Emanuele Di Nicola ha incontrato per Indiecinema il regista del documentario La Zona, apprezzato nella seconda edizione del festival
Il Concorso Documentari della seconda edizione di Indiecinema Film Festival è stato foriero di svariate scoperte cinefile. Alcune di queste hanno trovato spazio, finora, solo nella parte online dell’autarchica kermesse cinematografica. Per quanto si sia approdati adesso alla terza edizione del festival, si approfitterà della prima occasione per riproporle anche in sala.
Intanto, di uno dei documentari più interessanti selezionati tra il 2022 e il 2023, ovvero La Zona, abbiamo voluto incontrare l’autore, Paolo Maggi.
La nascita del documentario
Il tuo film La Zona, realizzato nell’ottobre 2017 e concluso nel 2021, è stato selezionato all’Indiecinema Film Festival nel 2022. Si tratta di un documentario di 42 minuti che entra nel Centro Civico Gorki, da poco intitolato alla memoria del partigiano William Michelini, a Bologna, nel quartiere Navile. Quindici artisti ridipingono le mura del centro, insomma lo riportano alla vita. Come è nata l’idea di seguire questo momento e realizzarne un documentario?
Il film è nato spontaneamente, mentre stavamo girando quello che all’inizio doveva essere un semplice reportage. Settembre 2017. Mi telefona Etta Polico, presidente di Serendippo, chiedendomi di realizzare, come videomaker, un reportage per l’evento che ci sarebbe stato a ottobre nella periferia bolognese di Corticella, quartiere Navile, all’interno del progetto R.U.S.Co (Recupero Urbano Spazi Comuni), interamente finanziato dal basso tramite crowdfunding, che avrebbe dato nuova vita al Centro Civico Michelini, creando Zona NG (acronimo di Navile-Gorki), un vero e proprio museo a cielo aperto. Per quanto riguardava me e la mia collaboratrice Iulia Stanescu, il lavoro doveva concludersi in quella prima settimana, mentre il progetto si sarebbe poi spostato nel centro di Bologna dove tre artisti, Athena, Anneo e Awer, avrebbero dipinto un grande muro in via Majorana lasciato negli anni al degrado. Decidiamo di seguirli in centro, giusto per fare qualche ripresa prima di tornarcene a Roma. Subito però succede qualcosa di inaspettato che ci convince a restare. Durante questa seconda settimana di riprese ci rendiamo conto che quello che stavamo girando non era più (o forse mai stato) un reportage, ma un vero e proprio film, con tanto di repentini colpi di scena da tenerci continuamente col fiato sospeso a chiederci “come finirà?”
Nel film si incrociano gli attivisti, uomini e donne, ma anche anziani e bambini, ossia gli abitanti della zona. È anche un confronto generazionale tra i ragazzi e le persone più mature. Come hai ottenuto la loro fiducia per portarli davanti all’obiettivo?
Gli anziani e i bambini si divertono davanti all’obiettivo donandoci momenti sinceri e poetici. Se poi stai facendo un documentario su di loro, sul loro quartiere, sulle loro speranze, il gioco è fatto. Stanno diventando personaggi di un film, c’è una certa magia dietro a tutto questo. Con gli artisti è stato un po’ più complicato. Loro sono portati a vedere nell’uomo dietro alla macchina da presa un cacciatore spietato e insensibile di notizie, anzi di storie. È naturale, tanti di loro fanno anche cose illegali e si trovano spesso a dover combattere con giornalisti feroci, e la posta in gioco è molto alta. Sicuramente io e Iulia cercavamo i conflitti, le contraddizioni, ma il punto di vista che ci interessava era il loro. Stavamo dalla loro parte. E l’unico modo che avevamo per farlo sentire nella pellicola era condividere con loro più cose possibile. Dormivamo insieme per terra negli spazi messici a disposizione dall’associazione Sokos, piuttosto che accettare il gentilissimo invito a casa di alcuni residenti del quartiere; mangiavamo insieme, sognavamo insieme. E’ stata un’immersione totale, e nonostante questo penso che non abbiamo mai goduto della loro piena fiducia.
Recuperi urbani
La Zona è il racconto di un recupero. C’è una particolare idea di urbanità solidale, che serpeggia in tutto il film. C’è una grande partecipazione cittadina che vuole rimettere in moto questo spazio. Insomma, i luoghi vanno vissuti e non si possono abbandonare a se stessi. Sei d’accordo, qual è la tua idea di città?
La città è qualcosa che ci appartiene, e così come ci prendiamo cura del nostro giardino, del nostro salotto, della nostra auto, così dovremmo dimostrare amore anche verso il luogo dove abitiamo. E questo sentimento, che purtroppo nelle grandi città si è un po’ perso, a Corticella ancora l’ho respirato. C’è il signore che taglia la siepe condominiale. Nessuno gliel’ha chiesto, lo fa perché vuole vivere in un posto bello. Penso che se tutti facessimo così, il mondo sarebbe un meraviglioso giardino.
C’è poi il tema dell’arte come strumento di recupero. Hai ripreso molte immagini degli artisti che creano le loro opere nel centro. A volte si dice che le scritte imbrattano i muri delle nostre città, un approccio sbagliato e repressivo che non considera l’aspetto artistico. Cosa ne pensi?
Bisogna sicuramente distinguere ciò che sporca da ciò che abbellisce. Un muro è come una pagina vuota, e come tale può invitare anche a scritte xenofobe o ad altre volgarità. Non ci rendiamo conto che un murale può essere un buon deterrente per un eventuale imbrattatore che passa da quelle parti.
Il Gorki è anche un fulcro di attivismo. Importante rivederlo ora, quando gli attivisti dei centri si impegnano in nuove mobilitazioni, come quella a favore del popolo palestinese. Eppure in troppi ancora pensano che i centri sociali “sono quelli dove ti fai le canne”. Secondo te qual è l’importanza degli attivisti oggi?
Gli attivisti sono il fulcro della nostra società. E parlo dei collettivi indipendenti. Non ho mai avuto fiducia nelle istituzioni o nei partiti e sono sempre stato convinto che la vera politica, quella pura, antagonista e senza tornaconti, si faccia dal basso. È un po’ come il dovere civico che abbiamo nei confronti della cura del nostro quartiere. Viviamo in questo mondo e dobbiamo combattere, ognuno nella propria misura, per renderlo un posto migliore in cui vivere.
Lo stile del film e i tempi di lavorazione
Il tuo è un documentario classico. Tante voci, molte immagini si assemblano per comporre una storia, o meglio un momento, la rinascita di questo spazio. Qual è il tuo approccio al documentario, chi sono i punti di riferimento?
Se posso essere sincero non sono mai stato un grande appassionato di documentari e, a parte quelli ai festival o particolarmente importanti, non ne ho mai visti troppi. Faccio video reportage di lavoro e mi diverto a fare cortometraggi di finzione. Forse si sente che non sono un documentarista, spero ne abbia giovato la spontaneità. Così come spontaneamente il reportage è diventato un film e noi ne siamo diventati personaggi.
Com’è stata la lavorazione, quanto ci avete messo a girarlo e poi a montarlo?
Le riprese sono durate circa due settimane, la prima a Corticella e la seconda nel centro di Bologna. È il montaggio ad aver sofferto un po’. I soldi del crowdfunding erano finiti e non era rimasto niente per la postproduzione. Portavo avanti l’editing districandomi fra i tanti impegni e progetti a cui dovevo lavorare. Mi è venuto in aiuto il lockdown regalandomi molto tempo libero nel quale mi sono, appunto, chiuso fino a raggiungere la versione del film definitiva. Il caso ha poi voluto che i fatti giudiziari, conseguenza delle vicende di Bologna, si risolvessero proprio in quel periodo, accompagnando così la chiusura del nostro lavoro.
Cinema indipendente in Italia
In generale, quali sono le difficoltà che avete incontrato nel fare cinema indipendente in Italia oggi? E quali le soddisfazioni?
La mancanza di denaro è sicuramente un bel limite. Dev’essere sostituita da grande passione, determinazione e desiderio di arrivare in fondo combattendo contro i tanti ostacoli che di volta in volta ci creiamo. Ma le soddisfazioni sono innumerevoli. Intanto la realizzazione in sé, lasciarsi guidare dal film stesso, dagli eventi, e vederlo nascere praticamente sotto le proprie mani e i propri occhi. Nessuno c’ha imposto quello che dovevamo fare o come farlo, per cui il film poteva prendere qualsiasi piega e diventare quello che voleva. E noi gliel’abbiamo lasciato fare. Un vantaggio sicuramente che il cinema indipendente può vantare. E poi l’emozione che mi ha regalato durante le varie proiezioni, la partecipazione degli spettatori, le risate, il tifo per gli “eroi”, l’incredulità verso i “cattivi”. Impagabile.
Passando invece alla distribuzione, il film che giro ha fatto? So che è stato proiettato più volte a Bologna, naturalmente, quali sono le prospettive?
A Bologna è stato proiettato in anteprima nel settembre 2021, proprio nella piazzetta di Corticella dove tutto cominciò, di fronte ai “protagonisti” del film. E poi nell’estate successiva in Piazza Lucio Dalla, ospiti di DiMondi Festival. Per entrambe le serate, procurateci da Etta Polico, abbiamo percepito dei soldi che hanno coperto, almeno in parte, le spese di postproduzione e della distribuzione, sempre per la filosofia di Etta che “l’arte è bella e va pagata”. Infine ha fatto un lungo giro di festival, tornando a Bologna in vetrina a Visioni Italiane, passando come finalista in vari concorsi fra Veneto, Toscana, Puglia e Sicilia, e vincendo la menzione speciale nella sezione documentari al Latina Independent Film Festival. Adesso mi piacerebbe proiettarlo ancora all’interno di qualche serata di cinema indipendente, giusto per dargli un ultimo saluto sul grande schermo. Ma credo sia anche arrivato il momento che lo veda più gente possibile, magari dandolo in mano a qualche piattaforma streaming.
Ti posso chiedere dei tuoi progetti futuri?
Sto lavorando a un nuovo docufilm insieme a un amico. E ho pronte altre due idee su cui lavorare. Sempre documentari, ormai mi sono appassionato. E poi vorrei tornare alla finzione. Sto cercando i soldi per un cortometraggio che ho scritto. È un progetto più ambizioso dei miei precedenti, e senza fondi non è possibile farlo. Quindi forza e coraggio, altre sfide ci chiamano!
Emanuele Di Nicola