dove i confini tra eroe, cattivo, vittima e collaboratore diventano pericolosamente labili.
Il ritorno di Paul Verhoeven al cinema olandese è una deliberata sovversione del genere eroico sulla resistenza. Con le sue sensibilità da noir e la sua visione cinica della natura umana, il film suggerisce che nessuno è puramente buono o cattivo. È un’opera avvincente e provocatoria che esplora la “zona grigia” della guerra, sostenendo che i tradimenti più grandi spesso non provengono dal nemico, ma dalla propria parte.
Vermiglio (2024) di Maura Delpero
In un remoto villaggio delle Alpi italiane durante l’ultimo anno di guerra, la vita di tre sorelle in una famiglia patriarcale viene sconvolta dall’arrivo di un disertore del sud. Il film esplora i ritmi della vita rurale, il risveglio della coscienza femminile e l’impatto sottile ma profondo di una guerra lontana su una comunità apparentemente isolata.
Questo recente e acclamato film offre una prospettiva femminista sulla narrazione del “fronte interno”. Con le sue immagini pittoriche e la sua attenzione alla vita interiore dei personaggi femminili, Vermiglio usa la guerra come catalizzatore. Il vero dramma, però, è la silenziosa ribellione contro i vincoli patriarcali e religiosi, una lotta per la liberazione personale che corre parallela a quella nazionale.
Parte VIII: La Forma dell’Indicibile – Documentari Essenziali
Per concludere questa guida, è necessario dedicare uno spazio a quei film di non-finzione che hanno rivoluzionato il modo in cui il cinema può testimoniare l’atrocità. Non si tratta di documentari storici tradizionali, ma di opere d’arte radicali, spesso formalmente audaci, che si confrontano con i limiti della rappresentazione e costringono lo spettatore a un impegno etico attivo con il passato. Questi film hanno capito che l’orrore dell’Olocausto non poteva essere “mostrato” senza banalizzarlo, e hanno costruito la loro potenza su ciò che è assente: le immagini mancanti, i silenzi, le tracce indelebili lasciate sulla memoria e sul paesaggio.
Notte e nebbia (Nuit et Brouillard, 1956) di Alain Resnais
Uno dei primi e più potenti documentari sull’Olocausto. Resnais giustappone inquietanti carrellate a colori dei campi di concentramento di Auschwitz e Majdanek, ormai abbandonati e invasi dalla natura, con filmati d’archivio in bianco e nero delle atrocità che vi si sono svolte. Il risultato è una devastante meditazione sulla memoria, la storia e la capacità umana di dimenticare.
La struttura formale del film è rivoluzionaria. Il dialogo dialettico tra il presente pastorale a colori e il passato terrificante in bianco e nero crea un saggio filosofico che interroga il nostro rapporto con la storia. La domanda finale del film – “Chi è responsabile?” – non è una domanda retorica, ma un monito perpetuo contro il pericolo dell’indifferenza e dell’oblio.
Shoah (1985) di Claude Lanzmann
Un monumentale documentario di nove ore e mezza sull’Olocausto che, deliberatamente, non contiene alcun filmato d’archivio. Lanzmann costruisce la sua opera interamente su interviste condotte negli anni ’70 e ’80 con sopravvissuti, ex ufficiali nazisti e testimoni polacchi, spesso riportandoli sui luoghi stessi dei campi di sterminio.
Shoah non è un film *sull’*Olocausto; è un evento cinematografico che attualizza il trauma nel presente della memoria. La decisione radicale di Lanzmann di escludere le immagini storiche si basa sulla convinzione che l’orrore dello sterminio non possa essere rappresentato. La sua potenza deriva dalla parola viva, dall’atto del ricordare, dal confronto tra la tranquillità dei luoghi nel presente e l’orrore indicibile che evocano le testimonianze.
Il figlio di Saul (Saul fia, 2015) di László Nemes
Ad Auschwitz, Saul, un membro ungherese del Sonderkommando, scopre il corpo di un ragazzo che crede essere suo figlio. Mentre i suoi compagni pianificano una rivolta, Saul si imbarca in una missione ossessiva e disperata: trovare un rabbino per dare al ragazzo una degna sepoltura ebraica, un singolo atto di sfida spirituale nel cuore dell’inferno.
Sebbene sia un film di finzione, la sua inclusione qui è giustificata dal suo approccio radicale alla rappresentazione dell’irrappresentabile. La strategia visiva di Nemes è claustrofobica e immersiva: una messa a fuoco ridotta che lega incessantemente la macchina da presa alla prospettiva di Saul, mentre gli orrori del campo si svolgono, sfocati e indistinti, alla periferia dell’inquadratura. Questa scelta estetica rifiuta di trasformare l’Olocausto in uno spettacolo, creando invece un’esperienza soggettiva e viscerale dell’inferno.
Stalker (1979) di Andrej Tarkovskij
In un paesaggio desolato e post-apocalittico, una guida nota come lo “Stalker” conduce due clienti — uno Scrittore cinico e un Professore pragmatico — nella proibita “Zona. Si dice che quest’area misteriosa, forse sito di una visita aliena o di un disastro militare, contenga una Stanza in grado di esaudire i desideri più intimi.
Concludiamo con un film che non parla letteralmente della Seconda Guerra Mondiale, ma che è forse una delle più profonde allegorie delle sue conseguenze. Stalker è un viaggio spirituale e filosofico attraverso un mondo segnato da una catastrofe senza nome. La Zona, con le sue rovine invase dalla natura, è una metafora perfetta dell’Europa del dopoguerra: un paesaggio di trauma dove le vecchie regole non valgono più e tutto ciò che resta è la ricerca di fede, speranza e significato. È il film definitivo sul “fallout” psicologico di un conflitto che ha sconvolto il mondo.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
In questo video ti spiego la nostra visione

