L’immagine che abbiamo dell’antica Grecia sul grande schermo è un’illusione. È un colosso di cartapesta digitale costruito da Hollywood, un paesaggio di eroi muscolosi, sandali lucidi, mostri in CGI e dialoghi roboanti. Da Scontro di Titani a Troy, il cinema mainstream ha trasformato la culla della tragedia occidentale in un parco a tema. Ha preso i miti, che erano strumenti rituali per indagare i traumi della guerra, la fragilità della democrazia e il rapporto dell’uomo con il divino, e li ha ridotti a puro spettacolo. Un tradimento non solo storico, ma soprattutto filosofico.
Questa guida è un antidoto. È un viaggio nel cinema indipendente, alla ricerca di quei registi che hanno guardato all’Ellade non come a uno scenario esotico, ma come a un testo vivo. Per i grandi autori, il mito greco è un bisturi affilato. È lo strumento che Pier Paolo Pasolini usa per diagnosticare lo scontro mortale tra un mondo arcaico e sacro e il nichilismo del capitalismo moderno. È l’allegoria che Theo Angelopoulos impiega per decostruire e ricucire i traumi della storia politica greca. È l’intrusione dell’orrore logico e sacrificale che Yorgos Lanthimos scatena nelle nostre ordinate vite borghesi.
I film mainstream sono facili perché offrono risposte ed eroi. I film d’autore che esploreremo sono difficili perché, come le tragedie originali di Euripide o Sofocle, pongono domande irrisolvibili. Esplorano il limite della ragione umana, il conflitto insolubile tra individuo e stato, tra libero arbitrio e un destino che ha la forma di una legge di natura. In questo, nel loro rifiuto della consolazione, questi film sono paradossalmente più fedeli allo spirito rituale e civico del teatro di Dioniso di qualsiasi ricostruzione in computer grafica.
Noterete che molti di questi registi, da Pasolini ad Angelopoulos, hanno attivamente evitato la “bella cartolina” della Grecia classica, rifiutando l’estetica turistica del Partenone. Hanno cercato invece l’arcaico: un mondo più antico, più sporco, più autentico. Pasolini non ha girato in Grecia, ma in Marocco e in Turchia, non perché fossero storicamente accurati, ma perché erano luoghi pre-industriali e pre-capitalisti, dove la sacralità che lui vedeva perduta in Occidente pulsava ancora. Il nostro non sarà un viaggio nell’accuratezza storica, ma nell’autenticità filosofica.
Edipo Re (1967)
La tragedia di Sofocle sull’uomo destinato a uccidere il padre e sposare la madre. Pier Paolo Pasolini divide il film in tre parti: un prologo autobiografico nell’Italia degli anni ’20, la tragedia vera e propria, ambientata in un Marocco arcaico e pre-industriale, e un epilogo nell’Italia industrializzata degli anni ’60, con Edipo cieco che vaga per Bologna.
Questo non è un film su Edipo; è un film dove Pasolini è Edipo. È la sua confessione più scoperta, un’analisi freudiana e marxista della propria vita e del proprio tempo. Il prologo moderno stabilisce il trauma borghese e il complesso edipico. L’epilogo mostra Edipo/Pasolini come l’artista-profeta cieco, un reietto che suona il flauto nelle piazze di un mondo capitalista che ha profanato e dimenticato il sacro.
La scelta del Marocco è la chiave di tutto. Pasolini non cerca la Grecia classica; l’Atene di Pericle è, per lui, già troppo razionale, troppo borghese. Cerca un mondo arcaico, un “terzo mondo” dove il mito non è una storia ma una realtà, dove il sole è un dio e il sangue è sacro. La regia è ieratica, i costumi (di Danilo Donati) sono maschere rituali, la recitazione (di Franco Citti) rifiuta la psicologia. È la trasposizione di un sogno, un’indagine sulla natura ineluttabile del Fato.
Medea (1969)
La maga barbara Medea, interpretata dalla divina Maria Callas nella sua unica, muta e potentissima prova cinematografica, aiuta Giasone a rubare il Vello d’Oro. Trasferita a Corinto, viene tradita da Giasone, che decide di sposare la figlia del re per potere politico. La vendetta di Medea sarà un atto rituale e assoluto.
Questo film è il manifesto filosofico di Pasolini. Non è una tragedia psicologica sulla gelosia; è un’epopea antropologica sullo scontro tra due mondi inconciliabili. La Colchide di Medea (girata in Turchia, in Cappadocia) è un mondo arcaico, pre-logico, dominato dal rito, dalla magia e dal sacrificio umano. È un mondo in cui tutto è sacro.
La Corinto di Giasone è razionale, laica, “moderna”, e quindi profana. Giasone è il primo tecnocrate, il primo borghese, un uomo che non capisce più il linguaggio del sacro. Il Centauro, figura chiave, lo spiega: a Giasone bambino appare come creatura mitica; a Giasone adulto appare come uomo, spiegandogli che nel nuovo mondo razionale, “il sacro non esiste più”. La vendetta di Medea, l’infanticidio, non è un atto di passione, ma un atto politico e rituale: è l’unico modo per Medea di negare i suoi figli all’assimilazione del mondo capitalista e profano di Giasone, un estremo atto di resistenza contro il “genocidio culturale”.
Fellini Satyricon (1969)
Liberamente tratto dai frammenti superstiti dell’opera di Petronio, il film segue le avventure picaresche di Encolpio e Ascilto, due giovani studenti, attraverso un affresco grottesco, surreale e orgiastico della Roma imperiale ai tempi di Nerone. Un mondo di decadenza, sesso, violenza e sogni.
Sebbene ambientato a Roma, Satyricon è essenziale per capire la fine dell’epoca greco-romana. Se Pasolini ci mostra il sacro, Fellini ci mostra il suo stadio terminale: un mondo che ha perso il suo centro, dove gli dei sono morti e rimangono solo gli appetiti. È la rappresentazione definitiva della decadenza della cultura classica.
Fellini stesso definì il film “fantascienza del passato”. Non stava ricostruendo la storia; stava sognando un pianeta alieno. Il film è deliberatamente frammentario, disconnesso e incomprensibile, come il testo di Petronio. Ci fa sentire come archeologi che vagano in un incubo. L’estetica è onirica: colori innaturali, personaggi grotteschi, una narrazione che collassa. Non ci sono eroi, non c’è morale, solo un “viaggio al termine della notte” pagano. È il perfetto contraltare al sacro di Pasolini: qui c’è solo il vuoto.
Socrate (1971)
Prodotto per la televisione italiana, questo film di Roberto Rossellini è una ricostruzione didattica, austera e rigorosa degli ultimi giorni di Socrate. Attingendo direttamente dai dialoghi di Platone (Apologia, Critone, Fedone), il film segue il processo, la prigionia e la morte del filosofo, accusato di corrompere i giovani e di non credere negli dei della città.
Questo è un film politico di Rossellini, l’apice del suo progetto di cinema educativo per la TV. È l’anti-spettacolo, il rifiuto totale del peplum e dell’epica. Rossellini crede che la parola di Socrate sia più cinematografica di qualsiasi battaglia. L’unica “azione” è il dialogo, la maieutica. L’Atene ricostruita è deliberatamente spoglia, quasi teatrale, per non distrarre dall’argomentazione. Il film è radicale nella sua aderenza al testo.
Per spogliare la storia di ogni “divismo” hollywoodiano, Rossellini utilizza attori non professionisti o poco noti. Il suo Socrate non è un eroe tragico, è un uomo anziano, dimesso ma inflessibile. Questa scelta, che applica l’estetica neorealista all’antichità, crea un effetto di profonda umanità. Il film non ci chiede di ammirare Socrate, ma di ascoltarlo e capirlo.
Elettra (1962)
Primo film della “trilogia euripidea” del regista greco-cipriota Michael Cacoyannis. Irene Papas interpreta una Elettra indurita dal dolore, esiliata in una capanna di contadini dopo l’omicidio del padre Agamennone. La sua unica, arida ragione di vita è attendere il ritorno del fratello Oreste per compiere la vendetta sulla madre Clitennestra e sul suo amante Egisto.
Questo film è una pietra miliare del cinema greco, una riappropriazione nazionale del mito. Cacoyannis non usa il paesaggio greco come sfondo, ma come prigione e testimone. L’aspra e assolata campagna greca, filmata nel magnifico bianco e nero di Walter Lassally, diventa l’incarnazione del dolore senza tempo di Elettra.
Il film definisce lo stile “ibrido” di Cacoyannis: ha la chiarezza narrativa e la tensione emotiva di un film di Hollywood, ma l’austerità formale, l’uso del coro (sebbene modernizzato) e la profondità psicologica del cinema d’autore europeo. Il volto di Irene Papas è un paesaggio a sé: è arcaico, fiero, e incarna una forza primordiale. È la Tragedia incarnata.
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Le Troiane (1971)
Secondo capitolo della trilogia. Girato in Spagna con un cast internazionale (Katharine Hepburn, Vanessa Redgrave, Geneviève Bujold e Irene Papas nel ruolo di Elena). Il film è un lungo lamento funebre. Dopo la caduta di Troia, le donne sopravvissute (Ecuba, Cassandra, Andromaca) attendono sulla spiaggia di essere spartite come schiave e bottino di guerra dai vincitori greci.
Questo è il film più apertamente politico della trilogia. Uscito durante la guerra del Vietnam e la dittatura dei colonnelli in Grecia, il film usa Euripide per lanciare un grido universale contro la disumanità della guerra. Non ci sono eroi, non c’è gloria; solo la sofferenza inarticolata delle vittime, in particolare donne e bambini, il cui destino è deciso da uomini lontani.
L’uso di grandi star di Hollywood fu una mossa strategica di Cacoyannis. Ha usato la loro fama come un “cavallo di Troia” per veicolare un messaggio politico radicale a un pubblico globale. Il loro stile di recitazione, volutamente teatrale e “più grande della vita”, si fonde con la cruda realtà del testo di Euripide. Il confronto tra l’Ecuba di Hepburn e l’Elena di Papas è centrale: è l’agōn, il dibattito tragico, dove la retorica è un’arma di sopravvivenza.
Ifigenia (1977)
Capitolo finale e cronologicamente iniziale della trilogia. L’armata greca è bloccata ad Aulide, incapace di salpare per Troia a causa della bonaccia. L’oracolo decreta che il re Agamennone deve sacrificare sua figlia, Ifigenia, alla dea Artemide per placare gli dei e permettere la partenza.
Questo film è la critica definitiva al potere. Agamennone non è un padre in luto, è un politico debole, un generale intrappolato tra un esercito assetato di sangue che preme per la guerra e le sue responsabilità familiari. Il sacrificio di Ifigenia non è un atto religioso, ma un omicidio di stato, un atto di cinica Realpolitik per giustificare un’aggressione militare.
L’inganno (Ifigenia è attirata con la promessa di sposare Achille) e la disperata corsa contro il tempo di Clitennestra (Irene Papas) per salvare la figlia creano una tensione da thriller. Il film è il perfetto prologo all’intera saga dell’Orestea. Il sacrificio di Ifigenia è il peccato originale che causa tutto ciò che segue: la caduta di Troia, l’omicidio di Agamennone e la vendetta di Elettra. Cacoyannis chiude il cerchio, mostrando come l’origine della guerra più famosa della mitologia sia un atto di barbarie interna.
Helena (1924)
Un colossale film muto tedesco, diretto da Manfred Noah. Con una durata di oltre tre ore, questo film epico racconta l’intera saga della Guerra di Troia, divisa in due parti: “Il ratto di Elena” e “La caduta di Troia”. È una delle prime e più ambiziose produzioni dedicate al mito greco.
Questo film è un atto di archeologia cinematografica. A lungo considerato perduto, è stato restaurato solo di recente. Vederlo oggi significa assistere alla nascita di un genere. Realizzato nella Repubblica di Weimar, Helena mostra un approccio all’epica completamente diverso da quello americano. È cupo, maestoso e quasi espressionista nella sua messa in scena delle masse e delle passioni.
Rappresenta un percorso alternativo per il cinema mitologico. Non è un peplum guidato dall’eroe muscoloso, ma un affresco corale e tragico. La sua scala e la sua serietà nell’affrontare il mito lo rendono un precursore dimenticato di tutto il cinema d’autore che verrà.
O Thiasos (I Viaggiatori) (1975)
L’epopea di quasi quattro ore di Theo Angelopoulos. Una compagnia itinerante di attori (thiasos) viaggia attraverso la Grecia rurale tra il 1939 e il 1952, tentando di mettere in scena una commedia pastorale. I loro viaggi e le loro vite personali si intrecciano in modo non cronologico con gli eventi tumultuosi della storia greca moderna: la dittatura di Metaxas, l’occupazione nazista e la brutale guerra civile.
Questo è il capolavoro di Angelopoulos e la decostruzione più radicale del mito greco. Il film non è ambientato nell’antica Grecia, ma è l’antica Grecia nel presente. I membri della troupe hanno i nomi dell’Orestea (Agamennone, Clitennestra, Oreste, Elettra) e le loro azioni (tradimenti, omicidi, vendette) sono l’allegoria della storia greca. L’Agamennone (capo della troupe) viene ucciso dai collaborazionisti (Clitennestra ed Egisto), e Oreste (il partigiano comunista) lo vendica.
Lo stile è rigorosamente brechtiano. Angelopoulos rifiuta l’identificazione emotiva. Usa piani-sequenza lunghissimi (solo 80 inquadrature in 230 minuti) e una narrazione non cronologica. La cinepresa si muove e il tempo cambia all’interno della stessa inquadratura. Per Angelopoulos, la storia (antica e moderna) non è un progresso, ma un trauma ciclico. Il mito è la struttura invisibile che costringe i greci a ripetere all’infinito la stessa tragedia. Un film girato in parte, e con enorme rischio, sotto la dittatura dei colonnelli.
Orphée (Orfeo) (1950)
Il poeta e regista Jean Cocteau traspone il mito di Orfeo ed Euridice nella Parigi esistenzialista del dopoguerra. Orfeo, un poeta famoso e annoiato, si ossessiona con la Morte (una principessa che viaggia in Rolls-Royce) e con i messaggi poetici trasmessi da una radio d’auto. Perderà Euridice e dovrà viaggiare nell’Oltretomba, un luogo burocratico a cui si accede attraversando gli specchi.
Cocteau non è interessato alla Grecia; è interessato al Poeta. Il film è un’allegoria sull’artista, la sua ossessione per la morte, l’ispirazione (la radio) e l’immortalità. L’Oltretomba non è l’Ade, ma la “Zona”: un paesaggio onirico fatto di rovine (girato nelle macerie della scuola militare di Saint-Cyr, bombardata durante la guerra).
L’intuizione dello specchio come portale è una delle più potenti della storia del cinema. È la superficie della riflessione (letterale) che l’artista deve attraversare per trovare la verità. Cocteau sovverte il mito: qui è la Morte che si innamora di Orfeo e, infrangendo le regole, lo rende immortale. È una fusione perfetta di surrealismo e mitologia personale.
Dalla nube alla resistenza (1979)
Un film radicale del duo Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. È diviso in due parti. La prima adatta sei dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese: conversazioni filosofiche tra figure mitologiche greche (come Edipo, Tiresia, le Ninfe). La seconda adatta La luna e i falò di Pavese, sulla resistenza partigiana nel dopoguerra.
Questo è cinema anti-spettacolo al suo livello più puro. L’approccio di Straub-Huillet è materialista. Gli attori (non professionisti) sono vestiti con lenzuola e recitano un testo filosofico in un campo italiano, con suono in presa diretta. È il rifiuto totale dell’illusione cinematografica. L’emozione non deriva dalla recitazione (che è piatta, brechtiana), ma dalla tensione tra la parola antica, il corpo dell’attore e il paesaggio moderno.
Il titolo è la tesi del film. Dalla nube” (il mito, il divino, l’oppressione degli dei) “alla resistenza” (l’azione umana, la politica, la lotta antifascista). Straub-Huillet collegano la lotta dell’uomo contro il Fato (il mito) alla lotta del proletariato contro il fascismo (la storia). È un’opera di marxismo-brechtiano applicato all’antichità.
Der Tod des Empedokles (La morte di Empedocle) (1986)
Altro film di Straub-Huillet, basato sulla tragedia incompiuta di Friedrich Hölderlin. Il filosofo pre-socratico Empedocle tenta di convincere i suoi concittadini di Agrigento a vivere in armonia con la natura e a rifiutare le leggi corrotte dello stato. Esiliato, si suicida gettandosi nel cratere dell’Etna.
Il film affronta direttamente un filosofo dell’antica Grecia, visto attraverso il filtro di Hölderlin e degli Straub come un rivoluzionario proto-comunista. È un “nemico dello stato” che predica un ritorno alla natura e il rifiuto della “legge e dell’usanza”.
Girato in Sicilia sull’Etna, il film è un esempio della loro estetica radicale. Usano solo luce naturale e suono in presa diretta. Il vento tra le foglie, il sole, la roccia vulcanica sono importanti quanto il testo di Hölderlin. Straub stesso definì il film una “utopia comunista. Il suicidio di Empedocle non è una sconfitta, ma un atto finale di unione con la natura, un rifiuto totale della società corrotta.
Orfeu Negro (Orfeo Negro) (1959)
Palma d’Oro a Cannes e Oscar al miglior film straniero. Il regista francese Marcel Camus traspone il mito di Orfeo ed Euridice nelle favelas di Rio de Janeiro durante il Carnevale. Orfeo è un conduttore di tram e chitarrista, Euridice una ragazza di campagna in fuga da un uomo misterioso che è l’incarnazione della Morte.
Questo film è un’arma a doppio taglio. Da un lato, è un’opera visivamente sbalorditiva, vibrante, musicale, che ha lanciato la Bossa Nova (con la colonna sonora di Antônio Carlos Jobim e Luiz Bonfá) nel mondo. È un film che ha definito l’immagine del Brasile per una generazione.
Dall’altro lato, è la sua “opera problematica” per eccellenza. Il movimento Cinema Novo brasiliano (come Glauber Rocha) lo ha attaccato ferocemente, definendolo un atto di neocolonialismo. Un regista francese che impone un mito europeo su una cultura afro-brasiliana, riducendo gli abitanti delle favelas a “sempliciotti felici” che “cantano e ballano tutto il giorno”, ignorando la loro povertà e la lotta politica. A differenza di Pasolini, che usa il “terzo mondo” per criticare l’Occidente, Orfeu Negro lo usa come una cartolina esotica per l’Occidente.
Ercole al centro della terra (1961)
L’eroe Ercole (il culturista Reg Park) deve scendere nell’Averno (l’Ade) per recuperare una pietra magica che può salvare la sua amata Deianira da un maleficio. Nel frattempo, il malvagio Lico (un glaciale Christopher Lee) trama per usurpare il trono.
Questo è il peplum (il filone italiano “sword and sandal”) che incontra il cinema d’autore. È diretto (e fotografato) da Mario Bava, il maestro dell’horror gotico italiano. Bava non è interessato alla mitologia o all’azione; è interessato a due cose: Christopher Lee e l’Ade.
La discesa nell’Ade è un capolavoro di estetica pop e gotica. Con un budget inesistente, Bava crea un inferno espressionista. Usando solo nebbia, rocce di cartapesta e, soprattutto, la sua geniale fotografia psichedelica (luci viola, verdi, rosse), crea un mondo onirico. È un fumettone d’autore, un’opera di pop art che fonde il peplum con l’horror, anticipando l’estetica dei video musicali di decenni. Un cult assoluto.
The Illiac Passion (1967)
Un capolavoro perduto e ritrovato del cinema d’avanguardia greco-americano. Gregory Markopoulos adatta liberamente il Prometeo Incatenato di Eschilo, trasportandolo nell’underground della New York degli anni ’60. Il cast è un “chi è chi” della Factory e del cinema sperimentale, con Andy Warhol (nel ruolo di Poseidone), Taylor Mead e Jack Smith.
Markopoulos vedeva il mito greco come una realtà vivente, e mappava gli dei dell’Olimpo sui “mitici” personaggi dell’underground. Il film non racconta Prometeo, ma evoca la sua passione. È un “film-poema” fatto di lampi di immagini, sovrimpressioni, e un uso del colore sensuale. La colonna sonora frammenta la traduzione di Thoreau del testo di Eschilo.
Markopoulos è una figura radicale. A un certo punto, ritirò tutti i suoi film dalla circolazione, decretando che potessero essere visti solo in uno spazio sacro (il “Temenos”) in Grecia. Per lui, il cinema era un rito, un tentativo di guarire spiritualmente lo spettatore, un’idea che collegava direttamente agli antichi templi greci di guarigione.
Inauguration of the Pleasure Dome (1954)
Un cortometraggio fondamentale del cinema sperimentale americano. Kenneth Anger, occultista e seguace di Aleister Crowley, orchestra un “ballo in maschera” rituale. Personaggi (dei, dee, figure mitologiche) si incontrano in una “cupola del piacere” psichedelica per un rito magico.
Per Anger, l’antica Grecia non è storia, è occultismo. È un pagano dichiarato. Le divinità greche (Dioniso, Pan, Ecate) sono archetipi reali che possono essere invocati. Il film non è una narrazione, è un incantesimo visivo, una “messa di mezzanotte” surrealista. È un assalto cromatico e sensoriale.
Come per Pasolini e Jarman, il ritorno al paganesimo (e al mito greco) è un atto queer. È un rifiuto della morale cristiana giudeo-cristiana in favore di un mondo pre-cristiano, magico e sessualmente liberato. (Da menzionare anche il suo film perduto del 1943, Prisoner of Mars, che fondeva il mito del Minotauro con la fantascienza).
Sebastiane (1976)
L’esordio alla regia di Derek Jarman. Racconta la storia di Sebastiano, un soldato romano del IV secolo d.C., esiliato in una guarnigione costiera per il suo cristianesimo. Lì, diventa l’oggetto del desiderio ossessivo e sadico del suo capitano, Severo, portando al suo eventuale martirio.
Sebbene romano, il film è essenziale per la ricezione queer del classicismo. Jarman attinge all’iconografia omorerotica del corpo maschile classico. È una meditazione sulla tensione tra desiderio e repressione, potere (Severo) e sottomissione (Sebastiano), paganesimo (il sole, i corpi) e cristianesimo (il martirio).
Il film è interamente in latino volgare. Questa scelta radicale ha un duplice effetto: dà un’autenticità sporca e reale, e aliena lo spettatore dal dialogo, costringendolo a guardare i corpi e il paesaggio. La celebre scena finale del martirio è girata in slow motion, fondendo il dolore delle frecce con un’estasi quasi sessuale. Jarman trasforma il santo cristiano in un’icona queer e un Adone pagano.
Nostos – Il ritorno (1989)
Un’interpretazione lirica e visionaria dell’Odissea di Omero. Il regista Franco Piavoli segue il viaggio di ritorno dell’eroe (Nostos) dopo la guerra di Troia. Non ci sono mostri o battaglie epiche, ma un viaggio interiore, sensoriale, segnato dal trauma della guerra (PTSD) e dal rapporto con la natura.
Piavoli fa l’opposto di Hollywood. Spoglia l’Odissea di ogni trama per concentrarsi sull’essenza: il Nostos (il “ritorno”, il dolore del ricordo). Il film ha dialoghi minimi, recitati in una lingua inventata, che suona come greco omerico. Come Jarman, Piavoli ci costringe a smettere di capire e iniziare a sentire. Il film diventa un’esperienza “sinfonica”.
L’eroe è “decentrato”. Non è lui a dominare la storia. È la natura (il mare, la luce, la foresta) la vera protagonista. L’uomo è un essere piccolo, traumatizzato, che cerca di ritrovare il suo posto in un cosmo indifferente. È una delle trasposizioni più poetiche e anti-epiche del mito omerico.
The Killing of a Sacred Deer (Il sacrificio del cervo sacro) (2017)
Dal regista greco Yorgos Lanthimos. Un chirurgo di successo, Steven, prende sotto la sua ala un adolescente inquietante, Martin. Quando la vita della famiglia di Steven (la moglie e i due figli) inizia a cadere a pezzi in modo inspiegabile, Martin rivela la natura della sua richiesta: un sacrificio di sangue per espiare un peccato passato.
Questo film è la trasposizione perfetta dell’ Ifigenia in Aulide di Euripide. Lanthimos capisce che la tragedia greca non è psicologia, è logica. Steven (Agamennone) ha “ucciso” il padre di Martin (il “cervo sacro”). Per ripristinare l’equilibrio (la “calma” del “vento”), Artemide (Martin) esige un sacrificio: Steven deve uccidere un membro della sua famiglia (Ifigenia).
L’orrore del film deriva dallo scontro tra la nostra razionalità moderna (la scienza, l’ospedale, la casa borghese) e l’irrazionalità assoluta del mito. Il famoso dialogo “robotico” di Lanthimos mostra personaggi intrappolati in una logica da cui non possono fuggire. Il finale, con la sua violenza assurda e rituale, conferma che la logica barbara e sacrificale dell’antica Grecia non è mai morta; è solo nascosta sotto la superficie sterile del nostro mondo.
Antigone (1992)
Il secondo adattamento greco di Straub-Huillet. Il film utilizza la traduzione tedesca di Friedrich Hölderlin e l’adattamento teatrale di Bertolt Brecht della tragedia di Sofocle. Girato in uno scenario teatrale all’aperto, è una meditazione austera sul testo e sulla sua risonanza politica.
Questo non è Sofocle. È Sofocle filtrato da Hölderlin (il romantico) e Brecht (il marxista). È un film sulla storia della ricezione del testo, su come ogni epoca rilegge l’antichità per parlare a se stessa. Come in tutte le loro opere, la recitazione è anti-psicologica e anti-empatica. Gli attori recitano il testo come una partitura, costringendo lo spettatore a concentrarsi non sul chi, ma sul cosa viene detto.
Girato nell’antico Teatro di Segesta in Sicilia, il film è un altro atto di resistenza estetica. I costumi sono moderni, la dizione è rigorosa. Straub-Huillet usano il conflitto eterno tra Antigone (legge morale) e Creonte (legge dello stato) per parlare dei tiranni moderni.
Chi-Raq (2015)
L’adattamento infuocato di Spike Lee della Lisistrata di Aristofane. Dopo l’omicidio di una bambina, le donne della zona sud di Chicago (“Chi-Raq”, unione di Chicago e Iraq), guidate da Lisistrata, decidono di attuare uno sciopero del sesso per costringere i loro uomini (membri di gang rivali, gli “Spartani” e i “Troiani”) a deporre le armi.
Questo film dimostra l’incredibile modernità di Aristofane. Spike Lee usa la commedia greca per quello che era: una feroce e seria satira politica. Il film è incredibilmente fedele allo spirito dell’originale: è sboccato, arrabbiato, cantato (in versi rap), e profondamente serio riguardo al suo obiettivo: fermare una guerra.
Come Aristofane scriveva Lisistrata durante l'”emergenza” della Guerra del Peloponneso, Lee gira Chi-Raq durante l'”emergenza” della violenza delle gang a Chicago. È la conclusione perfetta per questa guida: Chi-Raq dimostra che i testi dell’antica Grecia non sono reliquie da museo. Sono armi. Sono schemi narrativi e politici vivi, capaci di essere usati oggi per parlare di sesso, razza, potere e violenza con un’urgenza che il cinema mainstream non potrà mai eguagliare.
Sócrates (2018)
Un film indipendente brasiliano sull’omonimo quindicenne Sócrates. Dopo la morte improvvisa della madre, il ragazzo deve sopravvivere da solo ai margini della società di San Paolo, affrontando la povertà estrema, il lutto, la violenza e l’omofobia.
Questo film non è *sull’*antica Grecia, ma usa il nome del filosofo come un’amara allegoria. Il “Socrate” moderno non è un filosofo anziano che muore per le sue idee; è un ragazzo povero e gay che rischia di morire a causa del pregiudizio e dell’indifferenza della sua “polis”.
È un film necessario in questa lista. Prodotto dall’Istituto Querô, è stato co-scritto, prodotto e interpretato da adolescenti a rischio delle comunità a basso reddito di San Paolo. Questo è cinema indipendente nel suo senso più puro. Il film usa il nome più nobile dell’antica Grecia per mostrare le ingiustizie del presente, ponendo una domanda devastante: che ne è della filosofia quando si lotta solo per la sopravvivenza?
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