Il cinema di suspense non è un genere; è una filosofia. È l’arte di manipolare il tempo, di evocare ansia e di ritardare l’inevitabile. L’immaginario collettivo è segnato dai grandi maestri, da Alfred Hitchcock a David Fincher, che hanno trasformato la tensione in un’epopea visiva. Questi capolavori hanno definito le regole del gioco, creando un linguaggio universale della paura e dell’anticipazione.
Ma oltre alla tensione narrativa, esiste una suspense più profonda, che non si basa sull’azione, ma sull’atmosfera. È un’indagine sull’animo umano, sull’ignoto che si annida non in mostri esterni, ma nelle crepe della nostra stessa psiche. È qui che la mancanza di effetti speciali costosi viene compensata da una sceneggiatura di ferro, dalla profondità dei personaggi e da un uso magistrale della luce, del suono e del montaggio.
Questa “estetica della scarsità” genera un’autenticità più viscerale. Questa guida è un viaggio attraverso l’intero spettro. È un percorso che unisce i grandi capolavori del genere alle più innovative opere indipendenti. Sono film che non si limitano a raccontare, ma mettono in discussione, disorientano e lasciano un segno indelebile, dimostrando che la vera suspense non è ciò che si mostra, ma ciò che si suggerisce.
Parte I: Labirinti della Mente – Thriller Psicologici Concettuali
Questa sezione è dedicata a film che concepiscono la narrazione come una scatola a enigmi. Sono opere che armano la struttura, l’ambiguità e la percezione inaffidabile per creare una forma di suspense intellettuale. Richiedono una visione attiva, trasformando lo spettatore da osservatore passivo a detective che tenta di ricomporre una realtà frammentata.
Memento
Leonard Shelby è un investigatore assicurativo la cui vita è sconvolta dall’omicidio di sua moglie. A causa di un trauma cranico subito durante l’aggressione, soffre di amnesia anterograda, che gli impedisce di creare nuovi ricordi. Per rintracciare l’assassino, si affida a un sistema di polaroid, appunti e tatuaggi, cercando di ricostruire un puzzle la cui immagine svanisce ogni pochi minuti.
Memento non è un film sulla perdita di memoria; è l’esperienza cinematografica della perdita di memoria. Christopher Nolan, con un budget modesto ma un’idea geniale, non si limita a raccontare la condizione del suo protagonista, ma la impone allo spettatore attraverso una struttura narrativa rivoluzionaria. Le sequenze a colori, che procedono a ritroso, ci gettano nello stesso stato di confusione di Leonard: ogni scena inizia senza il contesto di ciò che l’ha preceduta. La suspense non nasce dalla domanda “cosa succederà dopo?”, ma da un’angosciante e continua interrogazione: “perché è successo quello che abbiamo appena visto?”. Le sequenze in bianco e nero, che avanzano cronologicamente, forniscono un’ancora, un apparente percorso lineare verso la verità. Quando i due flussi temporali convergono nel finale, la rivelazione non offre una catarsi, ma una vertigine esistenziale. Ci rendiamo conto che la memoria non è un archivio affidabile, ma una narrazione che costruiamo per sopravvivere. È un capolavoro di suspense psicologica che dimostra come la più grande innovazione possa nascere non da un budget illimitato, ma dalla perfetta fusione di forma e contenuto.
Donnie Darko
Donnie Darko è un adolescente problematico che una notte viene svegliato da una voce misteriosa. Segue la voce e incontra Frank, una figura inquietante in un costume da coniglio, che gli annuncia la fine del mondo in 28 giorni. Mentre è fuori, un motore di aereo si schianta nella sua camera da letto. Salvato da questo evento surreale, Donnie inizia a navigare tra visioni apocalittiche, viaggi nel tempo e le ansie tipiche dell’adolescenza.
Il cinema indipendente è l’unico luogo dove un’opera così audacemente inclassificabile come Donnie Darko avrebbe potuto nascere. Richard Kelly fonde il dramma adolescenziale, la fantascienza filosofica e il thriller psicologico in un amalgama unico, che sfida ogni etichetta. La suspense del film non deriva da una minaccia convenzionale, ma dalla sua profonda e persistente ambiguità. Donnie è uno schizofrenico paranoico o un “Ricevitore Vivente” incaricato di salvare un universo tangente dalla distruzione? Il film si rifiuta di dare una risposta definitiva, e proprio in questa incertezza risiede la sua forza. La narrazione ci immerge in un’atmosfera onirica, quasi lynchiana, dove la logica del mondo reale si sfalda. L’inquietudine nasce dalla sensazione che le forze in gioco siano cosmiche e incomprensibili, e che il destino di un singolo individuo sia legato a quello dell’intero universo. È un film di culto proprio perché la sua suspense non si esaurisce con la visione, ma continua a risuonare nella mente dello spettatore, invitandolo a rimettere insieme i pezzi di un puzzle esistenziale senza una soluzione univoca.
Mulholland Drive
Una donna dai capelli scuri sopravvive a un incidente d’auto su Mulholland Drive, ma perde la memoria. Si rifugia in un appartamento di Hollywood, dove viene scoperta da Betty Elms, un’aspirante attrice piena di speranze. Insieme, le due donne cercano di svelare l’identità della misteriosa “Rita”, avventurandosi in un mondo di sogni, segreti e pericoli che si nasconde dietro la facciata scintillante della Città degli Angeli.
David Lynch, l’autore per eccellenza, utilizza la suspense non come un meccanismo di trama, ma come uno stato d’animo, un’atmosfera pervasiva che impregna ogni fotogramma. Mulholland Drive è un labirinto narrativo che funziona secondo la logica del sogno, dove la tensione non nasce dalla paura di ciò che potrebbe accadere, ma dalla sensazione che la realtà stessa sia instabile e sul punto di collassare. La prima parte del film è un’illusione, il sogno idealizzato di Diane Selwyn, un’attrice fallita, che si reinventa come la talentuosa e innocente Betty. In questo sogno, trasforma la donna che ama e che l’ha respinta, Camilla, nella vulnerabile e dipendente Rita. La suspense è un velo sottile che copre un abisso di dolore, gelosia e fallimento. Lynch ci guida attraverso questo paesaggio onirico con simboli ricorrenti – una chiave blu, una scatola misteriosa – che agiscono come ancore in un mare di surrealismo. Il passaggio brutale dal sogno alla squallida realtà nell’ultimo terzo del film è il vero colpo di scena: la suspense accumulata si scarica non in un’esplosione di violenza, ma in un’implosione emotiva. È un film che va “sentito” prima che capito, un’esperienza che dimostra come la suspense più profonda sia quella che nasce dal mistero dell’identità stessa.
Pi
Max Cohen è un genio della matematica solitario e paranoico, convinto che tutto in natura possa essere compreso attraverso i numeri. Utilizzando un supercomputer autocostruito nel suo appartamento di Chinatown, cerca di decifrare i pattern del mercato azionario. La sua ricerca lo porta a scoprire un misterioso numero di 216 cifre, che attira l’attenzione sia di una potente società di Wall Street sia di una setta di ebrei cabalisti.
Il debutto di Darren Aronofsky è un assalto sensoriale, un thriller psicologico a micro-budget che trasforma la paranoia in un’estetica. Girato con un budget irrisorio su una pellicola in bianco e nero ad alto contrasto, Pi non è solo una scelta stilistica, ma la rappresentazione visiva della mente fratturata e ossessiva del suo protagonista. Il mondo di Max è binario: ordine e caos, bianco e nero, razionalità e follia. La fotografia granulosa e sovraesposta ci immerge nella sua prospettiva claustrofobica, mentre la colonna sonora elettronica di Clint Mansell, unita a suoni diegetici come trapani e gocciolamenti, diventa la trasposizione sonora delle sue lancinanti emicranie. La suspense non è legata a un antagonista fisico, ma alla discesa di Max nella spirale della sua stessa ossessione. La ricerca di un ordine universale diventa una maledizione, e lo spettatore è trascinato in questa ricerca febbrile, costretto a chiedersi dove finisca il genio e dove inizi la pazzia. È la dimostrazione che il cinema indipendente può creare un’esperienza totalizzante e terrificante con mezzi minimi, affidandosi unicamente alla forza di una visione autoriale radicale.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
In questo video ti spiego la nostra visione
Primer
Due giovani ingegneri, Aaron e Abe, lavorano a progetti tecnologici nel loro garage. Durante un esperimento volto a ridurre il peso degli oggetti, scoprono accidentalmente un effetto collaterale inaspettato: una macchina del tempo. Inizialmente la usano per ottenere piccoli guadagni in borsa, ma presto la loro scoperta li trascina in un vortice di paradossi, duplicati e paranoia, mettendo a dura prova la loro amicizia e la loro stessa percezione della realtà.
Primer è forse l’esempio più estremo di suspense intellettuale, un film che rifiuta categoricamente ogni compromesso con lo spettatore. Realizzato con un budget di soli 7.000 dollari, il film di Shane Carruth è un’opera ermetica che si affida a un dialogo denso di gergo tecnico e a una trama incredibilmente complessa. La suspense non nasce dalla paura di una minaccia esterna, ma dal terrore intellettuale di non riuscire a comprendere le implicazioni di ciò che sta accadendo. Carruth ci pone nella stessa posizione dei suoi protagonisti: siamo testimoni di una scoperta rivoluzionaria, ma siamo altrettanto incapaci di controllarne le conseguenze. L’estetica minimalista del film – la macchina del tempo è una semplice scatola grigia, le location sono anonimi garage e depositi – ancora l’idea fantascientifica a una realtà prosaica, rendendola ancora più inquietante. La vera tensione del film è la disintegrazione della fiducia tra Aaron e Abe. La possibilità di alterare il passato distrugge la loro relazione, creando un labirinto di doppi giochi e versioni multiple di se stessi. Primer è un’esperienza che richiede più visioni, un puzzle che dimostra come la suspense più efficace possa derivare non dalla chiarezza, ma da una profonda e deliberata confusione.
Babycall

Thriller, horror, di Pål Sletaune, Svezia, 2011.
Anna e suo figlio di 8 anni Anders fuggono da un tragico passato famigliare: il padre del bambino è un uomo violento e pericoloso. Si trasferiscono in una casa segreta e Anna compra un babycall per tenere sotto controllo Anders mentre dorme. Una notte Anna si sveglia di soprassalto: dalla camera di Anders provengono dei rumori, sembra stia avvenendo un omicidio. Ma quando la madre va dal bambino sembra non sia accaduto nulla. Anders però ha un problema: di notte riceve la visita di un misterioso bambino. Un giorno in un disegno di Anders trova del sangue. Anna inizia ad avere davvero paura.
Noomi Rapace interpreta con bravura un personaggio inquieto e ossessionato del controllo. Una donna che non sorride mai, ombrosa, che cerca di salvare il suo fragile equilibrio mentale. Storia d'amore, maternità e violenza, tra grigi esterni cittadini e interni claustrofobici, Babycall è un thriller-horror ambizioso che racconta la violenza domestica come un racconto del terrore, in cui allucinazioni e realtà si confondono. Bella la fotografia molto contrastata che supporta i momenti di tensione.
LINGUA: italiano
Coherence
Durante una cena tra amici, il passaggio di una cometa provoca un blackout. Quando la corrente va via, il gruppo nota che solo una casa in fondo alla strada è ancora illuminata. Alcuni di loro decidono di andare a chiedere aiuto, ma tornano con una scatola contenente delle loro stesse foto, scattate quella sera. Presto si rendono conto che la cometa ha fratturato la realtà, creando un’infinità di universi paralleli e case identiche.
Coherence è un miracolo di cinema a basso budget, una dimostrazione lampante di come una singola location e un’idea brillante possano generare una suspense mozzafiato. Girato quasi interamente nell’abitazione del regista James Ward Byrkit con una sceneggiatura in gran parte improvvisata, il film trae la sua forza dalla sua stessa metodologia produttiva. La tensione non è solo scritta, è vissuta: gli attori, a cui venivano date solo le motivazioni dei loro personaggi giorno per giorno, trasmettono una confusione e una paranoia autentiche. La premessa, basata sul paradosso del gatto di Schrödinger e sulla decoerenza quantistica, trasforma una normale cena in un incubo esistenziale. La suspense cresce in modo esponenziale man mano che i personaggi – e lo spettatore – perdono ogni punto di riferimento. Chi è il “vero” amico e chi è un doppio proveniente da un’altra realtà? La casa, simbolo di sicurezza, diventa una prigione di specchi deformanti, dove ogni decisione può catapultare i personaggi in una versione leggermente diversa e più pericolosa della loro vita. È un thriller psicologico che gioca con le nostre paure più profonde: la perdita di identità e la fragilità delle relazioni umane.
Following
Un giovane scrittore disoccupato, in cerca di ispirazione, inizia a seguire persone a caso per le strade di Londra. Si impone delle regole rigide per non farsi scoprire, ma presto le infrange, attirando l’attenzione di uno degli uomini che pedina. Quest’ultimo si rivela essere Cobb, un ladro carismatico che lo introduce nel mondo dei furti con scasso. Lo scrittore viene così trascinato in un pericoloso gioco di manipolazione e inganni.
Prima di Memento e Inception, Christopher Nolan ha gettato le basi del suo cinema labirintico con questo esordio a budget zero. Following è un neo-noir scarno ed essenziale che già contiene tutto il DNA del suo autore: la fascinazione per le strutture narrative complesse, l’ossessione per l’identità e l’inganno. Girato in 16mm in bianco e nero, il film trasforma i suoi limiti produttivi in punti di forza stilistici. La sua struttura non lineare, che salta tra tre diversi momenti della vita del protagonista, non è un vezzo stilistico, ma una necessità narrativa. Permette a Nolan di costruire il mistero e la suspense pezzo per pezzo, rivelando le informazioni in modo frammentario e costringendo lo spettatore a mettere in discussione tutto ciò che vede. La tensione nasce dalla progressiva perdita di controllo del protagonista, un voyeur che da osservatore diventa pedina in un gioco molto più grande di lui. È un’opera prima che dimostra come una visione autoriale forte possa plasmare un thriller avvincente anche con i mezzi più scarni, gettando le basi per una delle carriere più significative del cinema contemporaneo.
Oldboy
Oh Dae-su, un uomo comune, viene rapito e imprigionato in una stanza d’albergo per quindici anni, senza alcuna spiegazione. Durante la sua prigionia, apprende dalla televisione di essere stato incastrato per l’omicidio di sua moglie. Rilasciato improvvisamente, gli vengono dati un cellulare, dei soldi e abiti nuovi. Inizia così una violenta e disperata ricerca di vendetta per scoprire l’identità del suo carceriere e il motivo della sua tortura.
Capolavoro del cinema sudcoreano e capitolo centrale della “trilogia della vendetta” di Park Chan-wook, Oldboy è una discesa brutale negli abissi della psiche umana. Il film trascende i confini del thriller di vendetta per diventare una moderna tragedia greca, dove la suspense non risiede solo nel mistero del “chi” e del “perché”, ma nell’impatto psicologico devastante di un isolamento così prolungato. La prigionia trasforma Dae-su in una bestia ossessionata, un uomo la cui umanità è stata erosa fino al nucleo. La violenza, sebbene stilizzata e a tratti iperbolica, non è mai gratuita; è l’espressione fisica del suo tormento interiore. Park Chan-wook costruisce la tensione attraverso un ritmo implacabile e una serie di rivelazioni scioccanti. Tuttavia, il vero colpo di genio del film è il suo finale. La scoperta della verità non porta alla catarsi liberatoria della vendetta, ma a una rivelazione psicologica così atroce da distruggere completamente il protagonista. La suspense si trasforma in orrore esistenziale, dimostrando che alcune verità sono più insopportabili della prigionia stessa e che la vendetta è un ciclo che consuma chi la cerca.
Parte II: L’Orrore dell’Anima – Suspense Esistenziale e Sociale
Questo capitolo si sposta dagli enigmi della mente agli orrori dell’anima. Questi film utilizzano la grammatica della suspense e dell’horror per esplorare temi profondi e spesso terrificanti del mondo reale: il trauma generazionale, l’oppressione sociale, il lutto e le ansie dell’esistenza. Il mostro è raramente solo un mostro; è una metafora resa spaventosamente letterale.
Halloween - La notte delle streghe

Horror, di John Carpenter, Stati Uniti, 1978.
31 ottobre 1963, in una piccola città della provincia americana, Haddonfield, Il piccolo Michael Myers uccide a coltellate la sorella Judith. Viene ricoverato in un istituto psichiatrico ma 15 anni dopo, riesce a scappare ed a tornare nella sua città. Il dottor Sam Loomis, lo psichiatra che ha seguito Michael nel corso degli anni, lo conosce molto bene e sa quali potranno essere le sue mosse. Michael uccide un meccanico, indossa i suoi vestiti e torna nella sua fatiscente casa natale, ora abbandonata. Poi cerca di uccidere Laurie Strode e la sua amica Annie, dopo averle pedinate. Intanto il dottor Loomis arriva a Haddonfield. Prova a convincere lo sceriffo che la situazione è pericolosa e deve prendere precauzioni ma l'uomo pensa che sia allarmismo inutile. Durante la serata Laurie ed Annie vanno a fare le babysitter da due bambini in case diverse. Michael spia Annie attraverso la finestra della casa dei Wallace, pronto ad ucciderla.
Film indipendente girato con un piccolissimo budget, ha incassato nel mondo oltre 80 milioni di dollari dell'epoca. E' lo slasher movie di maggior successo e uno dei 5 film più redditizi della storia del cinema, diventato un cult con innumerevoli sequel e reboot. Carpenter descrive in maniera straordinaria la remota provincia americana e fa salire la tensione per oltre un'ora, senza che accada nulla, con una regia lineare ed efficacie, e con musiche ipnotiche realizzate da lui stesso. Un regista geniale che riesce, con pochi e semplici elementi e una piccola produzione, a realizzare un horror destinato a rimanere nell'immaginario cinematografico mondiale.
LINGUA: inglese
SOTTOTITOLI: italiano
Get Out
Chris, un giovane fotografo afroamericano, si prepara a conoscere i genitori della sua fidanzata bianca, Rose. Nonostante le sue preoccupazioni, la famiglia Armitage si dimostra eccessivamente accogliente. Tuttavia, una serie di incontri bizzarri e l’inquietante comportamento dei domestici neri della casa fanno crescere in Chris un’angoscia crescente, portandolo a scoprire un segreto terrificante che va oltre ogni immaginazione.
Con Get Out, Jordan Peele ha coniato il termine “thriller sociale”, ridefinendo le potenzialità del genere. Il film è una masterclass di suspense che trova l’orrore non nel soprannaturale, ma nel tessuto stesso della società americana. La minaccia non è un mostro mascherato, ma il volto sorridente e apparentemente progressista del razzismo liberale. La suspense è costruita magistralmente attraverso i micro-momenti: un commento fuori posto, uno sguardo troppo insistente, un’atmosfera di cortesia forzata che nasconde un’ostilità latente. Peele utilizza un simbolismo potente per articolare la sua critica. La “Sunken Place” (il luogo sommerso) è una metafora geniale dell’emarginazione e della paralisi della voce nera di fronte a un’oppressione sistemica. La tazzina da tè, simbolo di civiltà borghese, diventa uno strumento di controllo mentale. Il film sovverte brillantemente i cliché dell’horror: la casa isolata non è infestata da fantasmi, ma dal retaggio della schiavitù e dello sfruttamento del corpo nero. Get Out dimostra che la suspense più efficace è quella che affonda le sue radici nelle paure reali e collettive, trasformando un’ansia sociale in un incubo tangibile.
The Babadook
Amelia, una vedova ancora in lutto per la morte violenta del marito, lotta per crescere il suo problematico figlio di sei anni, Samuel. Una notte, Samuel trova un inquietante libro pop-up intitolato “Mister Babadook” e chiede alla madre di leggerglielo. La storia parla di una creatura oscura che, una volta che si è consapevoli della sua esistenza, non può più essere scacciata. Presto, una presenza sinistra inizia a manifestarsi in casa.
The Babadook è una delle più potenti allegorie cinematografiche sul dolore e la depressione. Il regista Jennifer Kent utilizza gli strumenti del cinema horror per dare forma a un’emozione altrimenti invisibile. Il Babadook non è un’entità esterna, ma la manifestazione fisica del trauma irrisolto di Amelia, del suo lutto represso e del crescente risentimento verso un figlio la cui nascita è coincisa con la morte del marito. La suspense del film è interamente psicologica e cresce di pari passo con il deterioramento mentale della protagonista. La frase chiave del libro, “Più mi neghi, più divento forte”, è la tesi centrale del film. È il rifiuto di Amelia di affrontare il proprio dolore che permette al “mostro” di prendere il controllo, trasformando la casa da rifugio a prigione psicologica. Il finale è di una profondità rara per il genere: il Babadook non viene sconfitto, ma affrontato, accettato e confinato in cantina, nutrito come un animale domestico oscuro. È una metafora straordinaria del processo di convivenza con i propri demoni, un finale che eleva il film da semplice horror a profonda meditazione sulla salute mentale e sulla resilienza umana.
It Follows
Dopo un incontro sessuale apparentemente innocente, la diciannovenne Jay scopre di essere perseguitata da una forza soprannaturale. Questa entità, che può assumere le sembianze di chiunque, la segue lentamente ma inesorabilmente. L’unico modo per liberarsene è trasmettere la maledizione a qualcun altro attraverso un rapporto sessuale. Insieme ai suoi amici, Jay deve trovare un modo per sfuggire a un orrore che è sempre a pochi passi di distanza.
It Follows sovverte con intelligenza il cliché horror “sesso uguale morte. Nel film di David Robert Mitchell, il sesso non è una trasgressione da punire, ma il veicolo di una maledizione che funziona come una metafora potente e stratificata: può rappresentare le malattie sessualmente trasmissibili, il trauma, o più universalmente, la mortalità stessa. La suspense è costruita su un’idea semplice ma geniale: la minaccia non è veloce o aggressiva, ma lenta, costante e inarrestabile. Questa caratteristica genera un’ansia pervasiva e a bassa frequenza, trasformando ogni persona sullo sfondo, ogni figura che cammina in lontananza, in un potenziale pericolo. L’atmosfera è fondamentale. Il film è immerso in un’estetica senza tempo, che mescola elementi moderni e retrò, creando un’atmosfera onirica e sospesa, come se la storia si svolgesse in un incubo suburbano universale. La regia di Mitchell è magistrale nel creare un senso di paranoia costante, utilizzando ampi campi e lenti movimenti di macchina per costringere lo spettatore a scrutare l’orizzonte, proprio come i protagonisti. L’orrore non sta nel salto sulla sedia, ma nella consapevolezza ineluttabile che, non importa dove tu vada, “esso” ti sta seguendo.
The Witch
Nel New England del 1630, una famiglia di puritani viene bandita dalla propria comunità e si stabilisce ai margini di una foresta inquietante. La loro fede devota viene messa a dura prova quando il loro figlio neonato scompare misteriosamente. Mentre il raccolto fallisce e la paranoia si insinua, la famiglia inizia a sospettare che la figlia adolescente, Thomasin, sia una strega, scatenando una spirale di accuse, paura e orrore.
Robert Eggers, con un rigore filologico quasi documentaristico, crea un’opera di suspense che è tanto un horror quanto un dramma storico. . Utilizzando dialoghi tratti da diari e documenti processuali dell’epoca, e una fotografia illuminata quasi esclusivamente da luce naturale, Eggers ci trasporta in un mondo dove la stregoneria non era una fantasia, ma una realtà terrificante e tangibile. La suspense non nasce tanto dalla strega che si nasconde nel bosco, quanto dalla disintegrazione psicologica della famiglia stessa. L’isolamento, la fame e un fanatismo religioso soffocante diventano il terreno fertile per il sospetto e l’isteria. Il vero orrore è la facilità con cui l’amore familiare si trasforma in odio mortale, alimentato dalla paura dell’ignoto e dalla ricerca di un capro espiatorio. Il film lascia deliberatamente aperta la questione se il male sia una forza soprannaturale esterna o una manifestazione delle paure e dei desideri repressi della famiglia. È questa ambiguità a rendere The Witch un’esperienza così profondamente inquietante, un’immersione in un’epoca in cui il confine tra fede e follia era pericolosamente sottile.
Le mani dell'altro

Orrore, poliziesco, di Robert Wiene, Austria 1925.
Orlac, pianista famoso, è su un treno che deraglia e perde le sue preziose mani nell'incidente. Si tenta un rimedio estremo: un trapianto di due mani nuove. Sfortunatamente esse appartengono ad un assassino. Una volta venuto a conoscenza di chi erano le sue nuove mani Orlac inizia con loro un rapporto conflittuale e si rifiuta di usarle. A complicare la situazione c'è l'assassinio del padre, a cui sua moglie si era rivolta per un prestito di denaro. Le mani dell'altro è uno degli ultimi capolavori del cinema espressionista di cui Robert Wiene aveva realizzato il film manifesto, Il gabinetto del dottor Caligari. Film sulla doppia personalità, interpretato dal volto spettrale di Conrad Veidt, ebbe un ottimo successo di pubblico alla sua uscita.
Spunto di riflessione
Se non usi la tua energia in modo creativo quella stessa energia diventerà dannosa e distruttiva. Un uomo che ha una grande energia e non la può esprimere in modo creativo crea distruzione. Se non permetti al tuo lato più prezioso di crescere precipita nell'oscurità. Adolf Hitler voleva fare il pittore ma gli fu rifiutato l'ingresso alla scuola d'arte.
LINGUA: inglese (didascalie)
SOTTOTITOLI: italiano
Hereditary
Dopo la morte della sua enigmatica madre, l’artista di miniature Annie Graham cerca di elaborare il lutto insieme alla sua famiglia. Tuttavia, una serie di eventi tragici e terrificanti inizia a perseguitarli, svelando oscuri segreti sul loro lignaggio. La famiglia si ritrova a lottare contro una forza sinistra e apparentemente ineluttabile che minaccia di distruggerli dall’interno, rivelando che alcune eredità non possono essere rifiutate.
Il debutto di Ari Aster è un’opera di una crudeltà e di una precisione chirurgica, un film che fonde il dramma familiare con l’horror occulto in modo quasi insostenibile. Hereditary è terrificante non solo per le sue immagini scioccanti, ma perché radica il suo orrore in un dolore emotivo incredibilmente reale. La suspense è costruita su una base di lutto insopportabile. La prima metà del film è un ritratto devastante di una famiglia che si disintegra sotto il peso della tragedia, del senso di colpa e del risentimento inespresso. L’elemento soprannaturale emerge da queste ferite psicologiche, trasformando il trauma generazionale e la malattia mentale in una maledizione letterale. La performance di Toni Collette è monumentale, un tour de force che traccia la discesa di una donna nella follia, o forse, in una verità ancora più spaventosa. Aster non concede tregua, costruendo una sensazione di ineluttabilità che diventa sempre più soffocante. Ogni dettaglio, ogni miniatura creata da Annie, è un pezzo di un puzzle diabolico che si ricompone nel finale. Hereditary è un film che dimostra come l’orrore più profondo non sia la paura della morte, ma la paura di ciò che ereditiamo, consapevolmente o meno, dalla nostra stessa famiglia.
Under the Skin
Una misteriosa donna guida un furgone per le strade della Scozia, adescando uomini soli. Li seduce con la promessa di un incontro intimo, ma li conduce in una trappola surreale: uno spazio nero e liquido dove i loro corpi vengono consumati e ridotti a gusci vuoti. Questa entità aliena, tuttavia, inizia un lento e confuso percorso di scoperta, iniziando a percepire frammenti di un’umanità che non riesce a comprendere.
Il film di Jonathan Glazer è un’opera di fantascienza ipnotica e profondamente inquietante, un’esperienza sensoriale che genera suspense attraverso l’ignoto e l’alienazione. Raccontato quasi interamente dal punto di vista distaccato della creatura interpretata da Scarlett Johansson, il film ci costringe a guardare il nostro mondo con occhi esterni. La tensione non deriva da una trama convenzionale, ma dall’atmosfera fredda e clinica, dal mistero sulle motivazioni dell’aliena e dalla natura terrificante del suo metodo predatorio. La colonna sonora dissonante di Mica Levi e le immagini surreali della “camera nera” creano un senso di orrore cosmico. Tuttavia, il nucleo del film è il suo viaggio esistenziale. Man mano che l’entità interagisce con il mondo, in particolare quando mostra un inaspettato atto di pietà verso un uomo sfigurato, inizia a mettere in discussione la sua missione. La suspense si sposta dalla paura per le sue vittime alla paura per lei stessa, una creatura persa in un mondo che non capisce e che alla fine si rivela ostile. È un’esplorazione audace dei temi dell’identità, dell’oggettivazione e dell’empatia, un thriller che lascia più domande che risposte.
Parasite
La famiglia Kim vive in un misero appartamento seminterrato, lottando per la sopravvivenza. Quando il figlio Ki-woo ottiene un lavoro come tutor d’inglese per la figlia della ricca famiglia Park, escogita un piano per far assumere tutti i suoi familiari, fingendo che non si conoscano. L’infiltrazione ha successo, ma la loro precaria simbiosi viene minacciata da una scoperta scioccante nascosta nelle fondamenta della lussuosa villa.
. Bong Joon-ho è un maestro nell’utilizzare lo spazio e l’architettura come metafora della lotta di classe. La villa dei Park, con la sua estetica moderna e ariosa, è costruita su una gerarchia verticale che riflette quella sociale: i Park vivono ai piani alti, i Kim si infiltrano al piano terra, e un segreto ancora più oscuro si nasconde nel seminterrato. La suspense è generata dalla precarietà del piano dei Kim. La minaccia di essere scoperti è costante e culmina in una delle sequenze più tese del cinema moderno: quella in cui si nascondono sotto il tavolino del soggiorno mentre i Park, ignari, discutono del loro “odore”, un marchio indelebile della loro classe sociale che non possono lavare via. In Parasite, il vero “mostro” non è una persona, ma l’ineguaglianza sistemica del capitalismo, una forza invisibile che spinge le persone a compiere atti disperati. Il film dimostra come la suspense più efficace possa nascere non dalla paura di un pericolo fisico, ma dall’ansia di perdere il proprio posto nel mondo.
The Killing of a Sacred Deer
Steven Murphy è un brillante cardiochirurgo con una vita apparentemente perfetta: una bella moglie, due figli e una casa impeccabile. La sua esistenza ordinata viene però turbata dalla sua strana amicizia con Martin, un adolescente senza padre. Quando Steven presenta Martin alla sua famiglia, eventi inspiegabili e terrificanti iniziano a manifestarsi. Martin rivela a Steven che dovrà compiere un sacrificio impensabile per espiare una colpa del passato.
Yorgos Lanthimos traspone la tragedia greca di Ifigenia in Aulide in un sobborgo americano asettico, creando un’opera di un’angoscia clinica e insopportabile. La suspense in The Killing of a Sacred Deer non è emotiva, ma cerebrale e glaciale. Lo stile distintivo del regista, caratterizzato da dialoghi monotoni e recitazioni volutamente innaturali, genera un’atmosfera straniante e assurda. La tensione nasce dalla logica fredda e ineluttabile della maledizione di Martin: una giustizia arcaica, quasi biblica, che si abbatte su un mondo moderno e razionale. La scelta impossibile imposta a Steven – sacrificare un membro della sua famiglia per salvarne gli altri – è il motore di un orrore esistenziale. Non ci sono spiegazioni razionali; i personaggi sono intrappolati in un fato che sfida la logica medica e scientifica. Lanthimos ci costringe a confrontarci con l’idea di una colpa che esige un prezzo terribile, creando un film che è tanto un thriller psicologico quanto un incubo mitologico, dove la paura più grande è l’impotenza di fronte a un’assurda e crudele giustizia.
Lo straniero

Thriller, di Orson Welles, Stati Uniti, 1946.
Orson Welles, autore da sempre contro il sistema Hollywoodiano, non amava questo suo film realizzato all'interno degli Studios, ma stranamente è riuscito a realizzare un prodotto commerciale oltre le sue stesse aspettative, riuscendo ad inserire in esso anche il suo stile inconfondibile, lasciandoci un film stupefacente. Nel piccolo paese di Harper, vive Charles Rankin, che sta per sposare la figlia di un importante giudice. Ma Charles Rankin è in realtà Frank Kindle, un criminale del Terzo Reich che si è creato una nuova identità. L’ispettore Wilson è però sulle sue tracce.
Spunto di riflessione
Lascia perdere le falsità. Per un po’ potrai sentire una certa noia, paura o mancanza di motivazione: mentre ciò che è falso scompare ci vuole tempo prima che ciò che è reale si affermi. Ci sarà un periodo di passaggio. Lascia che accada, e resisti. Prima o poi le tue maschere cadranno, le falsità si dissolveranno, e apparirà il tuo vero volto.
LINGUA: inglese
SOTTOTITOLI: italiano
Parte III: Tensione Claustrofobica – L’Arte dell’Assedio e dell’Isolamento
Questa parte si concentra su un classico tropo della suspense perfezionato dal cinema indipendente: la narrazione d’assedio. Quando un grande budget per location tentacolari non è un’opzione, i registi si rivolgono verso l’interno, trasformando un singolo luogo – una casa, una stanza, un’isola – in una pentola a pressione di tensione crescente. Questi film dimostrano che le prigioni più terrificanti sono quelle con le porte chiuse e nessuna via di fuga.
Green Room
Una squattrinata band punk rock, gli Ain’t Rights, accetta un ingaggio dell’ultimo minuto in un locale isolato tra i boschi dell’Oregon. Dopo il concerto, scoprono che il locale è un covo di neonazisti. Quando uno dei membri della band assiste a un omicidio nella green room, il gruppo si barrica all’interno, dando inizio a un violento e disperato assedio per la sopravvivenza contro un nemico spietato.
Jeremy Saulnier orchestra un thriller d’assedio di una brutalità e di un’efficacia quasi insostenibili. La suspense in Green Room è viscerale, fisica e immediata. Non c’è tempo per l’introspezione psicologica; c’è solo la lotta primordiale per sopravvivere. La green room del titolo diventa contemporaneamente un rifugio e una trappola mortale, un microcosmo claustrofobico dove la tensione è palpabile. Saulnier decostruisce l’eroismo tipico del genere: i protagonisti non sono eroi d’azione, ma musicisti spaventati e impreparati, le cui decisioni sono spesso dettate dal panico. La violenza è rappresentata in modo realistico e sgradevole, senza alcuna patina estetica. L’orrore non nasce da un’eleganza stilistica, ma dalla caotica e goffa brutalità della situazione. Ogni tentativo di fuga, ogni piano improvvisato, non fa che aumentare la pressione e ridurre le speranze, rendendo Green Room un’esperienza tesa e senza respiro, un perfetto esempio di come uno spazio confinato possa diventare il palcoscenico per l’orrore più puro.
The Invitation
Will accetta con riluttanza un invito a cena a casa della sua ex moglie, Eden, che non vede da due anni, dopo la tragica morte del loro figlio. La serata, che riunisce un gruppo di vecchi amici, è pervasa da una strana allegria forzata e da un’atmosfera sempre più inquietante. Will, ancora tormentato dal dolore, inizia a sospettare che Eden e il suo nuovo compagno abbiano un secondo fine sinistro per la riunione.
The Invitation di Karyn Kusama è un capolavoro di suspense psicologica a combustione lenta, interamente ambientato in una singola, lussuosa casa sulle colline di Hollywood. A differenza di un thriller convenzionale, la tensione non è generata da una violenza immediata, ma da un disagio sociale strisciante, dal gaslighting e da una paranoia crescente. Il film sfrutta magistralmente il dolore del protagonista, Will. Il suo trauma lo rende un narratore inaffidabile, e per gran parte del film lo spettatore è costretto a chiedersi se la minaccia sia reale o solo una proiezione della sua mente fragile. Kusama costruisce la suspense attraverso dettagli sottili: una porta chiusa a chiave, un video inquietante, la presenza di estranei dal comportamento ambiguo. La splendida casa, simbolo di successo e benessere, diventa progressivamente una prigione soffocante. L’esplosione di violenza nel finale è tanto più efficace proprio perché arriva dopo un’attesa estenuante, una lenta cottura a fuoco basso che ha portato la tensione a un punto di ebollizione. È un film che dimostra come la paura più profonda possa nascere dal sospetto che le persone che un tempo amavamo siano diventate degli estranei pericolosi.
The Lighthouse
Alla fine del XIX secolo, due guardiani del faro, l’anziano e burbero Thomas Wake e il giovane Ephraim Winslow, iniziano un turno di quattro settimane su un’isola remota e battuta dalle tempeste. L’isolamento, il duro lavoro e i segreti che entrambi nascondono portano a una rapida discesa nella follia, alimentata da alcol, allucinazioni mitologiche e una crescente paranoia.
Robert Eggers ci imprigiona in un incubo claustrofobico e febbrile, un thriller psicologico che esplora la fragilità della psiche umana in condizioni di isolamento estremo. The Lighthouse è un’esperienza sensoriale totalizzante. La scelta di girare in un bianco e nero espressionista e in un formato quasi quadrato (1.19:1) non è un semplice vezzo stilistico, ma uno strumento per amplificare la sensazione di oppressione e intrappolamento. La suspense è esistenziale e allucinatoria. La realtà si deforma, i confini tra i due uomini si sfaldano e l’isola stessa sembra una creatura viva e malevola. Il film è intriso di mitologia marina e riferimenti letterari, da Prometeo a Proteo, che trasformano la lotta per la sanità mentale in una battaglia archetipica tra l’uomo e forze inconoscibili. La tensione cresce in un crescendo di ubriachezza, violenza e visioni grottesche, culminando nella domanda ossessiva che perseguita Winslow: cosa c’è nella luce del faro? La risposta, quando arriva, non offre alcuna chiarezza, ma solo l’abisso della follia.
Mio figlio

Thriller, dramma, di Christian Carion, Francia, 2017.
Julien è sempre in viaggio per lavoro. Le sue continue assenze da casa e l'incapacità di occuparsi di suo figlio Mathys hanno distrutto il suo matrimonio con Marie. Mentre si trova in Francia riceve un'inquietante chiamata dalla sua ex moglie: il loro bambino, che ora ha sette anni, è scomparso mentre faceva un campeggio sulle Alpi. Julien raggiunge subito il luogo della scomparsa e inizia con grande tenacia e determinazione a cercare suo figlio, indagando personalmente.
Partendo da uno spunto narrativo ben consolidato nel genere thriller, Mio figlio del regista francese Christian Carion è un film da non perdere soprattutto per lo stile con cui è stato girato. Concepito fin dall'inizio come un progetto da realizzare quasi in tempo reale, nell'arco di 6 giorni di riprese, il regista utilizza con il suo attore protagonista Guillaume Canet un metodo di improvvisazione radicale: non gli fa leggere nessuna sceneggiatura e gli chiede di vivere la tensione, la suspense e gli imprevisti della finzione come fossero avvenimenti reali, momento dopo momento. L'attore non sa cosa accadrà in ogni scena, reagisce istintivamente agli ostacoli, indaga e ragiona sugli indizi che trova senza conoscere il finale della storia. Il risultato è un film essenziale, immerso in un ambiente poco illuminato, che si regge soprattutto sulla sorprendente autenticità della performance di Canet. Mio figlio non segue lo stereotipo dell'uomo qualunque che è costretto a farsi giustizia da solo: piuttosto è un incubo ad occhi aperti nelle peggiori paure di un genitore.
LINGUA: italiano
Goodnight Mommy
Due gemelli di dieci anni, Elias e Lukas, attendono il ritorno della madre nella loro isolata casa di campagna. Quando la donna arriva, ha il volto completamente coperto di bende a seguito di un’operazione di chirurgia estetica. Il suo comportamento è freddo, distante e crudele, e inizia a ignorare completamente Lukas. I ragazzi si convincono che la donna sotto le bende non sia la loro vera madre e decidono di scoprire la verità con ogni mezzo.
Goodnight Mommy è un gelido e disturbante thriller psicologico che gioca con il concetto freudiano del perturbante: la trasformazione di ciò che è familiare in qualcosa di estraneo e terrificante. La casa, un ambiente moderno e asettico, diventa un teatro di guerra psicologica tra una madre irriconoscibile e i suoi figli sospettosi. La suspense è costruita lentamente, attraverso un’atmosfera di silenzio e diffidenza. Le bende sul volto della madre sono un dispositivo visivo potentissimo, che la de-umanizza e la trasforma in un “altro” mostruoso agli occhi dei bambini. I registi, Veronika Franz e Severin Fiala, sono maestri nel manipolare la prospettiva dello spettatore. Per gran parte del film, siamo portati a simpatizzare con i gemelli e a dubitare dell’identità della madre. La violenza, quando esplode, è brutale e difficile da sostenere, costringendoci a mettere in discussione chi sia la vera vittima. Il colpo di scena finale non è un semplice trucco narrativo, ma una chiave di lettura tragica che ri-contestualizza l’intera storia, rivelandola come un’agghiacciante esplorazione del trauma, del lutto e della frattura della psiche infantile.
The House of the Devil
Negli anni ’80, Samantha, una studentessa universitaria a corto di soldi, accetta un lavoro da babysitter ben pagato in una casa isolata. I suoi datori di lavoro, una coppia anziana e inquietante, le rivelano che non c’è nessun bambino, ma che deve semplicemente badare alla loro madre anziana. Mentre esplora la grande casa vittoriana durante un’eclissi lunare, Samantha si rende conto di essere al centro di un terrificante rituale satanico.
Ti West rende un omaggio magistrale all’horror degli anni ’70 e ’80, replicandone non solo l’estetica (la grana della pellicola, i caratteri del titolo), ma soprattutto il ritmo. The House of the Devil è un esercizio di suspense a combustione lenta, che costruisce la tensione attraverso l’attesa e l’atmosfera piuttosto che con l’azione. Per gran parte del film, non succede quasi nulla. La suspense è tutta nell’aria, nel senso di presentimento che qualcosa di terribile stia per accadere. La casa isolata è la vera protagonista. I lunghi piani sequenza che seguono Samantha mentre vaga per le stanze vuote, ascoltando rumori strani e scoprendo dettagli inquietanti, creano un senso di terrore palpabile. West gioca con le aspettative dello spettatore, ritardando il più possibile la rivelazione dell’orrore. Quando il rituale satanico finalmente ha inizio, l’esplosione di violenza è tanto più scioccante perché arriva dopo un’ora di meticolosa costruzione della suspense. Il film attinge all’ansia culturale del “Satanic Panic” degli anni ’80, dimostrando come la paura più efficace sia quella che si nutre di un’attesa quasi insopportabile.
Parte IV: Il Realismo Inquietante – Storie ai Confini della Verità
Questa sezione esamina film che traggono la loro suspense da un agghiacciante senso di realismo. Sovvertono le aspettative di genere ancorando le loro storie al plausibile, al banale e allo scomodamente familiare. L’orrore qui non risiede nel fantastico, ma nel riconoscimento che questi eventi potrebbero accadere.
Nightcrawler
Lou Bloom è un uomo disperato e senza scrupoli che scopre il mondo del “nightcrawling”: la caccia notturna a incidenti, incendi e crimini violenti da filmare e vendere ai notiziari locali. Con una determinazione sociopatica, Lou si spinge sempre più in là, manipolando scene del crimine e mettendo a rischio la vita altrui pur di ottenere lo scatto perfetto e scalare la gerarchia del giornalismo televisivo.
Il film di Dan Gilroy è una critica feroce e agghiacciante al cinismo dei media moderni e alla nostra stessa fame voyeuristica di contenuti scioccanti. La suspense di Nightcrawler non deriva da una minaccia esterna, ma dall’osservare la terrificante ascesa del suo protagonista. Lou Bloom non è un mostro convenzionale; è un prodotto tossico del capitalismo sfrenato, un uomo che applica la logica del business all’orrore umano. La performance di Jake Gyllenhaal è centrale: il suo sguardo famelico, la sua calma inquietante e il suo linguaggio da manuale di auto-aiuto rendono le sue azioni amorali ancora più disturbanti. La tensione è radicata nel vederlo superare un limite etico dopo l’altro, senza mai un’esitazione. Lo spettatore diventa complice, un voyeur del suo successo, implicato nello stesso consumo mediatico che il film condanna. È un thriller realistico e spietato che mostra come, nel mercato delle notizie, il confine tra osservatore e partecipante possa diventare pericolosamente sottile.
Notte silenziosa, notte di sangue

Horror, di Theodore Gershuny, Stati Uniti, 1972.
Slasher americano del 1972 inedito in Italia, è un horror cult precursore del genere diversi anni prima di Halloween di Carpenter, con una sceneggiatura complessa e le riprese in soggettiva del killer, che hanno ispirato molti film successivi. La sua originalità e la sua narrazione sono ciò che riescono a renderlo una piccola e poco conosciuta perla del genere. Una serie di omicidi in una piccola città del New England alla vigilia di Natale dopo che un uomo eredita una tenuta di famiglia che una volta era un manicomio. Molti dei membri del cast e della troupe erano ex superstar di Warhol: Mary Woronov, Ondine, Candy Darling, Kristen Steen, Tally Brown, Lewis Love, il regista Jack Smith e la laureata Susan Rothenberg.
LINGUA: inglese
SOTTOTITOLI: italiano, francese, spagnolo
Blue Ruin
Dwight è un senzatetto che vive nella sua vecchia auto malandata. La sua esistenza apatica viene scossa quando scopre che l’uomo che ha ucciso i suoi genitori è stato rilasciato di prigione. Spinto da un desiderio di vendetta, Dwight, un assassino goffo e inesperto, torna nella sua città natale per compiere la sua missione, innescando una faida brutale e insensata con la famiglia del suo nemico.
Blue Ruin è una magistrale decostruzione del thriller di vendetta. Jeremy Saulnier smonta il mito del vendicatore infallibile e catartico, sostituendolo con un protagonista spaventosamente reale. Dwight non è un eroe d’azione; è un uomo comune, terrorizzato e palesemente incompetente, la cui ricerca di vendetta è più un atto di disperazione che di forza. La violenza nel film è realistica, sgraziata e profondamente insoddisfacente, privando lo spettatore della gratificazione tipica del genere. La suspense non nasce dall’attesa di un’azione eroica, ma dalla paura costante che l’inettitudine di Dwight lo porti alla morte e dall’orrore di un ciclo di violenza insensato che si autoalimenta. L’estetica minimalista e i dialoghi scarni accentuano il senso di desolazione e realismo. È un film che esplora le conseguenze sporche e tragiche della vendetta, dimostrando che nel mondo reale, la violenza genera solo altra violenza, in una spirale di rovina.
Reservoir Dogs
Sei criminali, che non si conoscono e usano nomi in codice di colori, vengono assoldati per una rapina di diamanti. Il colpo però fallisce a causa di un’imboscata della polizia. I sopravvissuti si ritrovano in un magazzino abbandonato, feriti e sanguinanti. La paranoia si diffonde rapidamente mentre cercano di capire cosa sia andato storto e, soprattutto, chi tra loro sia il traditore.
Il debutto fulminante di Quentin Tarantino ha ridefinito il cinema criminale, creando un nuovo tipo di thriller basato non sull’azione, ma sul dialogo, sui personaggi e su una struttura narrativa non lineare. La genialità di Le Iene sta nel non mostrare mai la rapina. L’intero film è il dopo, il resoconto paranoico e claustrofobico di un fallimento. La suspense è tutta psicologica e si concentra su un’unica, bruciante domanda: chi è la spia? Tarantino costruisce la tensione attraverso dialoghi brillanti, intrisi di cultura pop, che rivelano le personalità e le dinamiche di potere tra i personaggi. Questi lunghi scambi verbali sono interrotti da esplosioni di violenza improvvisa e brutale, che rendono l’atmosfera ancora più instabile e pericolosa. È un film che ha stabilito lo stile inconfondibile di un grande autore indipendente, dimostrando che la suspense più avvincente può essere creata in un’unica stanza, con un gruppo di uomini che parlano e si puntano una pistola contro.
Searching
Quando la figlia sedicenne di David Kim scompare, l’uomo si rivolge alla polizia. Ma dopo 37 ore senza alcun indizio, David decide di cercare nell’unico posto che nessuno ha ancora controllato: il laptop della figlia. In una corsa contro il tempo, David deve rintracciare le impronte digitali della figlia prima che sparisca per sempre, scoprendo un mondo di segreti che non avrebbe mai immaginato.
Searching è un pioniere del thriller “screenlife”, un genere nato dalla nostra realtà iper-connessa. L’intera narrazione si svolge attraverso schermi di computer, smartphone e telecamere di sorveglianza. Questa scelta formale non è un semplice espediente, ma uno strumento potentissimo per creare una forma di suspense unicamente moderna. La tensione si costruisce attraverso azioni che compiamo ogni giorno: il movimento di un cursore, la digitazione e la cancellazione di un messaggio, lo scorrere di un feed sui social media. Questi gesti digitali diventano veicoli di emozione e suspense. Mentre David scava nella vita online di sua figlia, scopre una persona che non conosceva, un abisso tra l’identità pubblica e quella privata. Il film è una riflessione profonda sulla paura genitoriale nell’era digitale e sulla solitudine che può nascondersi dietro uno schermo. È un thriller realistico e incredibilmente coinvolgente, che dimostra come il linguaggio cinematografico possa evolversi per raccontare le ansie del nostro tempo.
Creep
Aaron, un videografo in difficoltà economiche, risponde a un annuncio online per un lavoro di un giorno. Il suo cliente, Josef, è un uomo eccentrico che, affetto da un cancro terminale, vuole registrare un video-diario per il figlio non ancora nato. Quella che inizia come una giornata strana ma innocua si trasforma lentamente in un incubo psicologico, quando Aaron si rende conto che Josef è molto più instabile e pericoloso di quanto sembri.
Creep è un esercizio di suspense minimalista che sfrutta al massimo il formato del found footage. Con solo due attori e una location principale, il film di Patrick Brice genera un’enorme tensione partendo dal disagio sociale e da un’inquietudine crescente. Il cuore della suspense è la performance camaleontica di Mark Duplass nel ruolo di Josef. Il suo personaggio oscilla in modo imprevedibile tra l’essere giocoso, patetico e minaccioso, mantenendo sia il protagonista che lo spettatore in un costante stato di allerta. Non si sa mai cosa aspettarsi da lui, e questa imprevedibilità è terrificante. Il formato found footage rende l’esperienza scomodamente intima e plausibile, attingendo alla paura reale di incontrare uno sconosciuto da internet la cui facciata amichevole nasconde intenzioni oscure. È un film che dimostra che per creare paura non servono mostri o effetti speciali, ma basta l’imprevedibilità del comportamento umano.
Slow life

Dramma, commedia, thriller, di Fabio Del Greco, Italia, 2021.
Lino Stella prende un periodo di ferie dal suo alienante lavoro per dedicarsi al relax e alla sua passione: disegnare fumetti. Ma non ha previsto certi elementi di disturbo: l’invadente amministratrice del palazzo dove vive, il postino che consegna multe e cartelle esattoriali pazze, una vigilessa prepotente, un agente immobiliare molto intraprendente, la vecchia signora del piano di sotto che alleva la colonia felina del condominio. Questi personaggi renderanno la sua vacanza un inferno.
Spunto di riflessione
Più grande è un gruppo sociale più sono necessarie regole e burocrazia che spesso non rispettano l'individuo. Bisogna imparare a convivere con gente fastidiosa, ma a volte la pressione sociale e l'arroganza possono diventare intollerabili. Le uniche leggi che vengono sempre in nostro aiuto sono le leggi della Natura.
LINGUA: italiano
SOTTOTITOLI: inglese
The Blair Witch Project
Nel 1994, tre studenti di cinema si avventurano nei boschi del Maryland per girare un documentario sulla leggenda locale della Strega di Blair. Scompaiono, e un anno dopo vengono ritrovati i loro filmati. Il film è il montaggio di questo materiale “ritrovato”, che documenta la loro discesa nella paura e nella disperazione mentre si perdono e vengono perseguitati da una presenza invisibile e terrificante.
The Blair Witch Project non ha solo popolarizzato il genere del found footage, ma ha rivoluzionato il modo di concepire l’horror a basso budget. Il suo impatto è stato devastante perché ha capito un principio fondamentale della paura: ciò che non si vede è infinitamente più spaventoso di ciò che si vede. La suspense del film è creata interamente attraverso la suggestione, il sound design e l’immaginazione dello spettatore. La strega non appare mai. L’orrore è nei suoni notturni, nei cumuli di pietre, nelle figure di ramoscelli appese agli alberi. Il realismo è amplificato dai dialoghi improvvisati e dalle reazioni genuine degli attori, che venivano tormentati dalla troupe fuori campo per ottenere una paura autentica. Il film ha offuscato magistralmente il confine tra finzione e realtà, anche grazie a una delle prime campagne di marketing virale su Internet che presentava gli attori come realmente scomparsi. È un’opera seminale che ha dimostrato che la suspense più pura non ha bisogno di budget, ma solo di una profonda comprensione della psicologia della paura.
Parte V: Visioni d’Avanguardia – La Suspense come Esperienza Sensoriale
Questa selezione finale celebra i registi che spingono i confini di ciò che un film di suspense può essere. Si tratta di opere guidate da una forte visione autoriale, in cui la tensione è tanto un prodotto di scelte estetiche – fotografia, suono, ritmo del montaggio – quanto della trama. Sono esperienze sensoriali viscerali, stimolanti e spesso indimenticabili.
Ex Machina
Caleb, un giovane programmatore, vince un concorso per trascorrere una settimana nella residenza isolata di Nathan, il geniale e solitario CEO della sua azienda. Lì scopre di essere stato scelto per partecipare a un esperimento: interagire con la prima vera intelligenza artificiale al mondo, incarnata in una bellissima robot di nome Ava. Quello che inizia come un test di Turing si trasforma in un complesso gioco psicologico di seduzione e manipolazione.
Il film di Alex Garland è un thriller fantascientifico elegante e cerebrale, che costruisce la suspense non sull’azione, ma sul dialogo e sulla tensione intellettuale. Ambientato quasi interamente in un bunker minimalista e claustrofobico, il film è una partita a scacchi a tre, dove ogni conversazione è una battaglia di ingegno tra Caleb, il suo arrogante creatore Nathan e l’enigmatica Ava. La suspense è di natura psicologica e filosofica: Ava è veramente cosciente o sta solo simulando? Quali sono le sue vere intenzioni? L’estetica pulita e asettica della location contrasta con le complesse e disordinate questioni morali che il film solleva sulla coscienza, la creazione e le dinamiche di potere di genere. È un’opera che affascina e inquieta, dimostrando che la suspense può nascere dalle grandi domande sulla natura dell’umanità e sull’intelligenza che cerchiamo di creare a nostra immagine.
Burning
Jong-su, un aspirante scrittore che vive ai margini della società, rincontra per caso Hae-mi, una sua vecchia amica d’infanzia. Quando lei torna da un viaggio in Africa, gli presenta Ben, un uomo ricco, affascinante e misterioso. Il fragile equilibrio tra i tre si spezza quando Hae-mi scompare improvvisamente. Ossessionato dalla sua sparizione, Jong-su inizia a sospettare di Ben e del suo strano hobby: bruciare serre abbandonate.
Burning è un capolavoro di suspense atmosferica, un mistero a combustione lenta dove la tensione non risiede negli eventi, ma nell’ambiguità e nel non detto. Lee Chang-dong adatta un racconto di Haruki Murakami e lo trasforma in un’indagine febbrile sull’ossessione, la rabbia impotente e il risentimento di classe nella Corea del Sud contemporanea. La domanda centrale – cosa è successo a Hae-mi? – non trova mai una risposta definitiva. La suspense è interamente esistenziale, annidata nell’incertezza che consuma il protagonista. Il film è un potente commento sociale: l’ossessione di Jong-su per Ben è alimentata da un miscuglio tossico di gelosia, sospetto e invidia di classe. Ben, con la sua ricchezza senza sforzo e il suo distacco emotivo, rappresenta un mondo inaccessibile che tormenta Jong-su. È un’esperienza cinematografica profondamente inquietante, che permane a lungo dopo la visione, lasciando lo spettatore a meditare sulla natura sfuggente della verità e sulla rabbia che cova sotto la superficie della modernità.
Una vita migliore

Film drammatico, thriller, di Fabio Del Greco, Italia, 2007.
Roma: Andrea Casadei è un giovane investigatore specializzato in audio intercettazioni che fa indagini commissionate da mariti traditi dalle mogli, o da genitori preoccupati da cosa fanno i propri figli fuori casa. Ma quello che lo interessa di più è comprendere l'animo umano, ascoltare conversazioni casuali nelle strade, conoscere cosa pensa la gente. Si incontra spesso a piazza Navona col suo amico Gigi, artista di strada frustrato e ossessionato dal successo a tutti i costi, con il quale condivide la passione per le intercettazioni. Sconvolto dal mistero della scomparsa di Ciccio Simpatia, un altro artista di strada amico comune, Andrea decide di abbandonare i lavori su commissione per cercare una vita migliore e riflettere sulla propria e altrui esistenza. Incontrerà l’attrice Marina e con una microspia entrerà lentamente nella sua vita fino a scoprirne i segreti più impensabili. Il film tratta un tema importante della società contemporanea occidentale: la mancanza di amore. La figura misteriosa e tormentata di Marina si riflette in una Roma cupa e senza anima.
Il regista Fabio Del Greco ha dichiarato a proposito di questo suo film: "Forse questo film è una riflessione sull'arte di osservare, di ascoltare, insomma di quello che si fa quando si esce dal mondo reale per raccontarlo. Forse vuole parlare della sottile relazione tra i miraggi di successo propagandati dalla società di oggi, il potere e i rapporti umani più autentici. Uno 'scuro nuvolone' incombe sulla città: sta inglobando tutti in una specie di massa indistinta, uniforme, dove tutti pensano le stesse cose, dove tutti sono più soli. Dov'è finita la parte più vera che ci rende unici? Forse si può provare a intercettarla solo di nascosto."
LINGUA: italiano
SOTTOTITOLI: inglese, spagnolo, francese, tedesco, portoghese
Uncut Gems
Howard Ratner è un carismatico gioielliere del Diamond District di New York e un inguaribile giocatore d’azzardo. Perennemente indebitato e inseguito da strozzini, crede di aver trovato la soluzione a tutti i suoi problemi in un raro opale nero non tagliato proveniente dall’Etiopia. Ma la sua dipendenza dal rischio lo trascina in una spirale frenetica e autodistruttiva di scommesse sempre più alte, mettendo in pericolo la sua famiglia, i suoi affari e la sua stessa vita.
Il film dei fratelli Safdie non è un thriller, è un attacco di panico di due ore. È una masterclass nella creazione di una suspense implacabile e stressante, un’esperienza sensoriale che non lascia un attimo di tregua. Lo stile distintivo dei registi è la chiave di tutto: dialoghi che si sovrappongono, un sound design caotico, primi piani claustrofobici e un ritmo frenetico che rispecchia la mente caotica e adrenalinica del protagonista. La suspense non deriva da un mistero da risolvere, ma dall’assistere in tempo reale all’autodistruzione di un uomo. Ogni decisione di Howard alza la posta in gioco, ogni telefonata porta una nuova minaccia, ogni scommessa è una questione di vita o di morte. È uno studio del personaggio immersivo e soffocante, un ritratto della dipendenza dal gioco d’azzardo dove la tensione non cala mai. Uncut Gems è un’esperienza estenuante e indimenticabile, che spinge al limite la capacità dello spettatore di sopportare l’ansia, dimostrando che la suspense può essere una forma di aggressione sensoriale.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
In questo video ti spiego la nostra visione

