I Migliori Film sulla Musica e sui Musicisti

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Il cinema ha sempre usato la musica per raccontare storie potenti. L’immaginario collettivo è segnato dai grandi biopic musicali, un copione che conosciamo: l’ascesa fulminea, la caduta tra gli eccessi e la redenzione finale in una performance iconica. Queste opere trasformano artisti complessi in icone, cementando il loro mito.

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Ma le storie più oneste, quelle che pulsano al ritmo irregolare del processo creativo, si trovano anche altrove. Esiste un cinema che non cerca di santificare i suoi protagonisti, ma decostruisce attivamente il mito, esplorando l’identità dell’artista come una performance continua.

Usa la musica come una lente per indagare la condizione umana: la dolorosa frizione tra arte e commercio, la nascita di sottoculture da paesaggi urbani desolati, e la celebrazione di quel “fallimento” glorioso che spesso è il prezzo della purezza artistica. Questa guida è un percorso che unisce i film più famosi alle più viscerali produzioni indipendenti. Dai documentari che operano come archeologie musicali, riportando alla luce eroi dimenticati, ai film di finzione che catturano l’anima di una scena. Preparatevi a scoprire le vere note del cinema, quelle suonate lontano dai riflettori.

Control (2007)

Il film ripercorre gli ultimi anni di vita di Ian Curtis, enigmatico frontman dei Joy Division. La narrazione si concentra sul suo matrimonio giovanile con Deborah, la relazione extraconiugale con la giornalista belga Annik Honoré e la sua crescente lotta contro l’epilessia e la depressione, mentre la band si avvia verso un’inquietante fama internazionale.

Diretto dal fotografo e regista Anton Corbijn, che immortalò i Joy Division in alcuni dei loro scatti più iconici, Control è molto più di un biopic. È un’elegia funebre in un bianco e nero mozzafiato, una scelta estetica che trascende il semplice omaggio stilistico per diventare la sostanza stessa del film. La fotografia di Martin Ruhe trasforma la Macclesfield post-industriale in una proiezione esteriore del tormento interiore di Curtis, un paesaggio di desolazione e bellezza austera che rispecchia perfettamente il suono della band. Il film si distingue per il suo approccio anti-mitologico. Rifiuta di romanticizzare la malattia mentale o di glorificare l’ingresso nel “Club dei 27”. L’epilessia non è una fonte di genio trascendentale, ma un ostacolo terrificante e umiliante. La grandezza di Control risiede nel suo focus sulla dimensione domestica e quotidiana del dramma, sulla pesantezza dell’esistenza piuttosto che sulla leggerezza della fama. La performance di Sam Riley è prodigiosa: non imita Curtis, ne incarna l’essenza, la goffaggine, la sensibilità romantica e il dolore divorante. Una delle più potenti pellicole sulla creazione musicale che mostra come la sofferenza possa essere trasmutata in arte immortale, ma a un prezzo insopportabile.

Sid & Nancy (1986)

Il film di Alex Cox narra la tumultuosa e autodistruttiva storia d’amore tra Sid Vicious, bassista dei Sex Pistols, e la sua groupie americana, Nancy Spungen. La loro relazione, alimentata da un’insaziabile dipendenza dall’eroina, li trascina in una spirale di caos che culmina nella tragica morte di Nancy nella stanza 100 del Chelsea Hotel di New York.

Sid & Nancy è un pugno nello stomaco, un anti-biopic che si rifiuta di edulcorare la sporcizia e la disperazione della scena punk londinese. Alex Cox non è interessato a celebrare i Sex Pistols o a spiegare il fenomeno culturale; il suo sguardo è fisso sulla relazione tossica al centro della tempesta. Gary Oldman, in una delle sue prime e più sconvolgenti interpretazioni, non si limita a recitare la parte di Sid: si trasforma in lui, catturandone l’ingenuità infantile, la rabbia nichilista e la vulnerabilità straziante. Al suo fianco, Chloe Webb è una Nancy insopportabile e commovente, l’incarnazione di un bisogno d’amore disperato e distruttivo. Il film è un incubo tragico, girato con una fotografia sporca e grezza da Roger Deakins, che immerge lo spettatore nel fango e nel dolore. Non c’è redenzione, solo una discesa continua verso l’abisso. È un’opera fondamentale perché mostra il punk non come un’ideologia politica o una moda, ma come un urlo di dolore proveniente da vite ai margini, destinate a bruciare in fretta.

Hedwig and the Angry Inch (2001)

Hedwig Robinson, una cantante rock “internazionalmente ignorata”, gira gli Stati Uniti con la sua band, The Angry Inch, suonando in ristoranti di pesce dozzinali. Segue il tour del suo ex amante e protetto, Tommy Gnosis, una rockstar che le ha rubato le canzoni e il cuore. Attraverso un monologo-concerto, Hedwig racconta la sua vita: da bambino a Berlino Est, a una fallita operazione di cambio sesso che le ha lasciato un “pollice arrabbiato”.

Scritto, diretto e interpretato dal geniale John Cameron Mitchell, Hedwig and the Angry Inch è un’esplosione di glam rock, punk e filosofia platonica. È un musical che demolisce ogni convenzione di genere, sia cinematografico che sessuale. Il film è un inno alla fluidità dell’identità, un’esplorazione commovente e irriverente della ricerca della propria “altra metà”. Le canzoni, scritte da Stephen Trask, non sono semplici intermezzi, ma il motore narrativo ed emotivo del film, capaci di passare da inni punk rabbiosi a ballate strazianti. Hedwig è una figura tragica e trionfante, una creatura che non si conforma alle norme binarie della società e che trasforma il proprio dolore e la propria mutilazione in arte potente e liberatoria. È un film sulla resilienza, sull’amore per la musica come strumento di auto-definizione e sulla capacità di trovare l’interezza non in un’altra persona, ma dentro di sé. .

The Devil and Daniel Johnston (2005)

Questo documentario racconta la vita di Daniel Johnston, un musicista e artista di culto, genio maniaco-depressivo che ha registrato centinaia di canzoni lo-fi su musicassette nella cantina dei suoi genitori. Il film traccia la sua ascesa nell’underground musicale, le sue ossessioni per una musa irraggiungibile di nome Laurie e la sua continua e straziante battaglia con una grave malattia mentale.

The Devil and Daniel Johnston è un ritratto intimo e profondamente umano che esplora il confine labile tra genio e follia. Il regista Jeff Feuerzeig costruisce il film utilizzando l’enorme archivio personale di Johnston, fatto di registrazioni audio, filmati in Super 8 e disegni, creando un’autobiografia visiva che ci porta direttamente dentro la sua mente tormentata. Il documentario evita facili sensazionalismi, mostrando con onestà e compassione come la stessa forza che alimenta la straordinaria creatività di Johnston sia anche la fonte della sua autodistruzione. La sua musica, caratterizzata da una semplicità disarmante e da testi di una sincerità brutale, emerge come un tentativo disperato di comunicare il suo dolore e il suo amore puro e infantile. È una delle più toccanti storie di musicisti nel cinema indipendente, un’opera che ci costringe a interrogarci sulla natura dell’arte e sul prezzo che a volte richiede.

Dig! (2004)

Girato nell’arco di sette anni, questo documentario segue le traiettorie divergenti di due band amiche e rivali: The Brian Jonestown Massacre, guidata dal geniale e autodistruttivo Anton Newcombe, e The Dandy Warhols, capitanata dal più pragmatico Courtney Taylor-Taylor. Mentre i Dandy Warhols firmano con una major e ottengono il successo commerciale, i BJM implodono in un caos di droghe, litigi sul palco e opportunità sabotate.

Dig! è una parabola shakespeariana sulla dicotomia tra arte e commercio, amicizia e invidia. Ondi Timoner cattura con un’immediatezza sconvolgente la cronaca di un suicidio artistico annunciato. Anton Newcombe emerge come una figura tragica, un archetipo del talento puro che rifiuta visceralmente ogni compromesso, sabotando se stesso e la sua band in nome di un’integrità artistica che sconfina nella follia. Il film non giudica, ma documenta la cruda realtà della scena musicale underground, dove il genio e l’autodistruzione sono spesso due facce della stessa medaglia. L’estetica grezza, quasi da filmino amatoriale, contribuisce a creare un senso di autenticità e urgenza, facendoci sentire testimoni diretti di un disastro in corso. Dig! è diventato un testo fondamentale per capire le dinamiche del rock indipendente, dimostrando come un documentario possa non solo raccontare una storia, ma anche plasmare la mitologia dei suoi protagonisti.

Una visione curata da un regista, non da un algoritmo

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A Band Called Death (2012)

Prima dei Ramones e dei Sex Pistols, a Detroit, tre fratelli afroamericani, David, Dannis e Bobby Hackney, formavano una band chiamata Death. Suonavano un rock and roll furioso e veloce che anticipava il punk di diversi anni. Rifiutati dalle case discografiche a causa del loro nome considerato “negativo”, registrarono un singolo autoprodotto nel 1976 e poi svanirono nell’oblio, fino a quando i loro dischi non furono riscoperti decenni dopo da collezionisti di vinili.

A Band Called Death è una straordinaria opera di archeologia musicale, un documentario che riscrive un pezzo di storia del rock. È una storia commovente di legami familiari, integrità artistica e sogni differiti. Il film celebra la visione profetica del leader e chitarrista David Hackney, un uomo che credeva così fermamente nella sua musica da sacrificare la possibilità di successo pur di non cambiare il nome della band. La sua fede incrollabile, inizialmente vista come testardaggine, si rivela alla fine una profezia autoavveratasi. Il documentario intreccia magnificamente le interviste con i fratelli sopravvissuti, Bobby e Dannis, con le registrazioni originali e le animazioni, restituendo la potenza e l’urgenza della loro musica. È una delle più belle perle nascoste a tema musicale portate alla luce dal cinema, un racconto edificante sulla resilienza e sulla convinzione che la vera arte, prima o poi, troverà il suo pubblico.

Frank (2014)

Jon, un aspirante musicista, si unisce a un’eccentrica band pop d’avanguardia, i Soronprfbs, guidata dal misterioso ed enigmatico Frank. La particolarità di Frank è che indossa costantemente un’enorme testa finta di cartapesta, che non toglie mai. Ritiratisi in una baita isolata in Irlanda per registrare un album, Jon si scontra con la natura caotica e incomprensibile del processo creativo della band.

Ispirato liberamente alla figura di Frank Sidebottom (alter ego del comico e musicista Chris Sievey) e ad altri musicisti “outsider” come Daniel Johnston e Captain Beefheart, Frank è una commedia surreale e profondamente toccante sulla creatività, la malattia mentale e il mito del genio tormentato. . Jon, interpretato da Domhnall Gleeson, rappresenta il nostro sguardo “normale” sul mondo incomprensibile dell’arte d’avanguardia, cercando di addomesticarla e renderla “più orecchiabile” per il pubblico. Ma il cuore del film è la straordinaria performance di Michael Fassbender, che riesce a creare un personaggio complesso, vulnerabile e carismatico senza mai mostrare il proprio volto. Frank è una delle più originali pellicole sulla creazione musicale, un’opera che ci interroga su cosa significhi essere un artista e se il dolore sia un prerequisito necessario per la grande arte.

Once (2007)

Un musicista di strada di Dublino, che di giorno ripara aspirapolveri nel negozio del padre, incontra una giovane immigrata ceca che vende fiori. Lei è una pianista, lui un chitarrista e cantautore. Nell’arco di una settimana, i due scoprono una profonda connessione attraverso la musica, scrivendo e registrando canzoni che parlano delle loro vite e dei loro amori passati.

Girato con un budget irrisorio e con uno stile quasi documentaristico, Once è un miracolo di semplicità e onestà emotiva. Il regista John Carney cattura la magia di un incontro fugace, un amore platonico che sboccia e si consuma interamente nel processo creativo. Glen Hansard e Markéta Irglová, musicisti nella vita reale, portano una chimica autentica e una vulnerabilità disarmante ai loro ruoli. Il film non è un musical tradizionale; le canzoni non interrompono la narrazione, sono la narrazione. Ogni brano, dal rabbioso pezzo di strada iniziale alla struggente “Falling Slowly” (vincitrice dell’Oscar), è un capitolo della loro storia. Once è un film sull’intimità che si crea nel fare musica insieme, un’opera che celebra i piccoli momenti di salvezza che possono cambiare una vita, anche se solo per una settimana.

I’m Not There (2007)

Invece di un racconto biografico convenzionale, il film di Todd Haynes esplora le molte vite e le tante maschere di Bob Dylan attraverso sei diversi attori che incarnano differenti aspetti della sua personalità e della sua carriera. Un giovane poeta (Ben Whishaw), un profeta folk (Christian Bale), un fuorilegge (Richard Gere) e una rockstar androgina sull’orlo del collasso (Cate Blanchett) sono solo alcune delle sue sfaccettature.

I’m Not There è la quintessenza dell’anti-biopic, un’opera audace e intellettualmente stimolante che rifiuta l’idea di poter racchiudere un artista come Dylan in una singola narrazione. Haynes non cerca il “vero” Dylan, ma suggerisce che la sua identità è una costruzione fluida, un collage di miti, citazioni e performance. Ogni segmento del film adotta uno stile cinematografico diverso, dal documentario in bianco e nero alla Fellini al western revisionista, rispecchiando le continue trasformazioni dell’artista. La performance di Cate Blanchett nei panni del Dylan del 1966 è semplicemente sbalorditiva, una mimesi fisica e spirituale che trascende il genere. Questo film è una delle più radicali riflessioni del cinema d’autore a tema musicale sull’identità, la fama e il modo in cui un artista può diventare un ricettacolo per le proiezioni e le ansie di un’intera generazione.

Velvet Goldmine (1998)

Nel 1984, un giornalista, Arthur Stuart, viene incaricato di scrivere un articolo sulla scomparsa della rockstar del glam rock Brian Slade, assassinato dieci anni prima sul palco in un’evidente messinscena. Attraverso una serie di flashback e interviste con le persone che lo hanno conosciuto, Arthur ricostruisce l’ascesa e la caduta di Slade, la sua relazione con la moglie Mandy e il suo intenso e distruttivo rapporto con il rocker americano Curt Wild.

Ispirato alle vite e alle mitologie di David Bowie, Iggy Pop e Lou Reed, Velvet Goldmine di Todd Haynes è una celebrazione abbagliante e malinconica dell’era glam rock. Più che un biopic, è un’immersione sensoriale in un’epoca di ambiguità sessuale, eccessi e utopie artistiche. Il film, strutturato come un Quarto Potere in paillettes, esplora i temi della memoria, dell’identità come performance e del potere trasformativo della musica. Haynes utilizza un linguaggio visivo lussureggiante e frammentato per catturare l’essenza di un movimento che era tanto una rivoluzione estetica quanto musicale. Le performance di Jonathan Rhys Meyers (Slade/Bowie) e Ewan McGregor (Wild/Iggy) sono cariche di un’energia elettrica e pericolosa. Velvet Goldmine è un sogno febbrile, un’opera che non si limita a raccontare il glam, ma lo incarna, con tutta la sua bellezza effimera e la sua inevitabile tristezza.

20,000 Days on Earth (2014)

Questo film documenta un giorno fittizio, il 20.000esimo, nella vita del musicista, scrittore e icona Nick Cave. La giornata si snoda tra una sessione di terapia, una visita all’archivio personale, prove con la sua band The Bad Seeds e incontri surreali in auto con figure del suo passato, come Kylie Minogue e l’attore Ray Winstone.

20,000 Days on Earth è un documentario che gioca magistralmente con i confini tra realtà e finzione, offrendo una meditazione profonda e poetica sul processo creativo e sulla costruzione del mito personale. I registi Iain Forsyth e Jane Pollard evitano il formato tradizionale del documentario musicale per creare qualcosa di molto più intimo e filosofico. Il film non pretende di rivelare il “vero” Nick Cave, ma esplora come l’artista stesso modella la propria realtà e la propria memoria per alimentare la sua arte. Le conversazioni, sebbene sceneggiate, rivelano verità profonde sulla natura della performance, sulla perdita e sulla trasformazione. Visivamente sontuoso e narrativamente innovativo, questo film è un’opera d’arte a sé stante, un ritratto affascinante di un artista che vive costantemente in uno spazio “dove l’immaginazione e la realtà si intersecano”.

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Searching for Sugar Man (2012)

Alla fine degli anni ’60, un misterioso musicista di Detroit di nome Rodriguez registrò due album che, secondo i produttori, lo avrebbero consacrato come uno dei più grandi artisti della sua generazione. Invece, gli album fallirono e Rodriguez svanì nell’oscurità. A sua insaputa, una copia pirata della sua musica arrivò in Sudafrica, dove divenne un inno della lotta contro l’apartheid e un fenomeno culturale. Decenni dopo, due fan sudafricani decidono di scoprire la verità sulla morte del loro eroe.

Vincitore del premio Oscar come miglior documentario, Searching for Sugar Man è una storia così incredibile da sembrare fittizia. Il regista Malik Bendjelloul costruisce il film come un thriller, un’indagine avvincente che tiene lo spettatore con il fiato sospeso. È una celebrazione del potere della musica di attraversare i confini e di ispirare il cambiamento sociale, ma è anche una riflessione commovente sulla natura effimera della fama e sulla dignità di una vita vissuta lontano dai riflettori. La musica di Rodriguez, con i suoi testi poetici e socialmente consapevoli, è la vera protagonista del film. Searching for Sugar Man è una delle più incredibili perle nascoste a tema musicale, un racconto edificante e quasi miracoloso che dimostra come una singola voce possa risuonare in tutto il mondo, anche quando l’artista pensa di non essere ascoltato da nessuno.

24 Hour Party People (2002)

Il film racconta la storia della scena musicale di Manchester dalla fine degli anni ’70 all’inizio degli anni ’90, vista attraverso gli occhi del giornalista e fondatore della Factory Records, Tony Wilson. Dalla nascita del post-punk con i Joy Division all’esplosione della cultura rave con gli Happy Mondays e la costruzione del leggendario nightclub Haçienda, il film è una cronaca caotica e irriverente di un’era musicale.

Diretto da Michael Winterbottom, 24 Hour Party People è un’opera post-moderna che frantuma le convenzioni del biopic. Il protagonista, un brillante Steve Coogan nei panni di Tony Wilson, rompe costantemente la quarta parete, commentando gli eventi, ammettendo le imprecisioni storiche e citando la massima di John Ford: “Quando la leggenda diventa realtà, stampa la leggenda. Il film è un vortice di energia, umorismo e tragedia, che cattura perfettamente lo spirito anarchico e l’idealismo fallimentare della Factory Records. Non è solo un film sulla musica, ma sulla geografia dell’autenticità: mostra come la desolazione della Manchester industriale abbia generato un suono unico e irripetibile. Un’opera fondamentale che celebra il caos creativo e l’importanza di credere nel potere dell’arte, anche a costo della bancarotta.

This Is Spinal Tap (1984)

Questo mockumentary segue la disastrosa tournée americana della fittizia band heavy metal britannica Spinal Tap, autoproclamatasi “una delle band più rumorose d’Inghilterra. Il regista Marty Di Bergi documenta i loro ego smisurati, le pretese artistiche assurde, i litigi interni e una serie infinita di incidenti sfortunati, tra cui batteristi che muoiono in circostanze bizzarre e scenografie monumentali che finiscono per essere comicamente piccole.

Diretto da Rob Reiner, This Is Spinal Tap non ha solo inventato il genere del mockumentary, ma ha anche creato una satira così perfetta e acuta del mondo del rock da essere considerata da molti musicisti più veritiera di qualsiasi documentario “reale. Ogni gag, dall’amplificatore che va “fino a 11” al monolite di Stonehenge in miniatura, è diventata iconica, un commento tagliente sull’auto-indulgenza e la disconnessione dalla realtà tipiche di molte rockstar. Ma la genialità del film risiede nel suo affetto genuino per i personaggi. David St. Hubbins, Nigel Tufnel e Derek Smalls sono stupidi, ma la loro passione per la musica è innegabile e la loro fratellanza, per quanto disfunzionale, è accattivante. Il film ride con loro tanto quanto di loro, creando un’opera che è allo stesso tempo esilarante e stranamente toccante.

Anvil! The Story of Anvil (2008)

Negli anni ’80, la band heavy metal canadese Anvil era sul punto di sfondare, influenzando gruppi come Metallica e Slayer. Trent’anni dopo, i membri fondatori, il cantante Steve “Lips” Kudlow e il batterista Robb Reiner, lavorano ancora in umili impieghi, ma non hanno mai smesso di sognare. Il documentario li segue mentre intraprendono un disastroso tour europeo e tentano di registrare il loro tredicesimo album.

Anvil! The Story of Anvil è stato definito “il vero Spinal Tap”. È un documentario esilarante, commovente e profondamente umano sulla perseveranza, l’amicizia e il rifiuto di abbandonare i propri sogni, anche quando tutto sembra perduto. Il regista Sacha Gervasi, un tempo roadie della band, cattura con affetto e senza condiscendenza la passione incrollabile di Lips e Robb. Il film è pieno di momenti di comicità involontaria derivanti dalle loro disavventure, ma il suo cuore è il legame quasi fraterno tra i due protagonisti. È una storia universale sulla lotta per mantenere viva la propria passione di fronte alle avversità della vita. Un racconto edificante che celebra la dignità del “fallimento” e la vittoria che si trova nel semplice atto di non arrendersi mai.

Scott Walker: 30 Century Man (2006)

Questo documentario traccia l’incredibile percorso artistico di Scott Walker, da idolo pop degli anni ’60 con i Walker Brothers a enigmatico e intransigente artista d’avanguardia. Attraverso rare interviste con lo stesso Walker e testimonianze di ammiratori come David Bowie, Brian Eno e Jarvis Cocker, il film cerca di far luce su una delle figure più misteriose e influenti della musica moderna.

Scott Walker: 30 Century Man è un ritratto affascinante di un artista che ha deliberatamente voltato le spalle alla fama per inseguire una visione artistica senza compromessi. Il regista Stephen Kijak riesce nell’impresa quasi impossibile di avvicinarsi a una figura notoriamente reclusa, offrendo uno sguardo prezioso sul suo processo creativo. Il film documenta la registrazione del suo album del 2006, The Drift, mostrandoci un artista al lavoro con una meticolosità quasi terrificante, come quando fa registrare a un percussionista il suono di un pugno su un pezzo di carne di maiale. Il documentario è un’introduzione essenziale a un catalogo musicale tanto difficile quanto gratificante, e una riflessione profonda sul coraggio necessario per seguire il proprio percorso artistico, ovunque esso porti.

Last Days (2005)

Ispirato agli ultimi giorni di vita di Kurt Cobain, il film di Gus Van Sant segue un giovane musicista rock di nome Blake, che si aggira come un fantasma in una grande e fatiscente villa nei boschi. Evitando amici, manager e familiari, Blake vaga per la casa e la foresta circostante, mormorando frasi sconnesse e sprofondando in uno stato di isolamento e disperazione catatonica.

Last Days è un’opera radicale e anti-narrativa, un’esperienza cinematografica quasi meditativa che rifiuta ogni spiegazione psicologica o drammatizzazione convenzionale. Van Sant non è interessato a raccontare la storia di Cobain, ma a catturare uno stato d’animo: l’opprimente peso della fama, la disconnessione totale dalla realtà e l’inevitabile scivolamento verso la fine. Michael Pitt offre una performance ipnotica e quasi muta, incarnando la stanchezza esistenziale di un’icona intrappolata. La fotografia di Harris Savides, con i suoi lunghi piani sequenza e la sua luce naturale, crea un’atmosfera eterea e claustrofobica. È un film difficile, che richiede pazienza, ma che ricompensa con un ritratto potente e indimenticabile della solitudine e del vuoto che possono nascondersi dietro il successo.

Inside Llewyn Davis (2013)

Ambientato nel Greenwich Village del 1961, il film segue una settimana nella vita di Llewyn Davis, un talentuoso ma sfortunato cantante folk. Senza casa e senza un soldo, Llewyn si sposta da un divano all’altro, alienandosi amici e amanti, mentre cerca di far decollare la sua carriera da solista dopo il suicidio del suo partner musicale. Il tutto mentre si prende cura, controvoglia, di un gatto fuggito.

Diretto dai fratelli Coen, Inside Llewyn Davis è un ritratto malinconico e tragicomico di un artista che sembra destinato a fallire. Il film è una riflessione agrodolce sul divario tra talento e successo, e sulla sfortuna di essere “il precursore”, arrivato troppo presto sulla scena per raccogliere i frutti del folk revival che esploderà di lì a poco. . La struttura circolare del film, che inizia e finisce nello stesso vicolo, suggerisce un ciclo infinito di fallimenti, ma anche una sorta di stoica perseveranza. È un’opera impeccabile sulla difficoltà di essere un artista senza compromessi in un mondo che non sembra avere posto per te.

Buena Vista Social Club (1999)

Nel 1996, il chitarrista americano Ry Cooder si reca a Cuba per riunire un gruppo di leggendari musicisti cubani, molti dei quali erano caduti nell’oblio dopo la rivoluzione di Castro. Il risultato è un album di successo mondiale e una serie di concerti trionfali ad Amsterdam e alla Carnegie Hall di New York. Il regista Wim Wenders documenta questo incredibile revival.

Buena Vista Social Club è un documentario gioioso e toccante che celebra la musica come memoria storica e forza vitale. Wenders cattura non solo le performance musicali, ma anche le storie personali di questi musicisti anziani, la cui passione e il cui talento sono rimasti intatti nonostante decenni di oblio. Il film è anche un ritratto affascinante di Cuba, un paese dove il tempo sembra essersi fermato, preservando una cultura musicale che altrove era scomparsa. L’isolamento geografico e politico dell’isola diventa, paradossalmente, il custode della sua autenticità. Ibrahim Ferrer, Compay Segundo, Rubén González e Omara Portuondo emergono come personaggi carismatici e indimenticabili. Il film è un trionfo, un’opera che ha riportato alla luce un tesoro musicale e ha dimostrato che non è mai troppo tardi per una seconda occasione.

Nico, 1988 (2017)

Il film si concentra sugli ultimi due anni di vita di Christa Päffgen, in arte Nico, l’iconica cantante dei Velvet Underground e musa di Andy Warhol. Lontana dai giorni della Factory, Nico vive una vita nomade in Europa, lottando contro la dipendenza dall’eroina e cercando di ricostruire un rapporto con il figlio Ari, mentre si esibisce in tour con una band di “dilettanti tossici” per promuovere la sua musica solista, oscura e senza compromessi.

Diretto da Susanna Nicchiarelli, Nico, 1988 è un film biografico su musicisti non famosi nel senso che si concentra sul periodo meno conosciuto e glamour della sua vita. È un ritratto crudo e onesto di una donna che rifiuta di essere definita dal suo passato di icona di bellezza. La straordinaria performance di Trine Dyrholm cattura la voce profonda, l’umorismo caustico e la disperata fragilità di Nico. Il film non la giudica, ma la osserva con empatia mentre cerca di affermarsi come artista a pieno titolo, al di là dell’ombra ingombrante dei Velvet Underground. Le scene dei concerti, con Dyrholm che canta dal vivo, sono potenti e immersive, restituendo tutta la forza della musica cupa e ipnotica di Nico. Un’opera intensa e commovente su una donna che ha scelto di vivere e morire alle proprie condizioni.

Margini (2022)

Grosseto, 2008. Michele, Edoardo e Iacopo sono i membri di una band punk hardcore. Quando la possibilità di aprire il concerto di una famosa band americana a Bologna sfuma, decidono di fare l’impensabile: organizzare loro stessi il concerto nella loro sonnolenta città di provincia. L’impresa si rivelerà un percorso a ostacoli tra burocrazia comunale, problemi finanziari e tensioni interne alla band.

Margini è una commedia fresca, divertente e autentica che cattura l’essenza dello spirito punk del “Do It Yourself”. Basato sull’esperienza autobiografica del regista Niccolò Falsetti, il film è un’ode appassionata alla vita di provincia e alla lotta per creare qualcosa di significativo in un luogo che sembra non offrire nulla. È una delle più riuscite storie di musicisti nel cinema indipendente italiano, un racconto universale su cosa significhi far parte di una band emergente. La geografia dell’autenticità qui è centrale: l’apatia di Grosseto non è solo uno sfondo, ma il catalizzatore che spinge i protagonisti all’azione. Il film è pieno di energia, con dialoghi brillanti e un profondo amore per la sottocultura che racconta. Un’opera genuina che parla a chiunque abbia mai sognato in grande da un piccolo posto.

Sound of Metal (2019)

Ruben, un batterista heavy metal, vede la sua vita sconvolta quando inizia a perdere improvvisamente l’udito. La sua ragazza e compagna di band, Lou, lo convince a entrare in una comunità isolata per sordi, gestita da un veterano del Vietnam di nome Joe. Lì, Ruben deve affrontare un futuro senza suono e decidere se accettare la sua nuova identità o aggrapparsi disperatamente al mondo che ha perso.

Sound of Metal è un’esperienza cinematografica viscerale e profondamente immersiva. Il regista Darius Marder utilizza un sound design rivoluzionario per farci vivere la perdita dell’udito dal punto di vista di Ruben, alternando il mondo sonoro a un silenzio ovattato e distorto. La performance di Riz Ahmed è fenomenale, un ritratto straziante di rabbia, negazione e, infine, di una difficile accettazione. Il film esplora temi complessi come l’identità, la dipendenza e il significato di “casa”. Non tratta la sordità come una disabilità da “curare”, ma come una cultura e un’identità a sé stanti. È una delle più potenti pellicole sulla creazione musicale, o meglio, sulla sua perdita, un viaggio emotivo che ci porta a trovare la bellezza e la pace non nel suono, ma nella quiete.

Wild Combination: A Portrait of Arthur Russell (2008)

Questo documentario esplora la vita e la musica di Arthur Russell, un artista visionario e prolifico la cui opera ha attraversato generi diversi, dalla composizione d’avanguardia alla disco, dal folk sperimentale al pop. Musicista e violoncellista originario dell’Iowa, Russell divenne una figura chiave della scena underground di New York negli anni ’70 e ’80, prima della sua morte prematura per AIDS nel 1992.

Wild Combination è un ritratto delicato e poetico di un artista la cui musica, in gran parte ignorata durante la sua vita, ha trovato un vasto pubblico solo postuma. Il regista Matt Wolf assembla filmati d’archivio rari, interviste con i collaboratori (tra cui Philip Glass) e con la famiglia di Russell, per creare un’immagine intima di un uomo timido e di un musicista instancabilmente innovativo. Il film cattura la malinconia e la bellezza trascendente della sua musica, che spesso esplorava temi di amore e perdita con una sensibilità unica. È un’opera essenziale per scoprire un cult movie su musicisti underground che celebra un talento singolare e la cui influenza continua a crescere, dimostrando come l’arte possa vivere ben oltre la vita del suo creatore.

Genghis Blues (1999)

Il film segue il viaggio di Paul Peña, un musicista blues americano cieco, nella remota repubblica di Tuva, in Asia centrale. Affascinato dal canto armonico tuvano (throatsinging), una tecnica vocale che permette di produrre più note contemporaneamente, Peña impara da autodidatta questa antica forma d’arte. Invitato a competere al festival annuale di canto armonico, intraprende un’avventura incredibile che unisce due mondi musicali apparentemente distanti.

Vincitore del premio del pubblico al Sundance, Genghis Blues è un documentario affascinante e commovente che celebra la musica come linguaggio universale. La storia di Paul Peña è di per sé straordinaria: un uomo che, attraverso una radio a onde corte, scopre una cultura dall’altra parte del mondo e se ne appropria con passione e rispetto. Il film è un’esplorazione gioiosa dell’incontro culturale, un ponte tra il blues del Delta del Mississippi e le tradizioni sciamaniche delle steppe siberiane. È un racconto di amicizia, perseveranza e della capacità umana di connettersi attraverso il suono. Una vera perla nascosta a tema musicale che allarga gli orizzonti e scalda il cuore.

We Don’t Care About Music Anyway… (2009)

Questo documentario è un’immersione profonda nella scena musicale sperimentale e noise di Tokyo. Attraverso i ritratti di diversi artisti, tra cui Otomo Yoshihide, Sakamoto Hiromichi e Numb, il film esplora un universo sonoro radicale dove i giradischi vengono distrutti, i violoncelli suonati con attrezzi elettrici e i computer portatili diventano strumenti di caos sonoro.

We Don’t Care About Music Anyway… è un viaggio visivamente e sonoramente potente nel cuore di una delle scene musicali alternative più estreme del mondo. I registi Cédric Dupire e Gaspard Kuentz non si limitano a documentare le performance, ma contestualizzano la musica all’interno del paesaggio urbano di Tokyo, una metropoli di cemento, neon e rumore costante. Il film suggerisce che questa musica non è un semplice atto artistico, ma una risposta necessaria, quasi una forma di esorcismo, all’alienazione della vita moderna. È un’opera impegnativa ma affascinante, che sfida le nostre definizioni di “musica” e offre uno sguardo su artisti che spingono i confini del suono fino al punto di rottura.

Instrument (1999)

Realizzato nell’arco di dieci anni dal regista Jem Cohen in stretta collaborazione con la band, Instrument è un ritratto non convenzionale dei Fugazi, leggendaria band post-hardcore di Washington D.C. Il film mescola riprese di concerti, momenti intimi in studio e backstage, interviste e frammenti visivi astratti, catturando l’etica “Do It Yourself” e l’incrollabile integrità politica della band.

Instrument è l’antitesi del documentario rock convenzionale. Proprio come la musica dei Fugazi, il film è frammentato, intenso e rifiuta facili narrazioni. Non c’è una trama lineare, ma un collage di momenti che, messi insieme, restituiscono l’essenza di una band che ha sempre operato al di fuori dei circuiti mainstream. Cohen cattura la potenza viscerale delle loro esibizioni dal vivo, ma anche la loro riflessività e il loro umorismo. Il film è una testimonianza del loro impegno a mantenere i prezzi dei biglietti e dei dischi bassi, e della loro ferma convinzione che la musica possa essere una forza di cambiamento sociale. Un documento essenziale su una delle band più importanti e integre della storia del rock indipendente.

High Fidelity (2000)

Rob Gordon, proprietario di un negozio di dischi di Chicago sull’orlo del fallimento, viene lasciato dalla sua ragazza, Laura. Per capire cosa c’è che non va in lui, decide di ricontattare le sue cinque ex più importanti, le sue “top five” delle rotture sentimentali. Tra la compilazione di infinite classifiche musicali con i suoi due eccentrici dipendenti, Rob intraprende un viaggio tragicomico nell’insicurezza maschile e nella sua ossessione per la cultura pop.

Basato sull’omonimo romanzo di Nick Hornby, High Fidelity è una commedia romantica intelligente e divertente che parla a chiunque abbia mai usato la musica per dare un senso alla propria vita. Il film, diretto da Stephen Frears, cattura perfettamente la mentalità del collezionista di musica, un mondo fatto di elitarismo, nostalgia e un amore quasi patologico per le liste. John Cusack è perfetto nel ruolo di Rob, un protagonista simpaticamente nevrotico e autoindulgente che rompe costantemente la quarta parete per condividere le sue ansie. Al di là delle gag, il film è una riflessione acuta sulla difficoltà di crescere e di passare dal criticare la vita al parteciparvi attivamente. Un classico di culto con una colonna sonora impeccabile.

Coffee and Cigarettes (2003)

Il film è una raccolta di undici cortometraggi in bianco e nero, girati da Jim Jarmusch in un arco di quasi vent’anni. Ogni vignetta mostra due o tre personaggi, spesso attori e musicisti che interpretano versioni fittizie di se stessi, seduti a un tavolo a bere caffè, fumare sigarette e conversare. Tra gli incontri memorabili ci sono quelli tra Iggy Pop e Tom Waits, e tra i membri del Wu-Tang Clan, GZA e RZA, e l’attore Bill Murray.

Coffee and Cigarettes è un’opera minimalista e stilisticamente impeccabile che celebra il piacere dei piccoli rituali quotidiani e delle conversazioni apparentemente insignificanti. Jarmusch, uno dei più importanti registi del cinema indipendente, usa questa struttura ripetitiva per esplorare le dinamiche delle relazioni umane: le incomprensioni, le connessioni mancate, i momenti di imbarazzo e le rare scintille di vera intesa. La vignetta con Iggy Pop e Tom Waits è un piccolo capolavoro di comicità surreale e tensione passivo-aggressiva. Sebbene non sia un film “sulla musica” in senso stretto, la presenza di così tanti musicisti iconici lo rende un documento affascinante sulla loro persona pubblica, un’istantanea del loro carisma catturata in un momento di pausa.

A Mighty Wind (2003)

Alla morte del leggendario impresario della musica folk Irving Steinbloom, suo figlio organizza un concerto commemorativo riunendo tre dei più famosi gruppi folk degli anni ’60: il trio serio e intellettuale The Folksmen, la coppia un tempo innamorata Mitch & Mickey, e il gruppo corale iper-commerciale The New Main Street Singers. Il documentario fittizio segue i preparativi per il concerto, tra vecchie ruggini e nuove nevrosi.

Diretto da Christopher Guest, il maestro del mockumentary, A Mighty Wind è una satira affettuosa e esilarante del folk revival americano. Come in This Is Spinal Tap, il film utilizza uno stile documentaristico per mettere in ridicolo le pretese e le eccentricità dei suoi personaggi, ma lo fa con una tenerezza che rende i protagonisti irresistibili. Le performance musicali, scritte dallo stesso Guest e dal cast, sono parodie perfette del genere, ma anche canzoni genuinamente belle. Il cuore del film è la storia di Mitch (Eugene Levy) e Mickey (Catherine O’Hara), la cui reunion sul palco è carica di una tensione emotiva che trascende la commedia. Un’opera brillante che trova l’umorismo e l’umanità nella nostalgia.

Shut Up and Play the Hits (2012)

Il 2 aprile 2011, la band dance-punk LCD Soundsystem tenne il suo ultimo, monumentale concerto al Madison Square Garden di New York, prima di sciogliersi all’apice del successo. Questo documentario cattura l’energia esplosiva di quella notte e, parallelamente, segue il leader della band, James Murphy, nelle 48 ore successive, mentre affronta le conseguenze della sua decisione e riflette sul significato di chiudere un capitolo così importante della sua vita.

Shut Up and Play the Hits è sia un film-concerto esaltante sia un ritratto intimo e riflessivo di un artista alle prese con una scelta radicale. I registi Will Lovelace e Dylan Southern contrappongono magnificamente la catarsi collettiva del concerto, con migliaia di fan in delirio, alla solitudine e all’incertezza di Murphy il giorno dopo. L’intervista con il giornalista Chuck Klosterman offre spunti profondi sulla natura della fama, sull’invecchiare nel rock and roll e sulla paura di diventare una parodia di se stessi. Il film è una celebrazione agrodolce di una band che ha definito un’era, e una meditazione onesta sulla difficoltà di dire addio nel momento giusto. Un documento essenziale per chiunque ami la musica e si interroghi sul suo posto nel mondo.

Una visione curata da un regista, non da un algoritmo

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Immagine di Fabio Del Greco

Fabio Del Greco

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