Il Western non è mai stato un genere statico; è piuttosto un organismo vivente, un paesaggio mitologico in costante erosione e rifondazione. Se il western classico di John Ford e Howard Hawks celebrava la fondazione della civiltà americana, tracciando una linea netta tra la barbarie e la legge, il Neo-Western e il Revisionismo storico hanno infranto quella linea, rivelando che la barbarie e la legge sono spesso due facce della stessa medaglia. Questa guida definitiva esplora le opere capitali che, dal 1968 a oggi, hanno decostruito, analizzato e infine ricostruito l’epica della frontiera.
In queste pellicole, il “West” cessa di essere un luogo geografico preciso per diventare una condizione esistenziale. Non è più la terra della promessa, ma il teatro del fallimento, della violenza sistemica, della crisi della mascolinità e dell’inevitabile scontro tra l’individuo e le forze schiaccianti del capitale e della modernità. Attraverso un’analisi cronologica che spazia dai classici del revisionismo crepuscolare ai brutali thriller contemporanei ambientati nel “Nuovo West”, esamineremo come film mainstream e film indipendenti abbiano utilizzato il cappello da cowboy e la Colt non per glorificare il passato, ma per interrogare il presente.
Il Grande Silenzio (1968)
Nello Utah del 1898, una tormenta di neve blocca una comunità di fuorilegge e cacciatori di taglie a Snow Hill. Silenzio (Jean-Louis Trintignant), un pistolero muto che uccide i bounty killer provocandoli affinché estraggano per primi, si erge a protezione dei perseguitati e di una vedova afroamericana, Pauline (Vonetta McGee). Si scontrerà con il sadico Tigrero (Klaus Kinski), in un duello dove la legge scritta serve solo a legittimare l’omicidio.
Sergio Corbucci firma con Il Grande Silenzio l’atto di nascita del western revisionista più radicale e politicamente impegnato del filone italiano. Se Leone dilatava il tempo per creare epica, Corbucci congela lo spazio per negare ogni speranza. La scelta di ambientare la vicenda tra le nevi (riprese a Cortina d’Ampezzo per simulare lo Utah) non è solo estetica ma profondamente simbolica: il bianco accecante della neve cancella i confini morali e assorbe il sangue in un contrasto cromatico di violenza inaudita.2 Il film ribalta completamente l’iconografia solare e polverosa del genere.
La figura di Silenzio è un anti-eroe tragico, privato della parola (metafora dell’impossibilità per gli oppressi di narrare la propria storia) e destinato al fallimento. A differenza degli eroi leoniani, astuti e vincenti, Silenzio è una forza della natura che si infrange contro la logica spietata del capitalismo: i cacciatori di taglie uccidono “secondo la legge”, trasformando la giustizia in una transazione economica. Tigrero, interpretato da un Kinski ieratico e terrificante, non è un bandito comune ma un burocrate della morte che sfrutta il sistema legale per perpetrare massacri.
Il Mucchio Selvaggio (The Wild Bunch) (1969)
Texas, 1913. L’era del West sta tramontando sotto i colpi della modernità. Pike Bishop (William Holden) guida una banda di anziani fuorilegge in un ultimo colpo fallito a un ufficio ferroviario. Inseguiti da un ex compagno, Deke Thornton (Robert Ryan), ora al soldo della ferrovia, fuggono in Messico. Lì, stretti tra i rivoluzionari di Pancho Villa e un generale corrotto, cercano un’ultima occasione per affermare la propria identità prima di svanire.
Sam Peckinpah orchestra il funerale del West con una sinfonia di violenza cinetica che ha cambiato per sempre il montaggio cinematografico. Il Mucchio Selvaggio non è semplicemente un film su dei banditi; è un saggio sull’obsolescenza. Ambientato nel 1913, mostra cowboy che guardano con sospetto le automobili e le mitragliatrici, consapevoli di essere dinosauri in un mondo che non ha più bisogno del loro codice d’onore, per quanto distorto esso sia.
L’innovazione stilistica di Peckinpah risiede nell’uso rivoluzionario del ralenti e del montaggio frenetico. La sparatoria iniziale, che coinvolge civili innocenti in una parata di temperanza, demolisce immediatamente l’idea romantica del duello leale: la violenza è caos, colpisce indiscriminatamente donne e bambini, ed è priva di gloria. Tuttavia, Peckinpah infonde ai suoi antieroi una dignità tragica. Pike Bishop e i suoi uomini sono assassini, ma aderiscono a una lealtà tribale (“Quando sei con qualcuno, ci resti fino in fondo”) che la società “civile”, rappresentata dai banchieri e dai funzionari ferroviari, ha perso in favore del profitto.
El Topo (1970)
Un pistolero vestito di nero (Alejandro Jodorowsky) attraversa un deserto onirico con il figlio nudo di sette anni, sfidando quattro maestri pistoleri per dimostrare di essere il migliore. Dopo averli sconfitti con l’inganno e aver perso tutto, “muore” metaforicamente per rinascere anni dopo in una caverna, venerato da una comunità di deformi ed emarginati che cerca di liberare scavando un tunnel verso la luce.
Con El Topo, Alejandro Jodorowsky inventa l’Acid Western, un sottogenere che ibrida la mistica orientale, il surrealismo di Buñuel e la violenza grafica dello spaghetti western in un viaggio allucinogeno senza precedenti. Non siamo più nel West storico o geografico, ma in un paesaggio interiore, un deserto dell’anima dove i simboli religiosi (cristiani, buddisti, pagani) si fondono in un sincretismo blasfemo. Il film fu il capostipite dei midnight movies, proiettato per mesi all’Elgin Theater di New York e sostenuto da figure come John Lennon.
Il film è strutturato come un percorso iniziatico. Nella prima parte, El Topo incarna l’ego maschile tossico e la brama di supremazia tipica del pistolero classico; ogni duello con i maestri del deserto è una lezione filosofica che smaschera la vacuità della vittoria ottenuta con la violenza o l’inganno. La seconda parte ribalta la prospettiva: El Topo diventa un santo umile, un clown sacro che cerca redenzione aiutando gli ultimi.
I Compari (McCabe & Mrs. Miller) (1971)
John McCabe (Warren Beatty), un giocatore d’azzardo spaccone con un passato misterioso, arriva nella remota cittadina mineraria di Presbyterian Church, nel nord-ovest, per aprire un bordello. Trova una socia in Constance Miller (Julie Christie), una madame esperta e dipendente dall’oppio. Il loro successo attira l’attenzione di una grande compagnia mineraria che, di fronte al rifiuto di McCabe di vendere a basso prezzo, invia dei sicari per eliminarlo.
Robert Altman decostruisce il mito della frontiera privandolo di ogni epica solare: qui il West non è sabbia e orizzonti infiniti, ma fango, neve incessante, pioggia e oscurità illuminata da lampade a olio. McCabe & Mrs. Miller è definito un “anti-western” perché sostituisce gli eroi infallibili con imprenditori falliti e sognatori annebbiati dall’oppio. La regia di Altman, con il suo uso innovativo dello zoom e dell’audio sovrapposto (il “dialogo overlapping”), crea un senso di realtà “spiata”, immergendo lo spettatore nella vita quotidiana, confusa e squallida, di una comunità in costruzione.
Il cuore tematico del film è la critica al capitalismo corporativo che schiaccia l’individualismo imprenditoriale, il vero motore del mito americano. McCabe crede di essere un astuto uomo d’affari, ma la sua arroganza e la sua ingenuità lo rendono un piccolo pesce in un oceano di squali industriali; rifiuta l’offerta della compagnia non per principi morali, ma per un malinteso senso di orgoglio, segnando la sua condanna.
Pat Garrett e Billy Kid (Pat Garrett and Billy the Kid) (1973)
Nuovo Messico, 1881. Pat Garrett (James Coburn), ex compagno di scorribande di Billy the Kid (Kris Kristofferson), è diventato sceriffo per conto dei grandi possidenti terrieri. Il suo compito è eliminare il vecchio amico o costringerlo a fuggire in Messico. Mentre Billy vive i suoi ultimi giorni in una sorta di stasi anarchica, Garrett gli dà la caccia, consapevole che uccidendo Billy ucciderà anche una parte di se stesso.
Se Il Mucchio Selvaggio era un urlo di rabbia, Pat Garrett e Billy Kid è un sospiro di rassegnazione ed elegia. Peckinpah torna sul tema dell’amicizia tradita e della fine della libertà, ma con un tono più riflessivo e amaro.16 Il film è una meditazione sulla compromissione necessaria per sopravvivere nel nuovo ordine economico: Garrett ha venduto la sua anima alla “legge” (che qui coincide con gli interessi del capitale), mentre Billy ha scelto di rimanere fedele alla sua natura, accettando implicitamente la morte come prezzo della coerenza.
La presenza di Bob Dylan nel cast (nel ruolo dell’enigmatico Alias) e la sua colonna sonora, che include la celebre Knockin’ on Heaven’s Door, conferiscono al film un’atmosfera sospesa, quasi mistica. La scena della morte dello sceriffo Baker sulle rive del fiume, accompagnata dalle note di Dylan, è uno dei momenti più alti del cinema anni ’70: la violenza si spegne in un momento di pace struggente e dolorosa. La morte finale di Billy non è un duello epico, ma un’esecuzione nel buio, goffa e priva di gloria. Peckinpah ci mostra che non ci sono vincitori: Garrett cavalca via come un uomo morto che cammina, un fantasma in un mondo di recinti.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
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I Cancelli del Cielo (Heaven’s Gate) (1980)
Wyoming, 1890. Durante la guerra della contea di Johnson, un’associazione di ricchi allevatori di bestiame stila una “lista della morte” con i nomi di 125 immigrati europei accusati di furto e anarchia, ottenendo il tacito consenso del governo federale. Lo sceriffo James Averill (Kris Kristofferson), un aristocratico laureato ad Harvard che ha scelto la frontiera, tenta disperatamente di proteggere la comunità e la donna che ama, la madam Ella Watson (Isabelle Huppert), in una guerra di classe brutale.
Opera maledetta per eccellenza, celebre per aver mandato in bancarotta la United Artists, I Cancelli del Cielo di Michael Cimino è stata oggi rivalutata come uno dei capolavori visivi e tematici più importanti del genere. Cimino dipinge il West non come terra di opportunità democratiche, ma come teatro di un genocidio di classe, dove il sogno americano viene soffocato nel sangue dagli interessi economici dei potenti e dalla xenofobia.
La meticolosità ossessiva della ricostruzione storica restituisce una “verità” materica senza precedenti: la polvere, il fumo, il sudore della folla, i dettagli degli interni sono vivi e tangibili. Il film è un’epopea marxista visivamente sontuosa, fotografata divinamente da Vilmos Zsigmond, che utilizza la nebbia e la luce naturale per creare quadri in movimento. La battaglia finale non è un trionfo della giustizia, ma un massacro confuso, polveroso e circolare, che ricorda visivamente le trincee della Prima Guerra Mondiale, sottolineando la disumanizzazione della violenza organizzata. Averill è un eroe impotente, un intellettuale che, nonostante le sue buone intenzioni, non riesce a fermare la macchina della storia. Heaven’s Gate è un requiem maestoso per gli ideali traditi della nazione.
Balla coi Lupi (Dances with Wolves) (1990)
Durante la Guerra Civile, il tenente John Dunbar (Kevin Costner) viene decorato per un atto di eroismo suicida e chiede di essere trasferito alla frontiera, “prima che scompaia”. Assegnato a un avamposto deserto nel territorio dei Sioux, Dunbar inizia lentamente a integrarsi con la tribù locale, imparando la loro lingua e i loro costumi, fino a rinnegare la sua identità di soldato americano per diventare “Balla coi Lupi”.
Kevin Costner rivitalizza il western epico, che sembrava morto dopo il disastro di Heaven’s Gate, con un’opera che inverte la prospettiva classica del genere “indiani e cowboy”. Sebbene accusato talvolta di perpetuare il tropo del “White Savior”, il film è fondamentale per aver dato voce, dignità e complessità culturale ai nativi americani (utilizzando la lingua Lakota con sottotitoli) in un blockbuster mainstream vincitore di 7 Oscar.
Il film è un’elegia ecologista e umanista. La frontiera è vista non come un luogo selvaggio da domare, ma come un paradiso in equilibrio che sta per essere distrutto dall’avidità e dall’espansionismo bianco, rappresentato dall’arrivo brutale dell’esercito nel terzo atto. La regia di Costner è grandiosa, classica nel senso fordiano del termine, ma con una sensibilità moderna verso l’introspezione. La scena della caccia ai bisonti è un capolavoro tecnico che celebra la connessione spirituale tra l’uomo e la natura, in netto contrasto con le scene di macellazione insensata perpetrate dai cacciatori bianchi. Balla coi Lupi segna il momento in cui Hollywood accetta ufficialmente la colpa storica del genocidio nativo.
Gli Spietati (Unforgiven) (1992)
William Munny (Clint Eastwood), un tempo famigerato assassino di donne e bambini, è ora un vedovo che lotta per allevare i figli in una fattoria di maiali in rovina. Spinto dal bisogno di denaro, accetta un ultimo lavoro: uccidere due cowboy che hanno sfregiato una prostituta nella città di Big Whiskey. Insieme al vecchio partner Ned (Morgan Freeman) e al giovane “Schofield Kid”, Munny dovrà affrontare il brutale sceriffo Little Bill Daggett (Gene Hackman) e i demoni del suo passato.
Clint Eastwood firma il testamento definitivo del western classico, decostruendo il proprio mito attoriale pezzo per pezzo. Gli Spietati è un film sulla memoria del male e sull’impossibilità di sfuggire alla propria natura. Non c’è nulla di eroico nell’uccidere: è un atto sporco, difficile, che “porta via tutto ciò che un uomo ha e tutto ciò che avrà mai”, come dice Munny in una delle battute più celebri del cinema.
La grandezza del film risiede nella sua profonda ambiguità morale. Little Bill, pur essendo un sadico che costruisce la sua casa con le proprie mani (metafora di una civiltà imperfetta), rappresenta la legge e l’ordine; la sua brutalità nasce dal desiderio di mantenere la pace nella sua città. Munny, il “protagonista”, è un assassino che torna a uccidere per denaro, non per nobili ideali. Il paesaggio è cupo, piovoso, privo della luce dorata di John Ford. Il finale, in cui Munny massacra l’intera guarnigione nel saloon sotto la pioggia battente, non è un momento di catarsi action, ma una discesa agli inferi: Munny ridiventa la morte incarnata, terrificante e inarrestabile, confermando che la violenza non redime, ma danna eternamente. È la pietra tombale sul concetto di “buon pistolero”.
Dead Man (1995)
William Blake (Johnny Depp), un timido contabile di Cleveland, viaggia verso la cittadina industriale di Machine per un lavoro che scopre non esistere più. Dopo una notte di sesso occasionale finita in tragedia, Blake si ritrova ferito mortalmente al cuore, ricercato per omicidio e in fuga nella foresta. Viene trovato da “Nessuno” (Gary Farmer), un nativo americano colto ed emarginato che crede che il contabile sia la reincarnazione del poeta visionario William Blake e decide di guidarlo nel suo viaggio spirituale verso la morte.
Jim Jarmusch realizza un “Western psichedelico” in bianco e nero che è una meditazione poetica sulla morte e sull’industrializzazione. Dead Man capovolge radicalmente lo stereotipo del nativo americano: Nessuno è il personaggio più intelligente, colto e consapevole del film, mentre i bianchi sono ritratti come barbari, cannibali o burocrati insensati, ossessionati dal possesso e dalla violenza. La civiltà occidentale è rappresentata dalla città di Machine, un luogo infernale di metallo, fumo e ossa, in netto contrasto con la sacralità della natura che Blake attraversa morendo.
La colonna sonora, improvvisata da Neil Young alla chitarra elettrica guardando il film, è il battito cardiaco morente dell’opera, dissonante e ipnotico. Blake passa da vittima passiva a killer spietato (“killer of white men”), non per scelta eroica, ma come parte di un processo di transustanziazione verso il mondo degli spiriti. Il film è pieno di umorismo nero e riferimenti letterari, trasformando il viaggio verso l’Oceano in un rito funebre prolungato. È un’opera unica che usa l’iconografia del western per esplorare la metafisica, rifiutando ogni logica commerciale o di genere.
Stella Solitaria (Lone Star) (1996)
A Rio County, Texas, il ritrovamento di uno scheletro nel deserto, con un distintivo arrugginito e un anello massonico, riapre il caso della misteriosa scomparsa del crudele sceriffo Charlie Wade (Kris Kristofferson), avvenuta quarant’anni prima. L’attuale sceriffo Sam Deeds (Chris Cooper) indaga, scoprendo una rete di segreti che coinvolge suo padre, il leggendario e amato sceriffo Buddy Deeds (Matthew McConaughey), e l’intera storia multiculturale della comunità di confine.
John Sayles dirige un capolavoro di complessità narrativa che usa la struttura del murder mystery per esplorare le frontiere razziali, storiche e personali. Lone Star è un Neo-Western che indaga su come il passato (“la leggenda”) pesi e deformi il presente. Il confine tra Stati Uniti e Messico non è solo una linea geografica, ma una cicatrice viva che attraversa le vite dei personaggi – anglosassoni, messicani, afroamericani – tutti legati da storie di sangue, potere e amore proibito.
Sayles utilizza transizioni visive magistrali (panoramiche che passano dal presente al passato senza stacchi di montaggio) per mostrare che la storia è sempre contemporanea, che i fantasmi camminano ancora tra i vivi. Il film smonta il mito dell’uomo di legge infallibile (Buddy Deeds) per rivelare la corruzione e i compromessi necessari a mantenere la pace sociale in una terra di conflitti etnici. Il finale, che rivela un incesto inconsapevole accettato con pragmatismo dai protagonisti (“Dimentica l’Alamo”), è un rifiuto radicale delle ossessioni puritane e storicistiche. Lone Star suggerisce che per andare avanti e costruire una nuova identità americana, bisogna a volte tagliare i ponti con i miti tossici dei padri.
Le Vie della Violenza (The Way of the Gun) (2000)
Parker (Ryan Phillippe) e Longbaugh (Benicio del Toro), due criminali di mezza tacca privi di scrupoli, rapiscono Robin, una madre surrogata che porta in grembo il figlio di un potente riciclatore di denaro legato alla mafia. Quello che sembrava un colpo facile si trasforma in un bagno di sangue in un bordello messicano, dove i due si scontrano con guardie del corpo veterane e vecchi pistoleri in un assedio tattico.
Christopher McQuarrie, sceneggiatore de I Soliti Sospetti, debutta alla regia con un Neo-Western che omaggia Butch Cassidy in chiave nichilista e tattica. I protagonisti non hanno nome (Parker e Longbaugh sono i cognomi reali di Butch e Sundance), non hanno passato e non hanno redenzione. Sono professionisti della violenza che operano in un vuoto morale assoluto.
Il film è celebre per il suo approccio realistico e “tecnico” alle sparatorie (la gestione dei caricatori, le coperture, il suono assordante), anticipando lo stile di John Wick ma con una pesantezza plumbea tipica del western crepuscolare. La scena finale nel patio messicano è un duello prolungato che spoglia la violenza di ogni glamour hollywoodiano, lasciando solo dolore e fatica. È un film cinico che chiude gli anni ’90 decostruendo l’archetipo del criminale “cool” per mostrarne la natura disperata e patetica.
Le Tre Sepolture (The Three Burials of Melquiades Estrada) (2005)
Quando il vaquero illegale messicano Melquiades Estrada viene ucciso per errore e frettolosamente sepolto dalla polizia di confine del Texas, il suo migliore amico e caporale Pete Perkins (Tommy Lee Jones) decide di farsi giustizia da solo. Rapisce l’assassino, l’agente Mike Norton (Barry Pepper), riesuma il cadavere di Melquiades e costringe Mike a intraprendere un viaggio a cavallo verso il Messico per dare all’amico una degna sepoltura nel suo villaggio natale, “Jimenez”.
Diretto da Tommy Lee Jones su sceneggiatura del romanziere Guillermo Arriaga, questo film è un potente atto di accusa contro la disumanizzazione del confine e un’ode all’amicizia virile che trascende la morte. È un western contemporaneo che recupera la dimensione biblica e dantesca della giustizia. Il viaggio con il cadavere in decomposizione di Melquiades è macabro, grottesco e profondamente commovente, trasformando l’agente Norton da arrogante rappresentante dell’autorità a penitente spezzato che deve letteralmente portare il peso del suo peccato.
Il film inverte la rotta classica della frontiera: non si va verso il West per conquistare il futuro, ma verso il Sud (il Messico) per restituire dignità al passato. Il paesaggio è aspro e indifferente, ma la determinazione etica di Pete lo carica di significato sacro. Jones dirige con uno stile asciutto, evitando facili manicheismi: Pete non cerca vendetta sadica, cerca giustizia nel senso più arcaico e umano del termine, un riequilibrio cosmico che può avvenire solo attraverso la sofferenza condivisa e il riconoscimento dell’umanità dell'”altro”. Un capolavoro di umanesimo ruvido che riecheggia le atmosfere di Faulkner e McCarthy.
La Proposta (The Proposition) (2005)
Nell’entroterra australiano del 1880, il capitano Stanley (Ray Winstone) cattura il fuorilegge Charlie Burns (Guy Pearce) e gli fa una proposta terribile: per salvare il fratello minore Mikey dalla forca, Charlie deve rintracciare e uccidere il fratello maggiore Arthur (Danny Huston), un mostro psicotico rifugiatosi nelle colline selvagge. Charlie ha nove giorni, fino a Natale, per compiere il fratricidio.
Scritto dal musicista Nick Cave e diretto da John Hillcoat, The Proposition è un western australiano (“Meat Pie Western”) che trasuda mosche, sudore, polvere rossa e calore opprimente. Il film esplora il fallimento del progetto civilizzatore britannico in una terra che rifiuta di essere addomesticata. Il Capitano Stanley cerca di imporre l’ordine vittoriano (simboleggiato dal giardino inglese curato dalla moglie nel mezzo del deserto), ma è circondato da una natura ostile e da una brutalità primordiale che contamina tutto.
La sceneggiatura di Cave è lirica e laconica, infondendo ai personaggi una dimensione quasi mitologica. Arthur Burns non è solo un villain, ma una figura mistica che sembra trarre forza dalla terra stessa, un filosofo della violenza che vede l’umanità per ciò che è: bestiale. Il dilemma morale di Charlie non ha soluzione: ogni scelta porta alla morte e alla dannazione. La fotografia bruciata dal sole e la colonna sonora ipnotica creano un’esperienza sensoriale opprimente. È uno dei neo-western più viscerali del nuovo millennio, che sposta la frontiera dal West americano all’Outback, mantenendo intatta la tragedia della colonizzazione.
I Segreti di Brokeback Mountain (Brokeback Mountain) (2005)
Wyoming, 1963. Ennis Del Mar (Heath Ledger) e Jack Twist (Jake Gyllenhaal), due giovani cowboy in cerca di lavoro stagionale, vengono ingaggiati per condurre un gregge di pecore a Brokeback Mountain. Nell’isolamento della montagna, tra i due nasce una passione fisica e sentimentale travolgente. Per i vent’anni successivi, pur sposandosi e conducendo vite apparentemente normali, continueranno a incontrarsi sporadicamente in “viaggi di pesca”, incapaci di vivere insieme in una società omofoba ma impossibilitati a stare lontani.
Ang Lee rivoluziona il genere colpendo al cuore il suo archetipo fondante: la mascolinità stoica. Brokeback Mountain non è un “western gay” nel senso di nicchia, ma una tragedia universale sull’amore represso dalle convenzioni sociali e dalla paura interiorizzata. Il paesaggio del West, solitamente spazio di libertà illimitata, diventa qui una prigione a cielo aperto e, paradossalmente, l’unico rifugio sicuro (la montagna) dove i due possono essere se stessi.
La performance di Heath Ledger è monumentale nel suo minimalismo: Ennis è un uomo imploso, la cui incapacità di articolare i propri sentimenti e la paura della violenza sociale lo condannano all’infelicità perpetua. Il film mostra come l’omofobia e il machismo tossico del contesto rurale non distruggano solo gli individui “diversi”, ma corrodano intere famiglie (le mogli, i figli) attraverso il silenzio e la menzogna. La frase “I wish I knew how to quit you” è diventata iconica perché esprime la disperazione di un amore che non trova spazio nel mondo reale. Un film doloroso e necessario che ha ridefinito l’immaginario del cowboy nel XXI secolo.
L’Assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (2007)
Nel 1881, il giovane Robert Ford (Casey Affleck), ossessionato dalla leggenda del bandito Jesse James (Brad Pitt), riesce a unirsi alla sua banda per l’ultimo colpo al treno di Blue Cut. Man mano che la paranoia di Jesse cresce e la banda si disgrega, l’ammirazione di Bob si trasforma in risentimento, delusione e paura, portandolo infine a compiere il gesto che lo renderà famoso e disprezzato per sempre: sparare alle spalle del suo idolo disarmato.
Andrew Dominik realizza un’opera d’arte visiva che ricorda le vecchie dagherrotipie animate, grazie alla fotografia sfocata, onirica e pittorica di Roger Deakins. Il film è una riflessione profonda sulla celebrità, sul fanatismo e sulla costruzione mediatica del mito. Jesse James è ritratto non come un eroe popolare alla Robin Hood, ma come un uomo profondamente disturbato, imprevedibile e consapevole di essere ingabbiato nella propria leggenda; egli quasi “corteggia” la propria morte, vedendo in Ford lo strumento inevitabile del suo destino.
Casey Affleck offre una prova straordinaria nel ruolo di Ford, un “nessuno” insicuro che cerca di appropriarsi della grandezza altrui attraverso il tradimento, scoprendo poi che l’infamia non è la gloria che sperava. Il film è lento, contemplativo, punteggiato da una voce narrante onnisciente che gli conferisce il tono di una cronaca storica ineluttabile. Non è un film d’azione, ma uno studio psicologico sulla dissoluzione di un’icona e sulla vacuità dell’idolatria. Un capolavoro di atmosfera e malinconia che eleva il western a tragedia shakespeariana.
Non è un paese per vecchi (No Country for Old Men) (2007)
Texas occidentale, 1980. Llewelyn Moss (Josh Brolin), un saldatore e veterano del Vietnam, trova una valigia con due milioni di dollari sul luogo di uno scambio di droga finito in massacro. Decide di tenerla, scatenando la caccia dello psicopatico killer Anton Chigurh (Javier Bardem). Lo sceriffo Ed Tom Bell (Tommy Lee Jones) cerca di intercettare e salvare Moss, ma si trova impotente di fronte a una violenza nuova, casuale e incomprensibile che sembra aver invaso il suo mondo.
I fratelli Coen, adattando fedelmente il romanzo di Cormac McCarthy, firmano il Neo-Western definitivo. Il confine tra il vecchio West (rappresentato dallo sceriffo Bell e dai suoi valori morali) e il nuovo orrore (incarnato da Chigurh) è netto e invalicabile. Chigurh non è un semplice antagonista, ma una forza del destino, un “fantasma” che agisce secondo principi morali alieni e assoluti (il lancio della moneta decide la vita o la morte). Il film spoglia il genere di ogni romanticismo: non ci sono duelli al tramonto o redenzioni finali, solo esecuzioni silenziose e brutali con una bombola ad aria compressa.
L’assenza quasi totale di colonna sonora amplifica la tensione e il realismo arido dei paesaggi texani. Il vero cuore del film è lo sceriffo Bell, un uomo di legge della vecchia scuola che si rende conto di essere “outmatched”, superato dalla storia. La sua decisione finale di ritirarsi non è codardia, ma la lucida presa d’atto che il male ha cambiato forma e non può più essere combattuto con gli strumenti del passato. Il finale onirico lascia lo spettatore con un senso di inquietudine cosmica: il bene non trionfa, sopravvive a stento, ritirandosi nel sogno.
Quel treno per Yuma (3:10 to Yuma) (2007)
Arizona, 1884. Dan Evans (Christian Bale), un ranchero povero, indebitato e mutilato della Guerra Civile, accetta per 200 dollari di scortare il pericoloso bandito Ben Wade (Russell Crowe) fino alla stazione di Contention, dove passerà il treno delle 3:10 per il carcere di Yuma. Durante il pericoloso viaggio, braccati dalla spietata banda di Wade, tra il contadino integro e il fuorilegge carismatico nasce uno strano e profondo rispetto reciproco.
James Mangold rivitalizza il classico del 1957 con un’energia moderna e un approfondimento psicologico dei personaggi. Se l’originale era un thriller psicologico in spazi chiusi, questo remake espande l’azione mantenendo il focus sul conflitto morale. Il film funziona grazie alla chimica esplosiva tra Bale e Crowe: il primo incarna la dignità disperata dell’uomo comune schiacciato dal capitalismo e dalla sfortuna, il secondo è il “cattivo” seducente, una rockstar del crimine che però riconosce in Evans un’integrità morale che a lui manca.
Mangold non decostruisce il mito come i Coen, ma lo riafferma in chiave esistenzialista. Il sacrificio finale di Evans non è solo per i soldi necessari a salvare il ranch, ma per dimostrare a se stesso e al figlio maggiore (che idolatra i banditi) di non essere un fallito, di valere qualcosa come uomo. Wade, a sua volta, compie un atto di grazia inaspettato, collaborando alla propria cattura per permettere a Evans di diventare l’eroe che merita di essere. È un western solido, avvincente e tecnicamente impeccabile, che dimostra che le vecchie storie di onore e sacrificio hanno ancora potenza se raccontate con convinzione.
Il Grinta (True Grit) (2010)
Arkansas, 1878. La quattordicenne Mattie Ross (Hailee Steinfeld), determinata a vendicare la morte del padre, ingaggia lo sceriffo federale Rooster Cogburn (Jeff Bridges), un uomo anziano, alcolizzato e dal grilletto facile. A loro si unisce il Texas Ranger LaBoeuf (Matt Damon). Il trio improbabile si avventura nel pericoloso territorio indiano per dare la caccia all’assassino Tom Chaney.
I fratelli Coen tornano al western con un approccio filologico, adattando il romanzo di Charles Portis molto più fedelmente del film con John Wayne del 1969. Restituiscono al linguaggio la sua arcaica, biblica formalità, creando dialoghi che sono musica per le orecchie. A differenza del classico precedente, qui il focus emotivo è tutto sulla giovane Mattie, un personaggio straordinario per determinazione, intelligenza pragmatica e capacità di negoziazione in un mondo di uomini brutali.
Il film è una parabola sulla retribuzione: la violenza ha sempre un prezzo. Mattie otterrà la sua vendetta, ma pagherà perdendo un braccio e, metaforicamente, la sua innocenza, condannandosi a una vita di solitudine. Jeff Bridges offre un Cogburn borbottante e fallibile, lontano dall’eroismo granitico di Wayne, ma capace di un ultimo, disperato atto di coraggio nella corsa a cavallo finale. La fotografia di Roger Deakins trasforma il paesaggio in un quadro pittorico. Il Grinta dei Coen è un film sulla morte, sul tempo che passa e sulla memoria, pervaso da una solennità e un umorismo nero che lo rendono un classico moderno istantaneo.
Meek’s Cutoff (2010)
Oregon, 1845. Tre famiglie di pionieri seguono la guida Stephen Meek (Bruce Greenwood) attraverso il deserto, cercando una scorciatoia presunta. Il gruppo si perde in un paesaggio arido e ostile, e la fiducia in Meek crolla. La tensione sale quando catturano un nativo americano, che la pioniera Emily Tetherow (Michelle Williams) inizia a vedere come la loro unica speranza di trovare acqua e salvezza, contrapponendosi alla diffidenza razzista e paranoica di Meek.
Kelly Reichardt riscrive la storia della frontiera dal punto di vista femminile, un’angolazione quasi sempre ignorata dal genere classico. Girato in formato 4:3, che limita l’orizzonte visivo e aumenta il senso di claustrofobia e incertezza, Meek’s Cutoff è un “western realista” fatto di attesa, fatica, rumore di ruote e silenzio. Non ci sono sparatorie epiche, solo la minaccia costante della sete e della paura dell’ignoto.
Il film smonta la figura della guida maschile infallibile: Meek è un fanfarone incompetente, simbolo di un patriarcato arrogante che porta alla rovina. Emily emerge come la vera leader pragmatica, capace di riconoscere l’umanità nell'”altro” (il nativo) per pura necessità di sopravvivenza. Il finale aperto, che nega allo spettatore la risoluzione catartica dell’arrivo o della salvezza, lascia sospesa la domanda cruciale del nostro tempo: ci si può fidare di chi non si comprende? Un’opera rigorosa, ipnotica e politica, che spoglia il mito della conquista per mostrarne la fragilità umana.
Django Unchained (2012)
1858. Il cacciatore di taglie tedesco Dr. King Schultz (Christoph Waltz) libera lo schiavo Django (Jamie Foxx) per farsi aiutare a identificare tre criminali. In cambio, Schultz addestra Django all’arte della pistola e lo aiuta a rintracciare e salvare la moglie Broomhilda, venduta come schiava nella piantagione “Candyland” del crudele francofilo Calvin Candie (Leonardo DiCaprio).
Quentin Tarantino irrompe nel genere con un “Southern” che mescola la brutalità stilizzata dello spaghetti western con la denuncia storica della schiavitù americana. Django Unchained è una fantasia di vendetta pop, dove il cinema diventa lo strumento per riscrivere la storia e dare agli oppressi la rivalsa sanguinosa che la realtà ha negato loro. La violenza è iperbolica e fumettistica, ma diventa improvvisamente agghiacciante e realistica quando ritrae le torture subite dagli schiavi (la lotta dei mandingo, la gabbia calda), creando un corto circuito morale nello spettatore.
Tarantino usa il linguaggio del genere (zoom rapidi, colonna sonora anacronistica hip-hop/rock, dialoghi taglienti) per esporre l’orrore del razzismo sistemico. Calvin Candie è un villain terrificante proprio perché la sua mostruosità è coperta da una patina di raffinatezza “civilizzata” e legittimata dalla pseudo-scienza frenologica. Django diventa il primo vero supereroe nero del western, un Sigfrido armato di Colt che attraversa l’inferno del Sud per riprendersi la sua amata. È un film eccessivo, controverso e potente, che costringe a confrontarsi con il peccato originale dell’America mentre intrattiene spudoratamente.
Slow West (2015)
Jay Cavendish (Kodi Smit-McPhee), un ingenuo e sognatore sedicenne scozzese di nobili origini, attraversa l’America del XIX secolo per ritrovare la donna che ama, fuggita col padre dopo un incidente. Viene salvato e scortato da Silas (Michael Fassbender), un cinico cacciatore di taglie che nasconde un segreto: c’è una grossa taglia sulla testa della ragazza e di suo padre, e lui intende incassarla usandola come esca.
Opera prima di John Maclean, Slow West è un western fiabesco, surreale e visivamente stilizzato, che filtra la brutalità della frontiera attraverso uno sguardo europeo e straniante. I colori sono saturi, le inquadrature geometriche e pittoriche; il West appare come un luogo di assurda bellezza naturale contaminata da una violenza insensata e improvvisa. Il film contrappone l’idealismo romantico di Jay, che crede nell’amore come forza salvifica, al pragmatismo darwiniano di Silas, che vede il mondo come preda e predatore.
Nonostante la breve durata, il film è denso di allegorie sulla natura predatoria dell’espansione americana (la distruzione dei nativi, lo sfruttamento delle risorse, l’avidità dei cacciatori di taglie). Il finale, una sparatoria grottesca e tragica in una casa isolata in mezzo al nulla, risolve le tensioni con un’ironia amara: l’amore romantico muore, letteralmente sepolto sotto il sale e la polvere, ma la leggenda sopravvive. Un piccolo gioiello indie che decostruisce il mito con malinconia e wit britannico, offrendo una visione fresca e poetica del genere.
Bone Tomahawk (2015)
Quando un gruppo di trogloditi cannibali rapisce alcuni abitanti della cittadina di Bright Hope, inclusa la moglie di un cowboy ferito, lo sceriffo Hunt (Kurt Russell), il suo anziano vice “di riserva”, un misterioso pistolero dandy e il marito zoppo partono per una missione di salvataggio. Il viaggio li porterà ai confini della civiltà, dove dovranno affrontare un orrore primordiale che sfida ogni logica umana.
S. Craig Zahler firma un ibrido sconvolgente tra western classico e horror cannibalico, che è diventato rapidamente un cult. La prima parte del film è un western “da camera”, scritto con dialoghi brillanti e un’attenzione minuziosa ai caratteri che ricorda Rio Bravo di Howard Hawks. Ma la lenta e faticosa marcia verso la valle dei cannibali costruisce una tensione insostenibile che esplode in un terzo atto di violenza grafica inaudita (la scena della “biforcazione” è una delle più brutali del cinema recente).
Bone Tomahawk non cerca il sensazionalismo fine a se stesso; la brutalità serve a sottolineare la fragilità della carne umana e la disperazione della frontiera. I “cattivi” sono disumanizzati, forze primitive mute contro cui le pistole e la diplomazia servono a poco. Il film è anche una riflessione sull’eroismo stoico: questi uomini sanno che stanno andando incontro a una fine orribile, ma procedono ugualmente per dovere morale e amore. Kurt Russell incarna magnificamente l’autorità stanca ma indomita, in un film che ha ridefinito i limiti della violenza nel genere, mescolando i registri con maestria.
The Hateful Eight (2015)
Wyoming, qualche anno dopo la Guerra Civile. Una diligenza corre attraverso la neve verso Red Rock. A bordo ci sono il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell) e la sua prigioniera Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh). Bloccati da una tormenta, trovano rifugio nell’emporio di Minnie, dove incontrano altri personaggi sospetti: un maggiore nero nordista (Samuel L. Jackson), un rinnegato sudista (Walton Goggins) e altri viaggiatori. La convivenza forzata degenera presto in un gioco al massacro tra menzogne politiche e razziali.
Tarantino trasforma il western in un giallo da camera alla Agatha Christie (“Dieci piccoli indiani”) chiuso in una stanza, girato paradossalmente in Ultra Panavision 70mm per catturare la claustrofobia degli interni e i dettagli dei volti. The Hateful Eight è un film ferocemente politico: l’emporio isolato è un microcosmo dell’America, divisa da odio razziale, risentimento nord/sud e menzogne fondative. Non ci sono eroi; tutti sono “hateful”, odiosi e colpevoli di qualcosa.
Il film esplora la natura della verità e della giustizia in un paese lacerato. La famosa “Lettera di Lincoln” posseduta dal Maggiore Warren è una falsa reliquia, una bugia necessaria per un uomo nero per sopravvivere e ottenere rispetto in un mondo bianco ostile. La violenza è parossistica e grottesca, sfociando nell’horror. In questo teatro della crudeltà, l’unica alleanza possibile (tra il nero unionista e il razzista confederato nel finale) nasce non dalla riconciliazione, ma dalla necessità pragmatica di uccidere qualcun altro e imporre una giustizia sommaria. Un’opera nichilista, verbosa e magistrale sulla impossibilità di sanare le ferite della storia americana.
Hell or High Water (2016)
Toby (Chris Pine), padre divorziato che cerca di garantire un futuro ai figli, e suo fratello Tanner (Ben Foster), ex detenuto impulsivo, compiono una serie di rapine alle filiali della banca che sta per pignorare il ranch di famiglia nel Texas occidentale. Sulle loro tracce si mette Marcus Hamilton (Jeff Bridges), un Texas Ranger vicino alla pensione che vede in questa caccia il suo ultimo grande atto.
Scritto da Taylor Sheridan, Hell or High Water è il perfetto western della Grande Recessione. I banditi non rubano per avidità o malvagità, ma per ripagare la banca con i suoi stessi soldi, in un atto di giustizia poetica e disperata contro il capitalismo predatorio che ha devastato l’America rurale. Il West qui è un luogo di cartelli “Vendesi”, povertà endemica, casinò tristi e disillusione, dove la frontiera economica ha sostituito quella geografica.
Il film eccelle nel bilanciare il thriller con lo studio dei personaggi. Il rapporto tra i due fratelli è toccante, fatto di silenzi, sacrifici e lealtà incondizionata; parallelamente, il rapporto tra il ranger Marcus e il suo collega comanche Alberto esplora il razzismo bonario ma persistente e la storia ciclica della conquista (“Prima era terra nostra, poi vostra, ora della banca”, dice Alberto). La sparatoria finale non è un trionfo, ma una tragedia inevitabile. È un film sobrio, teso e profondamente radicato nella realtà sociale contemporanea, considerato uno dei vertici del Neo-Western.
I Segreti di Wind River (Wind River) (2017)
Cory Lambert (Jeremy Renner), cacciatore di predatori per il dipartimento della pesca e della fauna selvatica, trova il corpo congelato e scalzo di una ragazza nativa americana nella remota riserva di Wind River, in Wyoming. Collabora con la giovane e inesperta agente FBI Jane Banner (Elizabeth Olsen) per trovare i responsabili in una terra dove la legge federale è impotente, le statistiche sulle donne native scomparse non esistono e il silenzio della neve copre ogni crimine.
Conclusione della “trilogia della frontiera americana” di Taylor Sheridan (dopo Sicario e Hell or High Water), Wind River è un neo-western “artico” che denuncia con forza la condizione delle donne native americane, vittime di una violenza sistemica e invisibile. Il paesaggio non è solo sfondo, ma antagonista mortale: il freddo uccide chi non è preparato (“i polmoni esplodono se corri a quella temperatura”).
Lambert è un eroe tragico che convive con il lutto della propria figlia, un uomo che ha imparato ad accettare il dolore come parte integrante della vita. La sua caccia non è solo investigativa, ma esistenziale. Il film esplode in una scena di “stallo alla messicana” di una tensione insostenibile, ma è nei momenti di quiete che colpisce più duro, mostrando una comunità abbandonata dallo Stato e devastata da droga e mancanza di opportunità. Il finale, che evita la prigione per il colpevole a favore di una giustizia “naturale” e crudele lasciata agli elementi, ribadisce che nella frontiera moderna vigono ancora le leggi antiche della sopravvivenza e del taglione.
The Rider – Il Sogno di un Cowboy (The Rider) (2017)
Brady Blackburn (Brady Jandreau), una giovane stella nascente del rodeo e addestratore di cavalli della comunità Lakota, subisce un grave trauma cranico dopo essere stato disarcionato, che gli lascia una placca di metallo in testa e il divieto medico assoluto di cavalcare. Tornato nella riserva di Pine Ridge, deve ridefinire la sua identità e il suo senso di mascolinità in un mondo che non offre alternative culturali o economiche al cavalcare, lottando contro il desiderio fisico e spirituale di tornare in sella a rischio della vita.
Chloé Zhao dirige un capolavoro di docu-fiction o “western verité”, utilizzando attori non professionisti che interpretano versioni leggermente romanzate di se stessi e delle proprie vite reali. The Rider è un western intimo e struggente che demistifica l’immagine del cowboy indistruttibile. Brady non è un eroe di carta, ma un giovane uomo spezzato nel corpo, che ama i cavalli con una tenerezza quasi materna e mistica (le scene di addestramento sono reali e ipnotiche).
Il film esplora la crisi della mascolinità nell’Heartland americano: cosa resta a un uomo quando gli viene tolto l’unico scopo che la società e la tradizione gli riconoscono? La fotografia naturalistica cattura la bellezza malinconica delle badlands del South Dakota, contrapponendola alla povertà materiale della vita nella riserva. Non ci sono antagonisti classici, solo la fragilità umana, il tempo che passa e il peso dei sogni infranti. È un film di silenzi, sguardi e cicatrici, un canto d’amore per una cultura che sta svanendo ma che resiste con ostinazione dolorosa.
La Ballata di Buster Scruggs (The Ballad of Buster Scruggs) (2018)
Un’antologia di sei storie diverse ambientate nel Vecchio West, che spaziano dalla commedia musicale ultra-violenta (“The Ballad of Buster Scruggs”) al dramma cupo sulla sopravvivenza (“The Gal Who Got Rattled”), fino all’allegoria metafisica sulla morte (“The Mortal Remains”). Attraverso stili e toni differenti, i fratelli Coen esplorano i miti fondativi della frontiera americana.
Con questo film a episodi, i Coen compongono un trattato definitivo sulla mortalità nel West. Ogni segmento smonta un tropo diverso del genere: il pistolero cantante, il rapinatore di banche, l’impresario teatrale itinerante, il cercatore d’oro, la carovana dei pionieri, la diligenza. Il filo conduttore che unisce queste narrazioni disparate è la morte, che arriva sempre improvvisa, spesso assurda, grottesca e priva di un significato superiore.
Il primo episodio è ingannevolmente leggero, presentando la violenza come un cartone animato Looney Tunes, ma il tono si scurisce progressivamente. Il segmento “Meal Ticket”, con un attore privo di arti che recita poesie sostituito da una gallina calcolatrice, è una delle critiche più ciniche e amare mai fatte alla mercificazione dell’arte e alla crudeltà del pubblico. L’episodio finale trasforma la diligenza, simbolo del viaggio e del progresso nel western classico (si pensi a Ombre Rosse), in un traghetto spettrale verso l’aldilà, chiudendo il cerchio con un senso di ineluttabilità gotica. I Coen ci ricordano che le storie del West sono, in fondo, storie di cadaveri su cui è stata costruita una nazione.
I Fratelli Sisters (The Sisters Brothers) (2018)
Oregon, 1851. Eli (John C. Reilly) e Charlie Sisters (Joaquin Phoenix) sono due fratelli sicari famigerati, incaricati dal “Commodoro” di uccidere un cercatore d’oro, Hermann Warm (Riz Ahmed), che ha inventato una formula chimica per trovare l’oro. Sulle tracce di Warm c’è anche il detective idealista John Morris (Jake Gyllenhaal). L’inseguimento si trasforma in un’alleanza utopica destinata a scontrarsi con la brutalità dell’avidità umana.
Il regista francese Jacques Audiard affronta il western con uno sguardo europeo, sensibile e umanista, adattando il romanzo di Patrick deWitt. The Sisters Brothers è un film atipico che decostruisce la figura del killer implacabile: Eli e Charlie sono assassini, sì, ma sono anche bambini cresciuti troppo in fretta, che bisticciano, si curano a vicenda e sognano una vita normale (simboleggiata dall’uso innovativo dello spazzolino da denti, oggetto di meraviglia tecnologica).
Il film critica il mito della corsa all’oro e del capitalismo estrattivo: la formula chimica di Warm, che dovrebbe portare ricchezza facile, finisce per avvelenare letteralmente le acque e gli uomini, una potente metafora ecologica. Visivamente splendido, con paesaggi che spaziano dalle foreste all’oceano, il film evita il cinismo tipico del revisionismo per abbracciare una malinconia dolce. Il finale, che vede i fratelli tornare a casa dalla madre, è una sovversione totale dell’eroismo western: la vera vittoria non è conquistare la frontiera, ma sopravvivere ad essa e ritrovare il calore domestico.
Bacurau (2019)
In un futuro prossimo, il piccolo villaggio brasiliano di Bacurau, nel Sertão, scompare misteriosamente dalle mappe satellitari e perde la connessione internet. Dopo la morte della matriarca Carmelita, la comunità scopre di essere assediata da un gruppo di turisti americani e europei armati fino ai denti, che hanno pagato per cacciare e uccidere gli abitanti come in un safari umano, con la complicità di politici locali corrotti. Ma i locali nascondono una storia di resistenza che gli invasori hanno fatalmente sottovalutato.
Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles firmano un “Weird Western” tropicale che è una potente allegoria politica del colonialismo, della resistenza e delle disuguaglianze nord-sud del mondo. Bacurau mescola generi (sci-fi, horror, western, realismo magico) per raccontare la lotta di una comunità emarginata contro l’imperialismo straniero. Il villaggio non è una vittima passiva, ma un organismo collettivo che reagisce con ferocia, astuzia e solidarietà, utilizzando sia la tecnologia moderna che le tradizioni antiche (il museo storico diventa letteralmente un arsenale, e un psicotropico locale fornisce coraggio).
Il film ribalta la prospettiva classica del genere: qui i “selvaggi” sanguinari sono gli occidentali tecnocratici, privi di empatia e cultura, mentre la comunità rurale, queer e multirazziale è portatrice di umanità e dignità. La violenza è grafica e catartica, un atto di autodifesa necessario contro chi vuole cancellare non solo le vite, ma la memoria stessa di un popolo. Visivamente sbalorditivo e narrativamente imprevedibile, Bacurau dimostra come il linguaggio del western possa essere appropriato e risignificato per narrare le tensioni geopolitiche del XXI secolo, diventando un manifesto di resistenza culturale.
First Cow (2019)
Territorio dell’Oregon, 1820. Otis “Cookie” Figowitz (John Magaro), un cuoco silenzioso e solitario in viaggio con un gruppo di rozzi cacciatori, incontra King-Lu (Orion Lee), un immigrato cinese in fuga dagli inseguitori. Tra i due si instaura un legame improbabile e immediato. Quando la prima mucca (First Cow) arriva nel territorio, di proprietà del ricco Capo Fattore (Toby Jones), i due si imbarcano in un’impresa clandestina: rubare latte di notte per preparare e vendere biscotti irresistibilmente deliziosi e dolci.
Seconda apparizione di Kelly Reichardt in questa classifica, First Cow è un capolavoro di revisionismo gentile e anticapitalista. È forse il western più silenzioso mai realizzato, una sottile meditazione sulla fragilità dell’amicizia e sulla brutale nascita dell’economia americana. Il film sostiene che, prima che la terra venisse occupata, il primo atto di colonizzazione fu il furto, simboleggiato dal latte rubato alla preziosa mucca, la prima proprietà privata della regione.
Il rapporto centrale tra Cookie e King-Lu è profondamente tenero, e mette in primo piano il legame emotivo e la collaborazione tra uomini emarginati piuttosto che l’eroismo solitario del tipico cowboy. Sognano un futuro collettivo a San Francisco, ma il loro semplice modello imprenditoriale comunitario è destinato a fallire in un mondo ossessionato dall’individualismo selvaggio e dalla ricchezza immediata (la mentalità della “corsa all’oro”). Il film recupera il Western come una storia di piccoli, umani atti di resistenza. Il suo ritmo è volutamente lento, costringendo lo spettatore ad apprezzare la consistenza dell’ambiente e la semplice e profonda dignità degli uomini che cercano di sopravvivere senza ricorrere alla violenza.
The Power of the Dog (2021)
Montana, 1925. I fratelli Phil (Benedict Cumberbatch) e George Burbank (Jesse Plemons) gestiscono un ricco ranch di famiglia. Quando il gentile George sposa la vedova Rose (Kirsten Dunst), il carismatico ma crudele Phil inizia una guerra psicologica incessante contro di lei e il suo effeminato figlio Peter (Kodi Smit-McPhee). Tuttavia, l’intento di Phil di corrompere o distruggere il ragazzo si trasforma in qualcosa di più ambiguo quando decide di prenderlo sotto la sua ala, portando a un epilogo scioccante.
Jane Campion torna al cinema dopo anni con un’opera magistrale che disseziona la mascolinità tossica nel West come mai fatto prima. Phil Burbank è uno dei villain più complessi del genere: un cowboy iper-mascolino che nasconde una profonda repressione omosessuale e un’istruzione classica raffinata, compensando la sua vulnerabilità con la crudeltà, la sporcizia ostentata e il bullismo. Il paesaggio del Montana non è spazio di libertà, ma di isolamento nevrotico e tensione sessuale repressa.
Il film è strutturato come un thriller psicologico travestito da western. La tensione non nasce dalle pistole, ma dagli sguardi, dai non detti, dal suono di una corda intrecciata o di un banjo suonato con aggressività. Peter, apparentemente debole e inadatto alla vita di frontiera, si rivela l’unico in grado di “leggere” Phil e di manipolarlo, ribaltando i ruoli di predatore e preda con una freddezza chirurgica. Il Potere del Cane è una riflessione sottile sulla violenza interiorizzata e su come i miti del West (incarnati dal mentore invisibile Bronco Henry) possano diventare prigioni mortali per chi cerca disperatamente di emularli.
Old Henry (2021)
Henry (Tim Blake Nelson), un contadino vedovo e taciturno che vive con il figlio adolescente in un angolo remoto del territorio dell’Oklahoma nel 1906, accoglie un uomo ferito con una borsa piena di soldi. Quando un gruppo di uomini che si spacciano per sceriffi arriva a cercarlo, Henry deve decidere di chi fidarsi. L’assedio alla sua fattoria costringerà Henry a riprendere in mano le armi, rivelando che non è il semplice agricoltore che sembra, ma una leggenda del passato che la storia credeva morta.
Potsy Ponciroli dirige un western da camera, piccolo e teso, che lavora magnificamente sul concetto di “identità nascosta” e sulla demitizzazione della celebrità fuorilegge. Old Henry sembra inizialmente un film classico, sobrio e misurato, ma nasconde un cuore revisionista. Tim Blake Nelson, con il suo volto segnato e la voce roca, offre una performance straordinaria, incarnando la stanchezza fisica e morale di una vita spesa nella violenza e il desiderio impossibile di proteggere il figlio dalla stessa sorte.
Il film gioca abilmente con la mitologia storica del West (la vera identità di Henry è un colpo di scena che riscrive la biografia di uno dei più famosi banditi americani, Billy the Kid), chiedendosi se la redenzione sia possibile per chi ha le mani sporche di sangue. La sparatoria finale è coreografata con un realismo tattico e una brutalità secca che ricorda Gli Spietati, priva di ogni glamour. Old Henry è la dimostrazione che il genere western può ancora emozionare lavorando sugli archetipi fondamentali: il padre, il figlio, la pistola sepolta e il peso schiacciante del passato che ritorna.
Killers of the Flower Moon (2023)
Oklahoma, anni ’20. La nazione Osage è diventata il popolo più ricco del mondo pro capite grazie al petrolio scoperto nelle loro terre. Improvvisamente, i membri della tribù iniziano a essere assassinati misteriosamente o a morire di malattie sospette. Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio), tornato dalla guerra, viene manipolato dal potente zio William Hale (Robert De Niro) per sposare l’ereditiera Osage Mollie (Lily Gladstone) e complottare per eliminare sistematicamente la sua famiglia e ereditarne i diritti petroliferi, in una cospirazione che attirerà l’attenzione della nascente FBI.
Martin Scorsese firma un’epopea criminale fluviale che è anche un western tragico sulla nascita sanguinaria del capitalismo americano moderno. Killers of the Flower Moon sposta l’attenzione dai cowboy agli imprenditori corrotti e ai banchieri che usano la legge, la tutela legale e il matrimonio interrazziale come armi di sterminio di massa. Non è un “whodunit” (il film ci mostra subito chi sono i colpevoli), ma un’indagine sul “chi lo permetterà”: il film denuncia la complicità di un intero sistema bianco nel genocidio silenzioso degli Osage.
La grandezza del film sta nel mostrare la banalità del male e la dissonanza cognitiva: Ernest ama davvero Mollie a modo suo, eppure la sta lentamente avvelenando, incapace di sottrarsi all’avidità e all’influenza manipolatrice dello zio Hale (che si fa chiamare “Re delle colline Osage”). Lily Gladstone è il cuore morale del film, una presenza dignitosa, intelligente e sofferente che osserva il suo mondo crollare tradita dalle persone più care. Scorsese rifiuta il trionfalismo dell’FBI (che arriva tardi e risolve solo parzialmente il caso) per concentrarsi sul tradimento intimo e sistemico. È un film monumentale che chiude il cerchio aperto dai western classici, mostrando il vero costo della “civilizzazione”: lo sterminio, il furto legalizzato e la cancellazione della memoria.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
In questo video ti spiego la nostra visione

