La foresta, nel nostro immaginario, non è mai soltanto un insieme di alberi. È il luogo “altro”, dove le leggi della città cessano di esistere. Ci sono i grandi film che hanno usato questo spazio selvaggio per storie indimenticabili – e li troverete qui. Ma il vero cuore di questo cinema, che rifiuta la familiarità, è attratto dalla sua “enigmaticità del reale”.
Nei film d’autore, la foresta respira. Diventa un’entità attiva, uno specchio per i traumi psicologici dei personaggi, un catalizzatore per la follia, un archivio di antiche superstizioni o un purgatorio metafisico.
Questa guida definitiva è un percorso che unisce i pilastri fondamentali, dai film più famosi alle opere indipendenti più radicali. Esploreremo film che usano l’ambientazione boschiva non come un semplice contenitore, ma come il cuore pulsante della narrazione: un luogo dove il folk horror ritrova le sue radici pagane, il survival thriller analizza la disperazione umana e il dramma arthouse trova il palcoscenico perfetto per la disintegrazione psicologica.
Capitolo 1: Il Bosco Pagano – Folk Horror e Miti Antichi
Il folk horror è intrinsecamente legato al cinema indipendente. È un sottogenere che prospera sul senso del luogo, sull’isolamento e sulla collisione tra la razionalità moderna e credenze antiche e distorte. In questi film, la foresta non è vuota; è un tempio che pullula di antiche divinità, spiriti e rituali dimenticati, dove il paesaggio stesso esige un sacrificio.
Hagazussa (2017)
Nelle Alpi austriache del XV secolo, la giovane Albrun vive da reietta in una capanna isolata. Ostracizzata dagli abitanti del villaggio che la credono una strega e perseguitata dal trauma della morte della madre, sprofonda lentamente in un vortice di paranoia, visioni pagane e follia.
Hagazussa, un termine antico in alto tedesco per “strega” o “cavalcatrice di siepi”, è un folk horror psicologico che usa il bosco come un’eredità tossica. La foresta alpina, opprimente e costantemente avvolta nella nebbia, non è un rifugio per Albrun; è una prigione emotiva che riflette visivamente il suo decadimento mentale. Il regista Lukas Feigelfeld esplora la psiche di una donna marchiata dalla superstizione. Il bosco è il suo unico compagno, ma è un compagno che sussurra segreti oscuri, confondendo il trauma con il soprannaturale. La natura diventa il palcoscenico per un rituale grottesco, un’esplorazione viscerale di come l’isolamento e la misoginia possano trasformare una vittima nel mostro che gli altri hanno sempre voluto vedere.
November (2017)
In un povero e disperato villaggio estone del XIX secolo, i contadini sopravvivono a un inverno brutale ricorrendo alla magia, al furto e a patti con il diavolo. Creano i kratts, servitori magici fatti di attrezzi agricoli e ossa, per aiutarli. In questo mondo desolato, la giovane Liina usa la magia per conquistare l’amore non corrisposto di Hans.
November è un “fantasy-noir” che dipinge il bosco come un desolato mercato soprannaturale. La straordinaria fotografia in bianco e nero spoglia il paesaggio di ogni romanticismo. Questa non è la natura incantata delle fiabe; è un luogo brutale dove la sopravvivenza ha un costo spirituale tangibile. Il bosco è il luogo dove si incontra il diavolo per acquistare un’anima per il proprio kratt, e dove queste bizzarre e meravigliose creature – fatte di aratri, falci e teschi di animali – prendono vita. È un folk horror sulla disperazione: la foresta non offre misticismo, ma solo un patto faustiano per superare un altro inverno.
Luz: La Flor del Mal (2019)
In una remota comunità montana in Colombia, un predicatore noto come El Señor guida i suoi seguaci con pugno di ferro. Torna al villaggio portando un bambino che crede essere il nuovo Messia. L’arrivo del bambino, unito al risveglio della femminilità delle tre figlie del predicatore, scatena una spirale di violenza, dubbio e terrore mistico.
Questo folk horror colombiano è un trip acido che fonde il fanatismo religioso con l’orrore primordiale della natura. La foresta pluviale montana non è pagana; è uno spazio iper-cattolico e allucinato, un luogo “lirico e poetico” che funge da specchio per la “oscurità che vive dentro di noi”. Come un Jodorowsky che incontra la giungla, il film usa la bellezza lussureggiante come netto contrasto per la fede corrotta. Il bosco è il testimone della follia umana, un luogo dove la natura e la femminilità vengono sistematicamente corrotte dal desiderio primitivo dell’uomo di controllare il divino.
Errementari (2017)
Ambientato nei Paesi Baschi nel 1843, il film segue un fabbro temuto e isolato che, secondo le leggende locali, ha un patto con il diavolo. Quando una bambina orfana, Usue, si intrufola nella sua fortezza nel bosco per recuperare una bambola, scopre che il fabbro tiene un vero demone incatenato nella sua fucina.
Basato su un racconto popolare basco, Errementari è una fiaba gotica e oscura. Il bosco qui è il classico darkwood del folklore europeo: una barriera fisica e superstiziosa che separa il villaggio civilizzato dal mistero indicibile. La foresta di Patxi è un purgatorio autoimposto, un luogo dove il fango, il ferro e il fuoco della sua fucina si mescolano al soprannaturale. È un film visivamente ricco che tratta il folklore con assoluta serietà, usando il bosco come un regno liminale dove gli esseri umani e i demoni dell’inferno possono letteralmente scontrarsi.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
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Sennentuntschi (2010)
In un isolato villaggio alpino svizzero, una misteriosa donna muta appare dal nulla. La sua presenza coincide con i sospetti che tre mandriani solitari, impazziti per la solitudine, abbiano creato una “Sennentuntschi”: una bambola di paglia portata in vita dal diavolo per soddisfare i loro desideri carnali.
Questo thriller folk svizzero è un brillante esercizio di ambiguità. L’ambientazione alpina, simile a Hagazussa, è un vuoto psicologico. La foresta d’alta quota è un luogo di tale solitudine che la superstizione e la violenza maschile repressa ribollono in superficie. Il film intreccia abilmente la leggenda del Sennentuntschi con un mistero di omicidio, lasciandoci nel dubbio: la donna è un demone nato dalla disperazione dei mandriani o una vittima umana su cui la comunità proietta le sue paure più oscure? Il bosco è il catalizzatore della follia collettiva.
The White Reindeer (1952)
Nella desolata Lapponia finlandese, la giovane moglie di un pastore di renne, Pirita, si sente sola e sessualmente frustrata. Si rivolge a uno sciamano locale per una pozione d’amore, ma un sacrificio andato storto la trasforma, durante la luna piena, in una vampirica renna bianca che attira i cacciatori locali verso la loro morte.
Un capolavoro fondativo del folk horror. I “boschi” qui sono le infinite e accecanti distese innevate della Lapponia. Il regista Erik Blomberg usa questo paesaggio minimalista come una potente metafora visiva della solitudine di Pirita. La sua trasformazione è un atto di ribellione sublime: frustrata dal marito cacciatore, lei diventa la preda più ambita e mortale, un’incarnazione vampirica della natura selvaggia stessa. È un’analisi incredibilmente moderna della repressione femminile e del desiderio, mascherata da fiaba mitologica.
Capitolo 2: La Natura Come Chiesa di Satana – Orrore Esistenziale e Follia
In questi film, il bosco non è solo un luogo di antichi dèi, ma un agente attivo di caos psicologico. È un “limbo contorto dell’anima”. È l'”Eden” di Lars von Trier, un luogo dove la natura non guarisce ma infetta, smantellando la razionalità e amplificando il dolore fino a trasformarlo in orrore puro.
Antichrist (2009)
Dopo la tragica morte del loro unico figlio, una coppia si ritira in una capanna isolata nei boschi chiamata “Eden”. Lui, un terapista, cerca di curare il dolore estremo e la colpa di lei, ma la natura circostante diventa un catalizzatore per la follia, la violenza sessuale e una terrificante rivelazione sulla natura del male.
Lars von Trier, scrivendo dal profondo della sua depressione, crea il manifesto definitivo del bosco come inferno psicologico. Il nome “Eden” è un’ironia crudele. La natura qui non guarisce; tormenta. È il luogo dove, come dichiara “Lei”, “la natura è la chiesa di Satana”. I boschi di Antichrist sono un’entità primordiale e maligna, un “caos che regna” e che trova la sua perfetta espressione nella disintegrazione psicologica della protagonista. Il bosco è lo spazio lapsariano dove il dolore, il sesso e la colpa collassano, portando a uno degli atti di cinema più disturbanti e discussi mai creati.
A Field in England (2013)
Durante la guerra civile inglese, un gruppo di disertori fugge da una battaglia e attraversa un campo incolto. Vengono catturati da un alchimista e costretti, sotto l’effetto di potenti funghi allucinogeni, a cercare un tesoro sepolto. La loro sanità mentale si dissolve rapidamente in un incubo paranoico.
Ben Wheatley condensa l’orrore del bosco in un singolo campo. Questo “bosco orizzontale” è un purgatorio, un microcosmo della nazione in guerra con se stessa. La natura stessa, ingerita attraverso i funghi, diventa l’antagonista. In un bianco e nero febbrile e stroboscopico, il paesaggio diventa una prigione psichedelica. Non c’è via di fuga. È un film viscerale che mostra il bosco (o il campo) come un luogo dove le gerarchie umane e le leggi della fisica vengono smantellate, lasciando solo un urlo primordiale.
Without Name (2016)
Un geometra, Eric, fugge da una vita familiare problematica per un incarico: mappare un’antica e remota foresta irlandese. Il bosco, che la gente del posto chiama “Senza Nome” perché si rifiuta di essere mappato, sembra avere una sua intelligenza e inizia a erodere la sua sanità mentale.
Questo è un eco-horror lovecraftiano. Il bosco è il mostro: un’entità cosciente, antica e indifferente. Gli strumenti moderni di Eric – la sua attrezzatura da geometra – rappresentano un’invasione della tecnologia nella natura, e il bosco resiste attivamente. Si rifiuta di essere nominato o compreso. Attraverso un uso magistrale del suono e un’atmosfera psichedelica, la foresta smantella l’ego del protagonista. È un film terrificante sulla natura come “Altro” cosmico, un luogo che ci osserva e ci giudica.
Onibaba (1964)
Nel Giappone del XIV secolo, devastato dalla guerra civile, una donna anziana e sua nuora sopravvivono attirando samurai disertori in un vasto campo di canne di susuki. Li uccidono, gettano i corpi in una fossa e vendono le loro armature. La loro simbiosi mortale è minacciata dall’arrivo di un vicino e dalla gelosia sessuale.
Il “bosco” in Onibaba è un mare claustrofobico di canne. Questo paesaggio non è solido; è in perenne, snervante movimento. Le canne nascondono la fossa, la capanna e gli omicidi, creando un “dramma da camera all’aperto. Le canne sono il perfetto correlativo oggettivo dell’esistenza primordiale delle donne, mosse solo dai due istinti gemelli: la sopravvivenza e la sessualità. Il vento che agita incessantemente le canne è la colonna sonora della loro disperazione. È un capolavoro di horror erotico in cui il paesaggio è, a tutti gli effetti, un complice e una prigione.
Capitolo 3: L’Impulso Primitivo – Sopravvivenza e Scontro con il Selvaggio
Questa sezione è dedicata al survival drama e horror. Qui la foresta è l’avversario fisico e tangibile. È un luogo che spoglia i protagonisti della civiltà, li riduce ai loro bisogni fondamentali e li costringe ad affrontare la loro stessa animalità in una lotta darwiniana per la vita.
Backcountry (2014)
Una coppia di città, Alex e Jenn, va in campeggio nel profondo della natura selvaggia canadese. Alex, per dimostrare la sua mascolinità, rifiuta una mappa e insiste per seguire un sentiero chiuso. Presto si perdono, e la loro disavventura si trasforma in un incubo quando vengono braccati da un orso nero predatore.
Backcountry è una critica feroce alla “crisi della mascolinità”. L’arroganza di Alex e la sua insicurezza sono il vero motore della tragedia. La foresta, splendidamente fotografata, è brutalmente indifferente. Non è un nemico mitologico; è un sistema ecologico reale con conseguenze reali. L’orso non è “malvagio”, sta semplicemente agendo secondo la sua natura. Il film usa la foresta come un palcoscenico per dimostrare come l’ego maschile e il rifiuto di ammettere la propria fragilità siano le debolezze più letali nel confronto con il vero, e non romantico, wilderness.
The Survivalist (2015)
In un futuro prossimo post-collasso, un uomo vive da solo in una capanna, coltivando un piccolo orto nascosto nel profondo della foresta. La sua esistenza precaria e paranoica è sconvolta dall’arrivo di due donne, una madre e una figlia, che cercano cibo e riparo, innescando un teso negoziato per la sopravvivenza.
In questo thriller distopico, il bosco è un Eden faticosamente difeso. È l’unica cosa che si frappone tra la vita e la morte per fame. Il film è un “dramma da camera” austero e teso, quasi privo di dialoghi. La foresta non è un luogo di fuga spirituale, ma un ritorno a uno stato animale. La sopravvivenza ha ridotto l’esistenza a tre soli elementi: la terra (il cibo), la violenza (la difesa) e il sesso (la negoziazione). È un ritratto crudo e spietato di cosa resta dell’umanità quando la società scompare.
Grizzly Man (2005)
Il documentario di Werner Herzog racconta la vita e la morte di Timothy Treadwell, un ambientalista dilettante che ha trascorso tredici estati vivendo disarmato tra gli orsi grizzly in Alaska. Il film utilizza il metraggio girato da Treadwell stesso, prima che lui e la sua ragazza venissero sbranati da uno degli orsi che amava.
Grizzly Man è una disamina filosofica sulla nostra percezione della natura selvaggia. Herzog mette in scena uno scontro tra due visioni del mondo: da un lato, la visione romantica di Treadwell, un “reietto della società” che vede la foresta come un paradiso di “rinascita” e gli orsi come amici; dall’altro, la visione brutale di Herzog, che vede nella natura solo “caos e omicidio. Il wilderness alaskano è il giudice impassibile di questo dibattito, e il destino di Treadwell è la risposta terrificante di Herzog al sentimentalismo umano.
Spoor (2017)
In un isolato villaggio polacco ai confini con la Repubblica Ceca, l’anziana ed eccentrica Janina Duszejko, animalista e astrologa, è sconvolta dalla scomparsa dei suoi cani. Quando i cacciatori più importanti della regione iniziano a essere uccisi in modi misteriosi, lei suggerisce alla polizia che siano stati gli animali del bosco a vendicarsi.
Tratto da un romanzo della premio Nobel Olga Tokarczuk, Spoor è un “thriller forense” che si trasforma in una favola ecologista. La foresta qui è la vittima di un patriarcato brutale e di una cultura della caccia radicata. Il film di Agnieszka Holland personifica la rabbia di “Madre Natura” nel personaggio di Janina. Il bosco diventa un luogo di giustizia mistica, un’opera affascinante che si interroga su dove finisca l’ambientalismo e inizi l’ecoterrorismo, trasformando la foresta in un’entità che, finalmente, risponde al fuoco.
Capitolo 4: L’Eden Rifugiato e Perduto – Fuga dalla Società e Dramma Psicologico
In questo capitolo, il bosco è una scelta deliberata. È un rifugio cercato, una fuga attiva dalla società. Ma questo isolamento volontario, spesso iniziato come un’utopia, diventa un test per i legami umani, una prigione psicologica o la dolorosa manifestazione di un trauma che la civiltà non ha saputo curare.
Leave No Trace (2018)
Will, un veterano affetto da PTSD, vive illegalmente e fuori dalla rete con la figlia tredicenne Tom in un vasto parco forestale pubblico a Portland, Oregon. Quando vengono scoperti, la loro simbiosi perfetta è minacciata dal tentativo della società di reintegrarli, costringendo Tom a scegliere tra il mondo e l’amore per suo padre.
Debra Granik offre un ritratto di una tenerezza e intelligenza strazianti. Il bosco qui è un “rifugio”, un “Eden” necessario per la psiche ferita di Will. È l’unico luogo dove il rumore del mondo si attenua. Ma la tragedia del film, splendidamente articolata, è che il paradiso di un padre è una gabbia per la figlia. La foresta è il luogo del loro amore perfetto, ma è anche il simbolo della loro disconnessione dal mondo. È un dramma indipendente superbo che culmina nella consapevolezza di Tom: “la stessa cosa che non va in te, non è sbagliata in me”.
Dogtooth (2009)
Un marito e una moglie tengono i loro tre figli, ormai adulti, completamente isolati dal mondo esterno all’interno di un compound recintato. I ragazzi vivono secondo un sistema di regole distorte e un vocabolario inventato, credendo che potranno lasciare la casa solo quando cadrà loro un dente canino.
Il capolavoro della “Weird Wave” greca di Yorgos Lanthimos non è ambientato in un bosco selvaggio, ma nel suo surrogato borghese: un giardino recintato. Questo “bosco” curato è una prigione psicologica. La staccionata alta è il confine del mondo conosciuto. L’esterno, il “bosco vero”, è un luogo demonizzato, popolato da “gatti” assassini. Lanthimos usa questo spazio verde e isolato per mettere in scena una terrificante e assurda allegoria del totalitarismo, del controllo patriarcale e dell’isolazionismo politico.
The Loneliest Planet (2011)
Una giovane coppia di fidanzati, Alex e Nica, sta facendo un’escursione con una guida locale sulle maestose montagne del Caucaso, in Georgia. Il loro viaggio idilliaco è interrotto da un singolo, momentaneo gesto – un atto di codardia di Alex di fronte a una minaccia – che cambia irrevocabilmente la loro relazione.
Questo è “slow cinema” al suo massimo potenziale psicologico. Il “bosco” qui è il paesaggio montano del Caucaso, “travolgentemente aperto e spaventosamente chiuso”. La regista Julia Loktev usa la vastità e l’indifferenza della natura selvaggia come una camera d’eco. Non c’è nessun mostro. Il paesaggio mozzafiato diventa una prigione di silenzio, costringendo la coppia a camminare per ore nel fallout emotivo del loro “piccolo incidente”. La natura non li attacca; si limita a guardarli mentre il loro legame si disfa.
It Comes at Night (2017)
Dopo che una malattia altamente contagiosa ha distrutto il mondo, una famiglia si barrica in una casa isolata nel profondo dei boschi. Il loro fragile ordine è minacciato quando un’altra giovane famiglia cerca rifugio, scatenando una spirale di paranoia, sfiducia e violenza.
La mossa geniale di questo film A24 è la sua esca. Non c’è nessun mostro nel bosco. Il “ciò” che arriva di notte non è una creatura, ma la paura, la paranoia, il sospetto. I boschi “profondamente isolati” servono come una pentola a pressione. In assenza di società, la foresta diventa il luogo dove l’unica legge che conta è la protezione del nucleo familiare. È un thriller psicologico teso e terrificante, non sull’orrore che si nasconde tra gli alberi, ma su “ciò di cui saresti capace tu” per proteggere i tuoi.
Capitolo 5: La Zona Oscura – Paesaggi Metafisici e Ferite di Guerra
In questa sezione finale, il bosco trascende il fisico. Diventa uno spazio metafisico, un purgatorio o un paesaggio dell’anima. Questi non sono boschi reali, ma proiezioni della psiche, spesso segnati indelebilmente dal trauma della guerra, dove la natura stessa è una ferita aperta.
Stalker (1979)
Uno “Stalker“, una guida professionale, accetta di portare uno Scrittore e un Professore all’interno della “Zona”: un’area misteriosa, militarizzata e pericolosa, dove si dice esista una “Stanza” in grado di esaudire i desideri più intimi e veri di una persona.
Il capolavoro metafisico di Andrei Tarkovsky presenta la “Zona” come il bosco cinematografico definitivo. È un paesaggio post-industriale che la natura ha reclamato, un “mondo intriso” di verde, acqua e ruggine. La Zona è un’entità viva, un labirinto che non è fisico ma psicologico. Non obbedisce alle leggi della fisica, ma a quelle dell’anima. Il bosco, qui, è un pellegrinaggio filosofico verso il nucleo della fede, del cinismo e del desiderio umano.
Come and See (1985)
Durante l’occupazione nazista della Bielorussia nel 1943, l’adolescente Flyora si unisce entusiasta ai partigiani sovietici. Invece dell’avventura e della gloria, il ragazzo precipita in un incubo febbrile e surreale, testimone di atrocità inimmaginabili che lo invecchieranno prematuramente.
Il film anti-guerra di Elem Klimov è forse il film più devastante mai girato. I “boschi e le paludi” della Bielorussia sono il teatro dell’orrore. Non c’è scampo. Il bosco è il nascondiglio dei partigiani e, allo stesso tempo, il luogo del massacro dei villaggi. Klimov trasforma la foresta in un “incubo della Seconda Guerra Mondiale”, un luogo mitico e infernale. La famosa scena di Flyora che arranca nella “sporca palude” non è sopravvivenza: è una discesa nell’inferno in terra, con il bosco come testimone muto.
You Won’t Be Alone (2022)
In un villaggio macedone del XIX secolo, una ragazza viene rapita e trasformata in una strega muta da uno spirito antico. Curiosa della vita, la nuova strega inizia un’odissea, uccidendo e prendendo la forma di varie persone e animali per capire cosa significhi essere umani.
Un folk horror macedone che inverte le aspettative. Il bosco è il luogo di nascita del “mostro”, lo spazio del soprannaturale. Ma il film non è interessato all’orrore del bosco; è interessato alla curiosità della strega per il villaggio. Il bosco è l’origine, ma l’umanità (con tutto il suo dolore) è la destinazione.
Valhalla Rising (2009)
Un guerriero vichingo muto e monocolo fugge dalla prigionia e si unisce a un gruppo di crociati cristiani. La loro nave, avvolta in una nebbia infinita, approda in una terra sconosciuta – il “Nuovo Mondo” – che loro scambiano per l’Inferno, mentre la loro fede e sanità mentale collassano.
Questo è il “viaggio nel cuore di tenebra” di Nicolas Winding Refn. I boschi del Nord America non sono una terra promessa; sono un vuoto metafisico. I cristiani, la cui fede sta collassando, proiettano i loro terrori su un paesaggio che è semplicemente indifferente. Refn tratta “la natura come l’unica vera divinità”. Il bosco è silenzioso, primordiale e non risponde alle loro preghiere. È questa assenza di Dio, questo silenzio vasto e verde, che li distrugge, trasformando il film in un incubo vichingo esistenziale.
Naked (1993)
Johnny, un vagabondo logorroico, brillante e misogino, fugge da Manchester e intraprende un’odissea notturna nelle strade desolate di una Londra post-Thatcher, scontrandosi con altri disadattati in un vortice di nichilismo, filosofia e disperazione.
Il film conclusivo è un’eresia, una provocazione. Naked è un film ambientato nei boschi in cui il bosco non esiste. O meglio, il bosco è la città. Mike Leigh presenta la Londra notturna non come un apice di civiltà, ma come una giungla urbana, un “paesaggio atomizzato e frammentato”, freddo e ostile. Johnny è il sopravvissuto, il filosofo-animale che si muove in questo wilderness di cemento. Includere Naked serve a dimostrare il punto finale: il “bosco” nel cinema indipendente non è una questione di alberi, ma uno stato mentale. È il luogo ai margini, dove la società fallisce.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
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