Il 2023 sarà ricordato come l’anno di “Barbenheimer”. Il fenomeno culturale che ha unito Barbie e Oppenheimer ha riacceso il dibattito sulla vitalità della sala e ha dimostrato la potenza dello spettacolo d’autore. Questi blockbuster hanno dominato meritatamente la conversazione globale, segnando un punto di svolta per l’industria.
Ma oltre a questo, il 2023 è stato anche un anno di profonda introspezione. Si è assistito a un movimento più silenzioso, un ripiegamento del cinema su se stesso per esplorare con urgenza il paesaggio interiore dell’individuo. Opere come Anatomy of a Fall o May December hanno messo in discussione l’atto stesso del narrare, utilizzando la struttura del dramma giudiziario e del metacinema per interrogare la possibilità di una verità oggettiva in un mondo saturato di performance.
Questa tendenza verso l’intimità non ha significato una fuga dal mondo, ma un modo diverso di interpretarlo. La critica sociale si è fatta più sottile, annidata nelle pieghe di storie personali, come la precarietà del lavoro in Fallen Leaves. Questa guida è un viaggio attraverso l’intero spettro dell’annata. È un percorso che unisce i grandi capolavori che hanno definito il 2023 alle più coraggiose opere indipendenti, scommettendo tutto sulla potenza di sceneggiature originali per affermare che l’universo più vasto da esplorare, a volte, è quello contenuto in una singola vita umana.
Past Lives
Nora e Hae Sung, due amici d’infanzia profondamente legati, vengono separati quando la famiglia di Nora emigra dalla Corea del Sud. Vent’anni dopo, si ritrovano a New York per una settimana fatidica, confrontandosi con nozioni di destino, amore e le scelte che definiscono una vita. Il loro legame irrisolto mette alla prova la realtà presente di Nora, sposata con uno scrittore americano, in un triangolo emotivo di rara maturità e delicatezza.
L’opera prima di Celine Song è un miracolo di grazia e misura, un debutto che possiede la saggezza e la compostezza di un autore maturo. Past Lives si è imposto fin dalla sua presentazione al Sundance come una delle voci nuove più significative dell’anno, grazie a una sceneggiatura semi-autobiografica che trasforma un’esperienza personale in un racconto universale sulla natura del tempo e dei legami. Il film esplora magistralmente la dualità dell’esperienza migrante: Nora non è solo divisa tra due continenti, ma tra due versioni di sé, quella che è e quella che sarebbe potuta essere. Questa scissione è simboleggiata dai due uomini della sua vita, Hae Sung, l’incarnazione del suo passato coreano, e Arthur, il suo presente americano. La lingua stessa diventa un confine, un territorio dell’anima, come cristallizzato nella struggente ammissione di Arthur: “Tu sogni in una lingua che non capisco”.
Il concetto coreano di “In-Yun” — la provvidenza o il destino che lega le persone attraverso le loro vite passate — funge da motore filosofico del film. Tuttavia, Song lo utilizza non per costruire un facile racconto romantico, ma per decostruirlo. Past Lives rifiuta la struttura convenzionale del triangolo amoroso per indagare qualcosa di più profondo: l’accettazione dei bivi della vita e la dolorosa bellezza della chiusura. L’impatto emotivo del film risiede proprio in questa rinuncia al melodramma, affidandosi a una regia audace nella sua quiete, fatta di lunghi silenzi, inquadrature che sottolineano la distanza e la vicinanza, e la scelta di girare in pellicola 35mm, che conferisce a ogni immagine una qualità tattile e nostalgica.
All of Us Strangers
Adam, uno sceneggiatore solitario che vive in un condominio quasi deserto a Londra, incontra casualmente il suo misterioso vicino, Harry, un evento che spezza la monotonia della sua vita. Mentre tra loro nasce una relazione, Adam è ossessionato dai ricordi del passato e si ritrova attratto dalla sua città natale, dove i suoi genitori, morti trent’anni prima, sembrano vivere ancora, immutati nel tempo.
All of Us Strangers di Andrew Haigh è una ghost story in cui i fantasmi non sono entità minacciose, ma incarnazioni di un lutto mai elaborato. Il film si immerge in un’atmosfera onirica e malinconica, confondendo magistralmente i confini tra la realtà esteriore e il paesaggio interiore del suo protagonista. La regia di Haigh trasforma il dolore in un’esperienza spaziale: Adam è intrappolato nel suo lutto come nel suo appartamento quasi vuoto, un’isola di solitudine sospesa sulla metropoli londinese. Le visite soprannaturali ai genitori non sono un espediente narrativo, ma una potente metafora della necessità di riconciliarsi con il passato per poter vivere il presente.
Il film è anche una profonda esplorazione di un trauma generazionale queer specifico. Crescere da omosessuale negli anni ’80 e ’90, all’ombra della crisi dell’AIDS e del silenzio che la circondava, ha significato per molti un’esperienza di isolamento e paura. Le conversazioni che Adam ha con i suoi genitori, cristallizzati nel tempo, diventano una forma di riconciliazione impossibile, un dialogo che sana ferite antiche attraverso il tempo. Il linguaggio cinematografico della solitudine è reso con una precisione lancinante: le inquadrature di Adam isolato contro lo skyline, il suo riflesso sovrapposto alle luci della città, creano un senso di alienazione tangibile, in netto contrasto con il calore nostalgico e quasi doloroso della sua casa d’infanzia.
A Thousand and One
Appena uscita di prigione, l’indomita Inez rapisce suo figlio di sei anni, Terry, dal sistema di affidamento. Aggrappati al loro segreto e l’uno all’altra, madre e figlio cercano di reclamare un senso di casa, identità e stabilità in una New York in rapida e brutale trasformazione. Attraverso gli anni, la loro lotta per la sopravvivenza si scontra con le forze della gentrificazione e della violenza sistemica.
Vincitore del Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival, l’opera prima di A.V. Rockwell è un esordio folgorante, un “intimate epic” che intreccia con sicurezza un profondo studio del personaggio con una radicale critica sociale. New York non è un semplice sfondo, ma una forza antagonista che modella e minaccia la vita dei protagonisti. Rockwell utilizza brillantemente materiali d’archivio, come i discorsi dei sindaci Giuliani e Bloomberg, per scandire il passare del tempo e l’implementazione di politiche che hanno progressivamente eroso il tessuto sociale di quartieri come Harlem. La gentrificazione e la politica dello “Stop and Frisk” non sono concetti astratti, ma ostacoli concreti che Inez e Terry devono superare quotidianamente.
Al centro di tutto c’è la performance monumentale di Teyana Taylor, che incarna Inez con una forza, una vulnerabilità e una tenacia indimenticabili. Il suo personaggio è un’ode alla maternità Nera, una figura che sfida ogni stereotipo per proteggere suo figlio. Il film decostruisce l’idea convenzionale di famiglia, sostenendo che i legami non sono definiti dal sangue ma dall’amore, dal sacrificio e da una feroce volontà di protezione. A Thousand and One è una pellicola potente che, attraverso la storia di una famiglia, racconta la storia di una città e di una nazione, e lo fa con un impatto emotivo devastante.
Anatomy of a Fall
Sandra, una scrittrice tedesca, vive in uno chalet isolato sulle Alpi francesi con il marito Samuel e il figlio ipovedente Daniel. Quando Samuel viene trovato morto ai piedi della loro casa, la polizia inizia a sospettare di Sandra. Quello che segue è un processo che non si limita a indagare le circostanze della morte, ma diventa una spietata dissezione psicologica della tumultuosa relazione della coppia.
Palma d’Oro al Festival di Cannes, Anatomy of a Fall di Justine Triet sovverte magistralmente il genere del dramma giudiziario. Il tribunale non è un luogo dove si accerta la verità, ma un’arena dove si costruisce la narrazione più convincente. Il film non è interessato a risolvere il mistero della morte di Samuel, ma a esplorare l’impossibilità di conoscere veramente un’altra persona e la natura soggettiva di ogni “verità”. Il processo diventa una performance, in cui la storia personale, i tradimenti, le frustrazioni e persino la produzione letteraria di Sandra vengono usati come armi per costruire un’immagine di colpevolezza o innocenza.
La performance di Sandra Hüller è un capolavoro di ambiguità. Il suo personaggio rimane un enigma, costringendo lo spettatore a vestire i panni della giuria, a giudicare e riconsiderare costantemente le proprie impressioni basate su prove frammentarie e testimonianze di parte. Il film esplora con acutezza come l’identità, in questo caso la bisessualità di Sandra, possa essere distorta e trasformata in un’arma narrativa. La verità rimane sempre fuori campo, inafferrabile, suggerendo che in ogni relazione esiste un nucleo di opacità che nessuna autopsia, legale o emotiva, potrà mai illuminare completamente.
May December
Vent’anni dopo che la loro scandalosa storia d’amore da tabloid ha sconvolto la nazione, Gracie e suo marito Joe, di ventitré anni più giovane, conducono una vita apparentemente perfetta. La loro stabilità viene minacciata dall’arrivo di Elizabeth, un’attrice famosa che deve interpretare Gracie in un film e che si insinua nelle loro vite per studiare il personaggio, riaprendo ferite mai del tutto guarite.
Todd Haynes, maestro del melodramma contemporaneo, torna ai suoi temi prediletti con May December, un’opera stratificata, ironica e profondamente inquietante. Il film è una continuazione e, al tempo stesso, un’evoluzione della sua esplorazione dell’estetica di Douglas Sirk. Haynes utilizza la partitura di Michel Legrand per The Go-Between (Messaggero d’amore) per creare un’atmosfera di artificio camp e perturbante, sottolineando la natura performativa delle vite dei suoi personaggi. La superficie patinata nasconde un abisso di traumi irrisolti e verità negate.
Al di là del dramma psicologico, May December è una potente riflessione metacinematografica sull’etica della narrazione e sulla natura predatoria dell’industria dell’intrattenimento. La “ricerca” di Elizabeth è un’invasione che demolisce la fragile realtà che Gracie e Joe hanno costruito per sopravvivere. Il vero cuore emotivo del film, tuttavia, risiede nella straordinaria interpretazione di Charles Melton. Il suo Joe è un uomo-bambino, un adulto il cui sviluppo emotivo si è arrestato all’età del trauma. Il suo lento e doloroso risveglio alla consapevolezza di essere stato una vittima, e non un amante consenziente, è ciò che eleva il film da un’acuta satira a una tragedia devastante.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
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The Zone of Interest
Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz, e sua moglie Hedwig, si sforzano di costruire una vita da sogno per la loro famiglia in una casa con giardino idilliaca, situata proprio accanto al muro del campo di concentramento. La loro routine borghese, fatta di feste in piscina, giardinaggio e piccoli drammi domestici, prosegue indisturbata, separata dall’orrore indicibile solo da un sottile strato di cemento e indifferenza.
Con The Zone of Interest, Jonathan Glazer compie un atto di regia radicale e necessario, sfidando le convenzioni del cinema sulla Shoah. L’orrore non è mai mostrato, ma è costantemente presente, un rumore di fondo ineludibile. Il sound design di Johnnie Burn è il vero protagonista del film: le urla, gli spari, il ronzio incessante dei forni crematori si insinuano nella quiete apparente della vita familiare, creando una dissonanza cognitiva insopportabile per lo spettatore. È un’opera formalista che utilizza il fuoricampo per costringerci a confrontarci non con la violenza stessa, ma con i meccanismi psicologici della complicità e della rimozione.
La regia di Glazer adotta un’estetica da sorveglianza, utilizzando telecamere fisse e nascoste che osservano i personaggi con una freddezza clinica, quasi scientifica. Questo stile, che lo stesso regista ha definito “Big Brother nella casa nazista”, impedisce qualsiasi forma di identificazione e rafforza l’analisi forense del male. The Zone of Interest non cerca di spiegare l’inspiegabile, ma di mostrare la terrificante normalità con cui l’essere umano può abituarsi all’atrocità, costruendo un giardino fiorito sul baratro dell’inferno. È un’esperienza cinematografica che lascia un segno profondo, un monito sulla banalità del male e sulla nostra capacità di compartimentalizzare e ignorare.
The Holdovers
Un professore di storia antica scontroso e universalmente detestato, uno studente brillante ma problematico e una cuoca afroamericana in lutto per il figlio morto in Vietnam. Sono i “superstiti” (the holdovers), costretti a trascorrere le vacanze di Natale del 1970 insieme, nel campus deserto di un prestigioso collegio del New England. L’improbabile trio dovrà superare le reciproche diffidenze per trovare un inaspettato conforto.
Alexander Payne firma con The Holdovers un’opera che è un omaggio sentito e filologicamente perfetto al cinema americano degli anni ’70, in particolare a quello di Hal Ashby. Non si tratta di una semplice ricostruzione estetica; il film respira l’aria di quell’epoca, adottandone la fotografia sgranata, i ritmi compassati e, soprattutto, la profonda umanità nel raccontare personaggi imperfetti e marginali. La regia di Payne, supportata da una sceneggiatura impeccabile, crea un’atmosfera nostalgica e agrodolce, un microcosmo in cui tre anime solitarie trovano un’imprevista “famiglia d’elezione”.
Il film è un trionfo di scrittura e interpretazione. Paul Giamatti offre una delle sue migliori performance, donando al professor Hunham una complessità che va oltre la caricatura del misantropo. Il debuttante Dominic Sessa è una rivelazione, mentre Da’Vine Joy Randolph, premiata con l’Oscar, offre un ritratto del lutto di una dignità e di una potenza strazianti. Sotto la superficie della commedia malinconica, The Holdovers esplora temi come il risentimento di classe, il peso dei fallimenti passati e la difficoltà di trovare il proprio posto nel mondo, confermandosi un classico istantaneo, una pellicola capace di scaldare il cuore senza mai cadere nel sentimentalismo.
Fallen Leaves
Ansa lavora in un supermercato, Holappa è un operaio metalmeccanico. Entrambi sono soli, a Helsinki, e le loro vite sono segnate dalla precarietà e da una silenziosa malinconia. Un incontro casuale in un bar karaoke sembra offrire una possibilità di connessione, ma il loro timido tentativo di romanza è ostacolato dall’alcolismo di lui, da un numero di telefono perso e da una serie di sfortunati eventi.
Aki Kaurismäki torna con un’opera che è la quintessenza del suo cinema: un racconto minimalista, pervaso da un umorismo laconico e da una profonda, disarmante tenerezza. Fallen Leaves è una commedia romantica per l’era della precarietà, in cui i protagonisti non lottano contro grandi destini, ma contro le piccole e grandi miserie del quotidiano: contratti a zero ore, capi ingiusti e una solitudine che sembra endemica. Lo stile del regista finlandese è inconfondibile: dialoghi ridotti all’osso, una messa in scena rétro che sembra sospesa nel tempo e una colonna sonora che spazia da vecchie canzoni finlandesi al rock’n’roll.
Sotto la superficie impassibile, il film nasconde una sottile ma tenace critica al capitalismo contemporaneo. La lotta di Ansa e Holappa per un lavoro dignitoso e una vita stabile è il riflesso di una condizione lavorativa sempre più frammentata. Le costanti notizie radiofoniche sulla guerra in Ucraina, inoltre, ancorano questa piccola storia personale a un contesto di instabilità globale. Eppure, Fallen Leaves è un film intrinsecamente ottimista. È un inno al coraggio necessario per innamorarsi in età adulta, un’affermazione della possibilità di trovare calore e connessione anche nel più freddo e indifferente dei mondi.
Showing Up
Lizzy è una scultrice che lavora come amministrativa in una scuola d’arte a Portland. A pochi giorni dall’inaugurazione di una sua mostra personale, la sua concentrazione è costantemente minacciata dalle piccole frustrazioni della vita quotidiana: il boiler dell’acqua calda che non funziona, la sua padrona di casa e collega artista più affermata di lei, una famiglia disfunzionale e un piccione ferito di cui si ritrova a doversi prendere cura.
Con Showing Up, Kelly Reichardt prosegue la sua esplorazione minimalista delle vite ordinarie, offrendo un ritratto incredibilmente realistico e delicatamente umoristico del processo creativo. Il film rappresenta una sottile evoluzione nel suo stile, introducendo una vena di commedia più calda rispetto alle sue opere precedenti, pur mantenendo il suo rigore formale e la sua attenzione per i dettagli. La creazione artistica non è rappresentata come un momento di folgorazione, ma come un lavoro quotidiano, una lotta costante per ritagliarsi uno spazio mentale e fisico in mezzo al caos della vita.
. La relazione passivo-aggressiva tra Lizzy (una straordinaria Michelle Williams) e la sua amica-rivale Jo (Hong Chau) è il cuore pulsante del racconto. Il piccione ferito, passato di mano in mano, diventa una potente metafora della cura e della responsabilità in un mondo di individui concentrati su se stessi. Showing Up è un’opera paziente e profonda, un’ode alla perseveranza e all’atto, semplice ma fondamentale, di “esserci” (showing up) per la propria arte e per gli altri.
Poor Things
Bella Baxter è una giovane donna riportata in vita dal brillante e poco ortodosso scienziato Dr. Godwin Baxter. Sotto la sua protezione, Bella è desiderosa di imparare. Affamata della mondanità che le manca, fugge con Duncan Wedderburn, un avvocato scaltro e dissoluto, in una vorticosa avventura attraverso i continenti. Libera dai pregiudizi del suo tempo, Bella cresce salda nel suo proposito di difendere l’uguaglianza e la liberazione.
Yorgos Lanthimos scatena la sua immaginazione più sfrenata in Poor Things, un’opera barocca, esilarante e visivamente sbalorditiva che si pone in netto contrasto con il minimalismo di molti film indipendenti dell’anno. Attingendo a piene mani dal surrealismo, dall’espressionismo tedesco e dall’estetica steampunk, il regista greco crea un universo visivo unico, un’Europa vittoriana fantastica e grottesca che funge da palcoscenico per una radicale favola femminista. Il film è una sorta di Frankenstein al contrario, dove la “creatura” non è un mostro da temere ma un’eroina da celebrare.
Il viaggio di Bella è un picaresco tour de force di auto-scoperta e liberazione sessuale. Senza filtri sociali o morali, sperimenta il mondo con una curiosità famelica, mettendo a nudo l’assurdità delle convenzioni patriarcali. La performance di Emma Stone è semplicemente monumentale: fisica, coraggiosa e comicamente geniale, incarna perfettamente l’evoluzione di Bella da creatura ingenua a donna padrona del proprio destino. Poor Things è un’esperienza cinematografica travolgente, un inno alla libertà e alla gioia della scoperta, tanto intelligente quanto visivamente sontuoso.
Fremont
Donya, una giovane rifugiata afghana che lavorava come traduttrice per l’esercito americano, vive ora una vita solitaria a Fremont, in California. Lavora in una fabbrica di biscotti della fortuna e soffre di insonnia, tormentata dal senso di colpa del sopravvissuto. In un momento di impulso, decide di inserire un messaggio personale e criptico in uno dei biscotti, un gesto che mette in moto una serie di incontri inaspettati.
Con una sensibilità che ricorda il cinema di Jim Jarmusch, il regista Babak Jalali realizza con Fremont un piccolo, prezioso gioiello di cinema indipendente. Girato in un bianco e nero elegante e malinconico, il film è una commedia laconica e tenera che trova umorismo e poesia nella monotonia del quotidiano. La regia di Jalali è misurata, il suo sguardo sui personaggi è pieno di empatia e privo di ogni sentimentalismo.
Il film affronta l’esperienza dei rifugiati da una prospettiva insolita, concentrandosi non tanto sul trauma esplicito, quanto sulla solitudine e sulla difficile ricerca di un nuovo senso di appartenenza. La performance della protagonista, l’attrice non professionista Anaita Wali Zada (lei stessa rifugiata afghana), è di una potenza straordinaria. La sua presenza stoica e il suo umorismo sottile comunicano un intero mondo di emozioni represse. Vincitore del John Cassavetes Award agli Spirit Awards, Fremont è la celebrazione della resilienza silenziosa e della speranza che può nascere dai gesti più piccoli.
Rotting in the Sun
Il regista Sebastián Silva, in preda a una profonda crisi creativa e esistenziale, si ritira in una spiaggia gay nudista a Città del Messico. Lì, dopo un incontro quasi fatale con le onde, conosce l’influencer di social media Jordan Firstman. Nonostante l’iniziale antipatia, Silva accetta di collaborare a un progetto con lui. Ma quando Jordan arriva all’appartamento di Sebastián per iniziare a lavorare, scopre che il regista è scomparso nel nulla.
Rotting in the Sun è un’opera audace, provocatoria e selvaggiamente divertente. Sebastián Silva dirige e interpreta una versione auto-parodistica di se stesso in questo film che inizia come una satira caustica sulla cultura degli influencer, sul narcisismo e sulle pretese del mondo dell’arte, per poi trasformarsi inaspettatamente in un thriller nero e contorto. La struttura del film è il suo colpo di genio: la prima parte, con il suo umorismo cringe e la sua esplicita rappresentazione della sessualità, mette alla prova lo spettatore, per poi ribaltare completamente le aspettative nella seconda.
Il film è una riflessione metacinematografica sull’atto del creare e sulla linea sottile che separa l’autenticità dalla performance. Utilizzando se stesso e Jordan Firstman come personaggi, Silva gioca con la percezione del pubblico e critica ferocemente le dinamiche di classe e potere. È un’opera scomoda, a tratti respingente, ma dotata di una visione unica e di un coraggio che rappresentano l’essenza più pura e intransigente del cinema indipendente. Un capolavoro nascosto destinato a diventare un cult.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
In questo video ti spiego la nostra visione

