Ecco una selezione curata di film indipendenti che incarnano perfettamente l’anima inquieta e la perpetua reinvenzione del cinema spagnolo: un viaggio oltre i confini del mainstream, alla scoperta di opere che hanno definito, sfidato e celebrato l’identità di una nazione.
Il cinema indipendente spagnolo non è un genere, ma un atto di negoziazione culturale, una forma di resistenza artistica che affonda le sue radici in un terreno storico complesso e tormentato. Per comprendere la sua essenza, bisogna partire dal silenzio imposto da quasi quarant’anni di dittatura franchista. Il regime non si limitò a censurare, ma promosse attivamente una visione cinematografica monolitica, imperiale e rigorosamente in castigliano, costringendo molti dei veri autori a un compromesso artistico o a un vero e proprio esilio creativo.
Questa oppressione, tuttavia, agì come un catalizzatore paradossale. Incapaci di affrontare direttamente le ferite della Guerra Civile o la realtà politica, i registi dissidenti dovettero affinare un linguaggio metaforico, un cinema di simboli e allegorie. La necessità di parlare per sottrazione, di alludere anziché dichiarare, forgiò una poetica visiva sofisticata e un’ambiguità narrativa che sarebbero diventate il marchio di fabbrica del cinema d’autore spagnolo. L’indipendenza non era solo economica, ma intellettuale, una conquista stilistica strappata al controllo del regime.
L’abolizione ufficiale della censura nel 1977 fu come la rottura di una diga. L’energia repressa esplose nella Movida Madrileña, un movimento contro-culturale edonistico, creativo e anarchico. Dopo decenni di isolamento, la Spagna si riappropriava del proprio corpo e della propria voce. In questo contesto, le opere trasgressive dei primi anni di Pedro Almodóvar non erano semplice provocazione, ma atti politici. Raccontare la sessualità, l’identità queer e l’emarginazione sociale era un modo per smantellare l’ordine morale e patriarcale imposto dal franchismo.
Dai sussurri codificati degli anni ’70 all’urlo liberatorio della Movida, fino al neorealismo intimista del XXI secolo, il cinema indipendente spagnolo ha tracciato una mappa dell’anima di una nazione. I 30 film che seguono non sono solo opere d’arte; sono capitoli di un dialogo ininterrotto che la Spagna intrattiene con i suoi fantasmi, le sue passioni e il suo futuro.
El espíritu de la colmena (1973)
In un desolato villaggio castigliano nel 1940, subito dopo la Guerra Civile, la piccola Ana rimane ipnotizzata dalla proiezione del film Frankenstein. La sua innocente fascinazione per il mostro la spinge a esplorare il mondo silenzioso e carico di traumi degli adulti che la circondano, confondendo i confini tra la fantasia e la dura realtà di una nazione ferita e messa a tacere.
L’opera prima di Víctor Erice, uscita due anni prima della morte di Franco, è l’esempio per eccellenza del cinema come allegoria sotto costrizione. Incapace di affrontare direttamente il trauma nazionale, Erice trasfigura la realtà in una favola gotica, dove ogni elemento assume un peso simbolico schiacciante. Il mostro di Frankenstein non è una creatura fantastica, ma l’incarnazione dell’ “altro” generato dalla guerra: il repubblicano sconfitto, il dissidente politico, la verità sepolta.
Le domande ingenue di Ana (“Perché lo hanno ucciso?”) risuonano come un’eco delle questioni irrisolte che gravavano sulla Spagna. Gli adulti del film sono emotivamente paralizzati, sospesi in un lutto non elaborato. Il padre, interpretato da Fernando Fernán Gómez, si rifugia nello studio delle api, metafora di una società rigida e senz’anima come quella imposta dal regime. La ricerca del mostro da parte di Ana diventa così una ricerca di senso in un mondo dove la verità è stata occultata. Lo stile poetico e minimalista di Erice, fatto di lunghi silenzi e di una luce color miele che sembra intrappolare i personaggi nel tempo, riflette perfettamente il soffocante silenzio imposto a un’intera nazione.
Cría cuervos (1976)
Nell’estate del 1975, mentre il generale Franco giace in agonia, la piccola Ana, di otto anni, crede di aver avvelenato il padre autoritario, un alto ufficiale dell’esercito. Perseguitata dalle visioni della madre defunta, la bambina si muove in una casa soffocante che funge da microcosmo di una dittatura al tramonto, mescolando la fantasia infantile con una percezione lucidissima dell’ipocrisia e della morte.
Diretto da Carlos Saura e girato mentre il dittatore stava morendo, questo film è un confronto diretto, sebbene ancora allegorico, con la fine del franchismo. Il tempismo è cruciale: l’opera cattura l’atmosfera sospesa di una nazione in attesa. La morte del padre di Ana, un militare infedele ed emotivamente assente, è una potente metafora della morte del Caudillo stesso, il grande patriarca della nazione.
La casa diventa la Spagna: un luogo pieno di segreti, di dolore represso (la madre, interpretata da una sublime Geraldine Chaplin, che veste anche i panni di Ana adulta) e di una generazione anziana muta e paralizzata (la nonna). La convinzione di Ana di poter uccidere il padre con una polvere innocua riflette il sentimento di impotenza e il desiderio di liberazione di un intero popolo. La complessa struttura narrativa, con i suoi salti temporali, sottolinea il tema della memoria e la difficoltà di sfuggire a un passato che continua a infestare il presente. La celebre canzone “Porque te vas” diventa l’inno di una transizione incerta, un addio malinconico a un’epoca buia.
Arrebato (1979)
José, un regista di film horror a basso costo dipendente dall’eroina, riceve un misterioso pacco da Pedro, un ossessivo film-maker amatoriale che aveva conosciuto tempo prima. Il pacco contiene una pellicola Super 8 e un’audiocassetta che documentano la discesa di Pedro in una relazione vampirica con la sua cinepresa, che sembra letteralmente consumarlo. José viene risucchiato in un vortice pericoloso dove il cinema stesso diventa una droga letale.
Capolavoro di culto di Iván Zulueta, Arrebato è un’opera di transizione fondamentale, un ponte tra il cinema allegorico degli anni ’70 e l’edonismo della Movida. È un film sulla dipendenza, non solo dalle droghe, ma, in modo più profondo e inquietante, dall’immagine cinematografica stessa. Il titolo, che significa “estasi” o “rapimento”, allude a un desiderio di trascendere una realtà alienata, di “andare dall’altra parte”.
Zulueta decostruisce il processo creativo, mostrandolo non come un atto di creazione, ma come una forma di auto-annientamento. La cinepresa diventa un vampiro che prosciuga la forza vitale del suo soggetto fino ad assorbirlo nella celluloide. La ricerca di Pedro della “pausa” tra un fotogramma e l’altro è una ricerca metafisica di una realtà al di là del tempo. Quest’opera riflette le ansie dell’artista post-franchista: liberato dalla censura politica, il nuovo pericolo è un’ossessione solipsistica e autodistruttiva per il mezzo stesso. Con il suo sottotesto queer e la sua influenza su Almodóvar, Arrebato si consacra come un testo fondativo della nascente cultura underground.
Pepi, Luci, Bom y otras chicas del montón (1980)
Dopo essere stata violentata da un poliziotto che ha scoperto le sue piante di marijuana, Pepi trama la sua vendetta. Chiede aiuto alla sua amica punk Bom e a Luci, la moglie masochista del poliziotto. Quello che segue è un viaggio caotico, vibrante e spudoratamente kitsch nel cuore della Madrid underground, una celebrazione dell’amicizia femminile, della liberazione sessuale e dello spirito anarchico della Movida.
L’opera prima di Pedro Almodóvar è il manifesto grezzo e senza filtri della Movida Madrileña. Girato con un budget irrisorio in un anno e mezzo, i suoi difetti tecnici sono parte integrante del suo fascino e della sua autenticità. È un film che non chiede permesso, ma irrompe sulla scena con un’energia irrefrenabile, dichiarando la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova.
Gli elementi “scandalosi” del film – la pioggia dorata, il concorso di “erezioni generali”, le relazioni lesbiche – non sono semplici provocazioni. Sono un assalto sistematico ai valori della Spagna franchista. Il film si apre con un atto di violenza di stato (lo stupro da parte di un poliziotto), simbolo del vecchio regime. La vendetta di Pepi non è legale, ma culturale e sessuale: corrompe la moglie del poliziotto, introducendola a un mondo di musica punk e amore saffico. Questa sovversione dell’unità familiare tradizionale è il nucleo politico del film, che dà voce agli emarginati e li pone al centro di una nuova narrazione culturale, sfidando la visione monolitica e patriarcale del passato.
El Sur (1983)
Nella malinconica periferia di una città del nord della Spagna, la giovane Estrella cresce idolatrando suo padre, un uomo misterioso e affascinante con poteri di rabdomante. Per lei, il “Sud” non è solo una direzione geografica, ma un luogo mitico e irraggiungibile da cui il padre è fuggito, un regno di segreti, passioni e di un amore perduto che ossessiona la sua esistenza.
Dieci anni dopo El espíritu de la colmena, Víctor Erice torna a esplorare il mondo interiore di una bambina per raccontare le ferite non rimarginate della Spagna. Anche qui, il film è un’opera di silenzi e di non detti, dove il passato politico e personale si fondono in un’atmosfera di struggente malinconia. Il Sud del titolo è un’allegoria potente: rappresenta tutto ciò che è stato perduto e represso dopo la Guerra Civile, un passato idealizzato che continua a proiettare la sua ombra sul presente.
Il film è celebre per essere incompiuto. Il produttore Elías Querejeta interruppe le riprese prima che la troupe potesse girare la seconda parte, ambientata proprio nel sud. Eppure, questa incompletezza conferisce all’opera una forza ancora maggiore. Il Sud rimane un mistero, un sogno irrealizzato, proprio come per la protagonista Estrella. La sua assenza fisica nel film rispecchia l’impossibilità di una piena riconciliazione con il passato, lasciando lo spettatore, come la protagonista, a contemplare un vuoto carico di significato.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
In questo video ti spiego la nostra visione
¿Qué he hecho yo para merecer esto? (1984)
Gloria, un’energica casalinga dipendente dalle anfetamine, vive in un minuscolo appartamento in un quartiere popolare di Madrid. La sua vita è un caos surreale: un marito tassista ossessionato da una cantante tedesca, un figlio che spaccia eroina, un altro che si prostituisce e una suocera che colleziona bottigliette d’acqua. Tra vicine eccentriche e un lucertolone domestico, Gloria lotta per sopravvivere alla disperazione quotidiana con un umorismo nero e una resilienza indomabile.
Con questo film, Pedro Almodóvar abbandona l’estetica punk degli esordi per abbracciare una forma di neorealismo pop, unendo la critica sociale alla sua sensibilità unica per il grottesco e il melodramma. L’opera è un ritratto feroce e al tempo stesso tenero della condizione delle donne delle classi popolari nella Spagna della transizione democratica, donne per le quali la modernità e la libertà sembravano aver cambiato poco o nulla.
Almodóvar utilizza una regia innovativa, con inquadrature claustrofobiche riprese dall’interno degli elettrodomestici, per sottolineare il senso di prigionia e monotonia della protagonista. La casa non è un rifugio, ma una cella in cui Gloria si annulla per una famiglia che non la riconosce. A metà tra il dramma costumbrista e la satira feroce, il film dà voce a una classe sociale dimenticata, dimostrando che la disperazione può essere raccontata anche con un’ironia tagliente e uno stile irriverente.
L'angelo sterminatore

Dramma, di Luis Bunuel, Messico, 1962.
Mentre la servitù fugge un gruppo di uomini e donne dell'alta borghesia non riesce ad abbandonare la villa del Señor Edmundo Nóbile e di sua moglie Lucia dopo aver partecipato ad una cena formale. Il panico e gli istinti più selvaggi ed oscuri si impossesseranno di loro. All'epoca molti pensavano che fosse l'ultimo film della carriera di Bunuel. Fu il primo, invece, di una serie di capolavori.
LINGUA: spagnolo
SOTTOTITOLI: italiano, inglese
La legge del desiderio (1987)
Pablo, un affermato regista gay, è coinvolto in un complesso triangolo amoroso. Ama Juan, un giovane che non ricambia pienamente i suoi sentimenti, ma inizia una relazione passionale con Antonio, un fan ossessivo e pericolosamente possessivo. A complicare la situazione c’è Tina, la sorella transgender di Pablo, che si prende cura della figlia di una modella. Il desiderio si trasforma presto in una spirale di gelosia, violenza e tragedia.
Questo film segna una svolta cruciale nella carriera di Almodóvar. È la prima opera prodotta dalla sua casa di produzione, El Deseo, fondata con il fratello Agustín, un atto che sancisce la sua piena indipendenza artistica. È anche il film in cui il regista definisce con maturità i temi che diventeranno centrali nella sua poetica: l’intreccio inestricabile tra amore e morte, la fluidità dell’identità sessuale e il cinema come specchio deformante della realtà.
La legge del desiderio è un melodramma incandescente che corre sul doppio binario della finzione e della vita. La struttura a “film nel film” permette ad Almodóvar di riflettere sulla natura stessa della creazione artistica, mostrando come la vita imiti l’arte e viceversa. Il corpo, vulnerabile e imperfetto, diventa il campo di battaglia dove si scontrano le passioni più estreme. Con questo film, Almodóvar si afferma come uno dei più grandi cantori del desiderio e delle sue conseguenze, spesso fatali.
Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988)
Pepa, una doppiatrice cinematografica, viene abbandonata dal suo amante e collega Iván con un freddo messaggio in segreteria. Nel tentativo disperato di rintracciarlo, il suo attico madrileno si trasforma nel palcoscenico di una farsa caotica. Si ritrova a gestire l’amica Candela, in fuga da un terrorista sciita, il figlio di Iván e la sua fidanzata, e la moglie squilibrata dello stesso Iván, tutti riuniti in un crescendo di isteria, gazpacho corretto con sonniferi e rivelazioni esplosive.
Questo film consacra Pedro Almodóvar a livello internazionale, ottenendo una nomination all’Oscar e definendo il suo stile inconfondibile. È una commedia sofisticata e coloratissima, un meccanismo a orologeria perfetto che mescola la screwball comedy hollywoodiana con il melodramma più acceso. L’appartamento di Pepa, con il suo design pop e i colori primari, diventa un microcosmo della Spagna post-franchista: un luogo vibrante, caotico e liberato, dove le donne non sono più vittime passive del destino, ma agenti attivi, seppur nevrotici, della propria vita.
Il film è una celebrazione della solidarietà femminile. Di fronte all’assenza e all’inaffidabilità della figura maschile (Iván, la cui voce seducente è onnipresente ma il cui corpo è sempre altrove), le donne si uniscono, si scontrano e si salvano a vicenda. L’ironia e il pathos si fondono in un equilibrio magistrale, trasformando il dolore di un abbandono in una commedia esilarante e profondamente umana sulla resilienza e la capacità di reinventarsi.
Jamón, jamón (1992)
Silvia, operaia in una fabbrica di biancheria intima, rimane incinta di José Luis, il figlio dei facoltosi proprietari. La madre di lui, Conchita, non approva l’unione e assume Raúl, un aspirante torero e modello di slip, per sedurre Silvia e rompere il fidanzamento. Il piano, però, prende una piega inaspettata quando Raúl si innamora davvero di Silvia e Conchita stessa rimane affascinata dal giovane macho.
Diretto da Bigas Luna, Jamón, jamón è una parabola surreale e carnale sulla Spagna, un’allegoria che mescola sesso, cibo e tradizione in un cocktail esplosivo. Il film è un inno alla cultura popolare spagnola, dove il prosciutto (jamón) e la corrida diventano potenti simboli di mascolinità, desiderio e identità nazionale. La celebre immagine del toro di Osborne, un’icona pubblicitaria che punteggia il paesaggio spagnolo, diventa lo sfondo di un duello finale tanto grottesco quanto epico.
Il film lanciò le carriere internazionali dei suoi giovanissimi protagonisti, Penélope Cruz e Javier Bardem, la cui chimica sullo schermo è palpabile. Bigas Luna gioca con gli stereotipi della “España profunda”, esasperandoli fino a renderli quasi astratti. Il risultato è un’opera audace, intrisa di un erotismo tellurico e di un umorismo nero, che ritrae una nazione in bilico tra un passato arcaico e un futuro incerto, divorata dalle sue stesse passioni.
Vacas (1992)
Attraverso lo sguardo impassibile di alcune mucche, il film narra la storia di tre generazioni di due famiglie basche rivali, dal 1875 al 1936. La faida ha inizio durante la Terza Guerra Carlista, quando un uomo si finge morto e si cosparge del sangue di un vicino per sopravvivere. Questo atto di codardia segnerà il destino dei loro discendenti, le cui vite si intrecceranno in un ciclo di odio, amore e violenza, sullo sfondo di un mondo rurale arcaico e immutabile.
L’esordio di Julio Medem è un’opera di una originalità sconcertante, un affresco storico che fonde realismo magico, metafore psicanalitiche e una riflessione profonda sull’identità basca. Le mucche non sono semplici animali, ma testimoni silenziose della storia, portatrici di un simbolismo denso e stratificato. I loro occhi riflettono i drammi umani, la loro presenza impassibile contrasta con la violenza e le passioni che consumano i personaggi.
Medem crea un universo visivo ipnotico, dove la natura (il bosco, gli animali, il sangue) assume un ruolo centrale. Il film esplora i miti fondativi del nazionalismo basco, la natura endogamica di una società chiusa e il perpetuarsi di conflitti che si trasmettono di padre in figlio. Vacas segnò la rinascita del cinema d’autore spagnolo negli anni ’90, dimostrando una capacità unica di raccontare la grande Storia attraverso le piccole storie, con uno stile visionario e inconfondibile.
Occidente

Film drammatico, di Jorge Acebo Canedo, 2019, Spagna.
Torino Underground Cinefest 2020, Ponferrada International Film Festival 2019. Un regista fuggitivo in esilio di nome H ritorna nella città industriale da cui era fuggito molto tempo prima, in un tempo e in un luogo sconosciuti. Gloria, l’operaia che si è lasciato alle spalle e che amava, lotta per sopravvivere alla monotonia. Ma H, incapace di conformarsi, la convince a fuggire oltre la civiltà, un posto che nessuno ricorda.
Spunto di riflessione
Il progresso e la rivoluzione industriale dovevano portare un maggiore grado di civiltà, ma è andata davvero così? L'idea di essere una società civile ed evoluta è pericolosa perché impedisce di diventarla davvero. I politici sono in grado di prendere in considerazione solo il prodotto interno lordo e la crescita economica. Tutto il mondo si muove nella direzione di una "presunta" civiltà. Ma se non si riesce a vedere la malattia dell'inciviltà allora è impossibile iniziare il processo di guarigione.
LINGUA: spagnolo
SOTTOTITOLI: italiano, inglese, francese, tedesco, portoghese
La ardilla roja (1993)
Jota, un musicista fallito, sta per suicidarsi gettandosi da un ponte quando una ragazza in moto ha un incidente e precipita sotto di lui. All’ospedale, la ragazza soffre di amnesia. Cogliendo l’occasione, Jota si inventa una vita per entrambi, spacciandosi per il suo fidanzato e dandole il nome di Lisa. La porta in un campeggio chiamato “La Ardilla Roja”, ma il passato della ragazza, incarnato da un ex fidanzato psicotico, non tarderà a riemergere.
Con il suo secondo lungometraggio, Julio Medem conferma il suo talento nel creare storie labirintiche e surreali, dove i confini tra realtà e invenzione sono costantemente messi in discussione. La ardilla roja è un thriller psicologico mascherato da commedia romantica, un gioco di specchi sull’identità e sulla possibilità di reinventarsi.
Il film esplora con ironia e una punta di crudeltà il desiderio maschile di plasmare la donna a propria immagine e somiglianza. Jota non salva Lisa, ma la crea, proiettando su di lei le sue fantasie. Tuttavia, la memoria della ragazza non è del tutto cancellata, e la sua vera identità si fa strada a poco a poco, sabotando il fragile castello di bugie costruito da Jota. Medem dirige con uno stile giocoso e imprevedibile, trasformando una vacanza estiva in un’indagine inquietante sulla natura dell’amore e della memoria.
Tesis (1996)
Ángela, una studentessa di cinema, sta preparando una tesi sulla violenza audiovisiva. Quando il suo relatore muore misteriosamente mentre visiona una videocassetta, lei e il suo compagno di studi Chema, un fanatico di film gore, scoprono che si tratta di uno snuff movie: la registrazione di un vero omicidio, girato proprio all’interno della loro facoltà. La loro indagine li trascinerà in una spirale di paranoia e pericolo, dove chiunque potrebbe essere l’assassino.
L’opera prima di Alejandro Amenábar è un debutto folgorante, un thriller psicologico che ha ridefinito il cinema di genere in Spagna e ha vinto sette premi Goya. Girato con pochi mezzi all’interno della Facoltà di Scienze dell’Informazione di Madrid, lo stesso luogo dove Amenábar aveva studiato, il film cattura perfettamente le ansie di un’epoca ossessionata dall’immagine e dalla sua manipolazione.
Tesis è una riflessione agghiacciante sul voyeurismo e sulla fascinazione morbosa per la violenza mediata. Amenábar costruisce una tensione magistrale, giocando con i cliché del genere per poi sovvertirli. Il film non mostra quasi mai la violenza esplicita, ma la suggerisce, costringendo lo spettatore a confrontarsi con la propria curiosità e la propria complicità. È un’opera intelligente e claustrofobica che ha lanciato la carriera di uno dei registi spagnoli più importanti della sua generazione.
Abre los ojos (1997)
César, un giovane ricco, bello e narcisista, ha tutto dalla vita. Una notte, si innamora di Sofía, ma la sua ex amante gelosa, Nuria, provoca un incidente d’auto che lo lascia sfigurato. Da quel momento, la sua percezione della realtà inizia a frantumarsi. Sogni, ricordi e incubi si confondono in un labirinto inestricabile, costringendolo a mettere in discussione la sua stessa identità e la natura di ciò che sta vivendo.
Con il suo secondo film, Alejandro Amenábar realizza un’opera ancora più ambiziosa e complessa di Tesis. Abre los ojos è un thriller fantascientifico e psicologico che esplora temi come l’identità, la memoria e la sottile linea che separa la realtà dall’illusione. Il film è un puzzle narrativo che sfida costantemente lo spettatore, costringendolo a mettere insieme i pezzi di una storia che si rivela solo nel finale.
La regia di Amenábar è elegante e disorientante, capace di creare un’atmosfera onirica e angosciante. La scena della Gran Vía di Madrid completamente deserta è diventata iconica, un’immagine potente dell’isolamento e dello smarrimento del protagonista. Il film ha ottenuto un tale successo internazionale da ispirare un remake hollywoodiano, Vanilla Sky, ma l’originale spagnolo mantiene una carica di inquietudine e un rigore filosofico che lo rendono un’opera unica e indimenticabile.
Los amantes del Círculo Polar (1998)
Otto e Ana si incontrano da bambini a Madrid. I loro nomi sono palindromi e le loro vite sembrano destinate a incrociarsi e a rispecchiarsi in un gioco di coincidenze e fatalità. Diventano fratellastri quando i loro genitori si sposano, ma il loro legame si trasforma in un amore segreto e profondo. Separati dal destino, continueranno a cercarsi per anni, fino a un possibile, ultimo incontro in Finlandia, sotto il sole di mezzanotte, ai confini del Circolo Polare Artico.
Julio Medem firma il suo capolavoro, un melodramma circolare e poetico sulla natura del caso e del destino. La narrazione è frammentata, raccontata alternativamente dai punti di vista di Otto e Ana, creando un mosaico di ricordi e prospettive che si completano a vicenda. Il film è una riflessione lirica sull’amore come forza cosmica, capace di unire due vite attraverso il tempo e lo spazio.
Lo stile di Medem è visionario e onirico. Le coincidenze non sono semplici espedienti narrativi, ma segni di un ordine segreto che governa l’universo. Il Circolo Polare diventa un luogo mitico, un punto di convergenza dove il tempo sembra fermarsi e dove i cerchi delle loro vite potrebbero finalmente chiudersi. È un’opera di una bellezza struggente, un inno alla potenza dell’immaginazione e alla ricerca incessante dell’altra metà di sé.
Simon del deserto

Commedia, di Luis Bunuel, Messico, 1963
La storia si concentra su Simón, un santo eremita che vive sulla cima di una colonna alta in un deserto. Il suo obiettivo è quello di trascorrere lì il resto della sua vita in penitenza e preghiera per sfuggire alle tentazioni del mondo. La colonna simboleggia il suo distacco dalla realtà materiale e la sua ricerca della perfezione spirituale. Nonostante i suoi sforzi, Simón si trova costantemente affrontato dalle tentazioni che gli si presentano in varie forme. Queste tentazioni prendono la forma di una ballerina di night club, un grande capo militare e persino il diavolo in persona. Ogni volta, Simón resiste alle tentazioni e rinnova il suo impegno spirituale.
Il film è noto per la sua critica ironica e pungente sulla religione organizzata, la spiritualità e la lotta contro le tentazioni. Buñuel utilizza il suo stile surrealista distintivo per affrontare temi complessi e provocatori, mettendo in discussione le convenzioni e le credenze religiose. "Simón del desierto" è diventato un classico del cinema messicano e continua ad essere apprezzato per la sua originalità, il suo umorismo nero e il suo messaggio provocatorio.
LINGUA: spagnolo
SOTTOTITOLI: italiano
Tutto su mia madre (1999)
Manuela, un’infermiera di Madrid, perde il figlio diciassettenne in un tragico incidente. Il ragazzo viene investito mentre cerca di ottenere un autografo dalla sua attrice preferita, Huma Rojo. Distrutta dal dolore, Manuela decide di tornare a Barcellona per cercare il padre del ragazzo, un uomo che non ha mai saputo della sua esistenza e che ora vive come una donna transgender di nome Lola.
Questo film, che ha vinto l’Oscar come Miglior Film Straniero, è la summa della poetica di Pedro Almodóvar e una delle sue opere più mature e commoventi. È un melodramma vibrante dedicato all’universo femminile, alla maternità, all’amicizia e alla capacità di creare nuove forme di famiglia al di là dei legami di sangue. Il viaggio di Manuela a Barcellona è un percorso a ritroso nel suo passato, ma anche un’occasione per costruire un presente inaspettato.
Incontra una galleria di personaggi indimenticabili: la sua vecchia amica Agrado, una prostituta transessuale dalla filosofia pragmatica; Huma, l’attrice tormentata; e Suor Rosa, una giovane suora incinta e sieropositiva. Insieme, queste donne formano una rete di solidarietà e affetto, dimostrando una straordinaria capacità di resilienza di fronte al dolore. È un manifesto di fantasia, dolcezza e profonda umanità, un capolavoro che esplora la complessità dell’identità e del perdono.
Flores de otro mundo (1999)
In un piccolo e spopolato villaggio della Castiglia, gli uomini single organizzano una festa per incontrare donne in cerca di un compagno. Un autobus porta in paese un gruppo di donne, tra cui Patricia, una dominicana con due figli a carico in cerca di stabilità economica; Milady, una giovane cubana che sogna di viaggiare; e Marirrosi, un’infermiera di Bilbao stanca della solitudine. Il film segue i loro tentativi di costruire una relazione, tra speranze, delusioni e lo scontro di culture.
Diretto da Icíar Bollaín, una delle voci più importanti del cinema spagnolo contemporaneo, Flores de otro mundo è un’opera corale, sensibile e profondamente umana. A metà tra il documentario e la finzione, il film esplora con delicatezza e realismo temi come l’immigrazione, la solitudine nel mondo rurale e la difficoltà di comunicazione tra mondi diversi.
Bollaín evita ogni stereotipo, offrendo ritratti complessi e sfaccettati sia degli uomini, ancorati a una terra che sta morendo, sia delle donne, “fiori di un altro mondo” che cercano di mettere radici in un terreno a volte ostile. Il film è una riflessione toccante sulla ricerca della felicità e sulla necessità di superare le barriere culturali e personali. È un cinema sociale che non rinuncia all’emozione, capace di trasformare lo spettatore e di invitarlo a guardare l’altro con empatia e senza pregiudizi.
Lucía y el sexo (2001)
Lucía, una cameriera di Madrid, è devastata dalla presunta morte del suo fidanzato Lorenzo, uno scrittore in crisi creativa. Per sfuggire al dolore, si rifugia su un’isola del Mediterraneo, un luogo che Lorenzo descriveva spesso nei suoi romanzi. Lì, in un’atmosfera solare e sensuale, Lucía scopre i lati più oscuri e segreti della vita e della scrittura del suo amato, in un gioco labirintico dove realtà e finzione si fondono inestricabilmente.
Julio Medem dirige un’opera audace e visivamente sontuosa, un’esplorazione dell’amore, del desiderio e del potere creativo della narrazione. Il film è un puzzle complesso, una storia che, come i romanzi di Lorenzo, contiene buchi e passaggi segreti che collegano il presente al passato, la vita alla morte. Il sesso non è solo un atto fisico, ma una forza primordiale, una fonte di ispirazione e, a volte, di distruzione.
Girato con le prime telecamere digitali ad alta definizione, il film possiede una qualità visiva abbagliante, che cattura la luce e i colori dell’isola con una sensualità quasi tattile. Lucía y el sexo è un’esperienza immersiva, un viaggio onirico e inclassificabile che mescola thriller, dramma erotico e fantasy. È un film che stupisce e fa sognare, confermando Medem come uno dei registi più visionari e originali del cinema spagnolo.
Parla con lei (2002)
Due uomini, Benigno e Marco, si incontrano a uno spettacolo di Pina Bausch e, in seguito, si ritrovano nella stessa clinica. Benigno è un infermiere devoto che si prende cura di Alicia, una giovane ballerina in coma da quattro anni, alla quale parla costantemente. Marco è un giornalista la cui fidanzata, Lydia, una famosa torera, è finita in coma dopo un incidente nell’arena. Tra i due uomini nasce un’amicizia profonda, basata sulla condivisione di un’attesa e sulla solitudine.
Con Parla con lei, Pedro Almodóvar vince l’Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale e raggiunge un nuovo vertice di maturità artistica. Il film è un melodramma asciutto e vibrante, una riflessione complessa e controversa sull’amore, la solitudine e l’incomunicabilità. Per la prima volta, Almodóvar pone al centro della sua narrazione due personaggi maschili, esplorando la loro sensibilità e il loro dolore con una delicatezza inedita.
Il film è una meditazione sulla parola e sul silenzio. Benigno crede fermamente nel potere della comunicazione, anche quando sembra un monologo a senso unico. Il suo amore per Alicia è totale, feticista, e lo spingerà a compiere un gesto estremo e moralmente ambiguo. Almodóvar non offre risposte facili, ma costruisce una storia d’amore e morte, di eros e thanatos, che interroga lo spettatore e lo lascia con un senso di profonda commozione e turbamento.
Los lunes al sol (2002)
In una città portuale del nord della Spagna, un gruppo di operai dei cantieri navali si ritrova senza lavoro dopo una riconversione industriale. Le loro giornate, un tempo scandite dai ritmi della fabbrica, sono ora vuote e senza scopo. Passano il tempo al bar, tra battute amare e sogni infranti, cercando di mantenere la propria dignità di fronte a una società che sembra averli dimenticati.
Diretto da Fernando León de Aranoa e interpretato da un cast eccezionale guidato da Javier Bardem, I lunedì al sole è uno dei film sociali più potenti e toccanti del cinema spagnolo. L’opera racconta con realismo e profonda empatia il dramma della disoccupazione, non solo come problema economico, ma come crisi esistenziale che mina l’identità e le relazioni umane.
Il film evita ogni retorica, concentrandosi sulla quotidianità dei suoi personaggi: le loro piccole umiliazioni, le loro fragili speranze e, soprattutto, la loro incrollabile amicizia. La regia di León de Aranoa è sobria e attenta ai dettagli, capace di catturare la malinconia dei paesaggi industriali e la vitalità dei dialoghi. È un’opera che unisce la denuncia sociale a un umorismo agrodolce, un ritratto indimenticabile di uomini che lottano per non perdere la speranza, anche quando il sole sembra splendere solo per gli altri.
Te doy mis ojos (2003)
Una notte d’inverno, Pilar fugge di casa in pantofole, portando con sé il figlio. Si rifugia da sua sorella, scappando dall’ennesima esplosione di violenza del marito, Antonio. Lui, un uomo apparentemente normale, la cerca, le promette di cambiare, di iniziare una terapia. Pilar, che lo ama ancora, è combattuta tra la paura e la speranza, intrappolata in un ciclo di abusi, pentimenti e fragili riconciliazioni.
Icíar Bollaín affronta il tema della violenza di genere con un coraggio e una lucidità senza precedenti nel cinema spagnolo. Il film, vincitore di sette premi Goya, è un’analisi spietata e complessa delle dinamiche psicologiche che legano vittima e carnefice. La sua forza risiede nel non limitarsi a condannare la violenza, ma nel cercare di comprenderne le radici, mostrando non solo il dolore di Pilar, ma anche le fragilità e le contraddizioni di Antonio.
Il film non mostra un mostro, ma un uomo incapace di gestire la propria rabbia e le proprie insicurezze, che proietta sulla moglie le sue frustrazioni. Allo stesso tempo, ritrae la difficile lotta di Pilar per ricostruire la propria autostima, per “riappropriarsi dei propri occhi” e della capacità di vedersi come individuo. È un’opera necessaria e potente, un pugno nello stomaco che costringe lo spettatore a guardare una realtà spesso nascosta tra le mura domestiche.
Mare dentro (2004)
Il film racconta la storia vera di Ramón Sampedro, un marinaio galiziano rimasto tetraplegico per quasi trent’anni dopo un incidente di gioventù. Confinato in un letto, ma con una mente lucida e un’ironia tagliente, Ramón conduce una lunga battaglia legale per ottenere il diritto a un’eutanasia dignitosa. La sua lotta attira l’attenzione di due donne: Julia, un’avvocatessa che sostiene la sua causa, e Rosa, una donna del popolo che cerca di convincerlo a riscoprire la gioia di vivere.
Alejandro Amenábar dirige un’opera di straordinaria intensità emotiva, vincitrice dell’Oscar come Miglior Film Straniero. Javier Bardem offre un’interpretazione magistrale, trasformandosi fisicamente per incarnare Ramón, un uomo la cui immobilità fisica contrasta con la sua immensa vitalità interiore. Il film affronta il tema complesso e delicato dell’eutanasia con grande sensibilità, senza moralismi né sentimentalismi.
Mare dentro non è un film sulla morte, ma sulla vita: sul suo valore, sulla libertà di scelta e sulla dignità. La regia di Amenábar è poetica e visionaria, capace di tradurre in immagini i voli della fantasia di Ramón, che sogna di tornare a tuffarsi nel mare che lo ha tradito. È un’opera che commuove e fa riflettere, un inno all’amore, alla libertà e al coraggio di decidere del proprio destino.
La mala educación (2004)
Madrid, 1980. Enrique, un giovane regista di successo, riceve la visita di un aspirante attore che sostiene di essere Ignacio, il suo primo amore e compagno di scuola in un collegio cattolico negli anni ’60. L’uomo gli propone un racconto, “La visita”, che narra la loro infanzia, l’amore nascente e gli abusi subiti da parte di Padre Manolo. Affascinato e turbato, Enrique decide di farne un film, ma la verità dietro la storia si rivela molto più oscura e complessa.
Pedro Almodóvar firma il suo film più cupo e contorto, un noir che intreccia tre piani temporali e narrativi in un gioco di specchi vertiginoso. L’opera esplora temi come l’abuso clericale, il trauma infantile, la fluidità dell’identità e il potere manipolatorio della finzione. È un’indagine spietata sulla “cattiva educazione” impartita da un’istituzione repressiva, ma anche una riflessione sulla natura stessa del racconto e sulla sua capacità di rivelare e nascondere la verità.
Il film sfrutta gli stilemi del genere noir per costruire una vicenda complessa di amore, follia, scambi di persona e delitti. Gael García Bernal offre una performance straordinaria in un triplice ruolo, incarnando le diverse maschere che i personaggi indossano per sopravvivere. La mala educación è un’opera potente e irrisolta, un labirinto di desiderio e vendetta che conferma la capacità di Almodóvar di rileggere il cinema del passato in una chiave personalissima e audace.
La soledad (2007)
Adela, una giovane madre single, lascia il suo piccolo paese per trasferirsi a Madrid in cerca di una vita migliore. Antonia, una donna più anziana, si prende cura delle sue tre figlie, affrontando le piccole e grandi sfide quotidiane. Le loro vite, apparentemente separate, scorrono in parallelo, unite da un filo invisibile di solitudine, resilienza e dalla capacità di affrontare le tragedie improvvise che la vita riserva.
Jaime Rosales, uno dei registi più radicali e innovativi del cinema spagnolo contemporaneo, dirige un’opera di un realismo quasi documentaristico. Il film è un ritratto intimo e delicato della vita di due donne comuni, le cui storie diventano universali. Rosales utilizza uno stile rigoroso e anti-spettacolare, con lunghi piani sequenza e un uso audace della “polivisione”, dividendo lo schermo in due per mostrare simultaneamente diverse prospettive della stessa scena.
Questa scelta stilistica non è un mero virtuosismo, ma un modo per sottolineare la solitudine dei personaggi, spesso isolati anche quando si trovano nello stesso spazio. Il film cattura i momenti banali e quelli drammatici con la stessa distanza emotiva, lasciando che sia lo spettatore a colmare i vuoti. La soledad è un’opera che richiede pazienza e attenzione, ma che ripaga con una visione profonda e commovente sulla fragilità e la forza dell’esistenza umana.
(2007)
Ángela, una reporter televisiva, e il suo cameraman stanno girando un servizio sui vigili del fuoco. Una chiamata di routine li porta in un condominio dove una donna anziana si comporta in modo aggressivo. Improvvisamente, l’edificio viene sigillato dall’esterno dalle autorità, intrappolando residenti, pompieri e la troupe televisiva. All’interno, si scatena un’epidemia terrificante che trasforma le persone in creature feroci e assetate di sangue.
Jaume Balagueró e Paco Plaza firmano uno degli horror più influenti e terrificanti degli ultimi decenni. Utilizzando la tecnica del found footage, il film immerge lo spettatore in un’esperienza claustrofobica e adrenalinica. L’intera storia è vissuta attraverso l’obiettivo della telecamera, creando un senso di realismo e immediatezza che amplifica la paura a livelli insostenibili.
** è un capolavoro di tensione. La prima parte del film costruisce lentamente l’atmosfera, per poi esplodere in un crescendo di panico e violenza. La regia è magistrale nel gestire lo spazio angusto del condominio, trasformandolo in una trappola mortale. Il film non si limita a spaventare, ma gioca con le convenzioni del genere, fondendo l’horror epidemico con elementi di possessione demoniaca. È un’opera che ha rivitalizzato il cinema dell’orrore spagnolo, dimostrando che si può creare terrore puro con pochi mezzi e un’idea geniale.
Blancanieves (2012)
In un’Andalusia gotica degli anni ’20, la piccola Carmen viene perseguitata dalla sua malvagia matrigna, Encarna, un’ex infermiera che ha sposato suo padre, un famoso torero rimasto paralizzato. Fuggita di casa, Carmen, che ha perso la memoria, si unisce a una troupe di nani toreri e, con il nome di “Blancanieves”, diventa un fenomeno nelle arene. Ma la gelosia di Encarna la raggiungerà anche lì, con una mela avvelenata.
Pablo Berger compie un’operazione audace e affascinante: rilegge la fiaba di Biancaneve trasformandola in un melodramma muto e in bianco e nero, omaggio al cinema europeo degli anni ’20. Il film è un’opera di una bellezza visiva straordinaria, che sostituisce la parola con la potenza espressiva delle immagini, della musica e delle interpretazioni.
L’ambientazione nel mondo della corrida conferisce alla storia un sapore unicamente spagnolo, intriso di passione, tragedia e un senso del macabro. Maribel Verdú è magnetica nel ruolo della matrigna sadica, mentre Macarena García incarna una Biancaneve forte e resiliente. Blancanieves non è un semplice esercizio di stile, ma un’opera ricca di emozioni, che dimostra come il linguaggio del cinema muto possa ancora parlare al pubblico contemporaneo con una forza sorprendente.
La isla mínima (2014)
Spagna, 1980. Due detective della omicidi di Madrid, ideologicamente opposti, vengono inviati in un remoto villaggio tra le paludi del Guadalquivir per indagare sulla scomparsa di due sorelle adolescenti. In una comunità chiusa e omertosa, dove i fantasmi del franchismo sono ancora presenti, i due poliziotti dovranno superare le loro divergenze per svelare un’oscura rete di segreti e violenza.
Alberto Rodríguez dirige un thriller teso e atmosferico, vincitore di dieci premi Goya. Il film è molto più di un semplice poliziesesco; è un’indagine nell’anima oscura della Spagna della transizione, un paese che si sta lasciando alle spalle la dittatura ma le cui ferite sono ancora aperte. La palude, con i suoi paesaggi labirintici e opprimenti, diventa una metafora di questo stato d’animo nazionale.
La regia è magistrale, con straordinarie riprese aeree che trasformano il paesaggio in una mappa astratta, quasi organica. La fotografia desaturata e la colonna sonora inquietante contribuiscono a creare un’atmosfera densa e malsana. La isla mínima è un giallo morale che scava nel passato per illuminare le contraddizioni del presente, un’opera potente che conferma il grande talento di Rodríguez nel rinnovare il cinema di genere spagnolo.
Estiu 1993 (2017)
Nell’estate del 1993, Frida, una bambina di sei anni, lascia Barcellona dopo la morte della madre per AIDS e va a vivere in campagna con gli zii e la loro piccola figlia. Per lei inizia un percorso difficile di adattamento a una nuova famiglia, a un nuovo ambiente e, soprattutto, a un dolore che non sa come esprimere. Il film osserva con delicatezza le sue reazioni, tra momenti di rabbia, giochi infantili e una silenziosa ricerca di affetto.
L’opera prima autobiografica di Carla Simón è un gioiello di sensibilità e realismo. Girato ad altezza di bambino, il film ci fa vivere l’esperienza del lutto e dell’elaborazione attraverso gli occhi di Frida. La regia è quasi invisibile, capace di catturare la spontaneità dei piccoli gesti e delle conversazioni quotidiane, senza mai cadere nel sentimentalismo.
Laia Artigas, la giovanissima protagonista, offre un’interpretazione di una naturalezza sconvolgente. Il film non spiega, ma mostra, lasciando che siano i silenzi e gli sguardi a raccontare la complessità delle emozioni. Estate 1993 è un ritratto intimo e universale dell’infanzia, della resilienza e della capacità di una famiglia di imparare ad amarsi. È la conferma dell’emergere di una nuova, potente voce nel cinema d’autore spagnolo.
O que arde (2019)
Amador esce di prigione dopo aver scontato una pena per incendio doloso e torna a casa della sua anziana madre, Benedicta, in un isolato villaggio tra le montagne della Galizia. La loro vita scorre lenta, scandita dai ritmi della natura e dai silenzi di una comunità che lo guarda con sospetto. Ma quando un nuovo, devastante incendio minaccia la regione, tutti gli occhi si puntano di nuovo su di lui.
Oliver Laxe, regista franco-spagnolo, firma un’opera di una bellezza austera e potente, un poema visivo che esplora il rapporto tra l’uomo e la natura. Il film è contemplativo, quasi documentaristico nel suo approccio, e si affida a non-attori che portano sullo schermo un’autenticità disarmante. La Galizia rurale, con i suoi paesaggi nebbiosi e le sue tradizioni ancestrali, diventa la vera protagonista della storia.
Il fuoco del titolo non è solo un elemento distruttivo, ma una forza primordiale, quasi mitologica. Le scene dell’incendio sono girate con una potenza visiva mozzafiato, che trasmette allo stesso tempo terrore e una sorta di sublime fascinazione. O que arde è un film reticente, che non offre spiegazioni facili, ma lascia che siano le immagini e i suoni a parlare. È un’opera ipnotica e profondamente malinconica sulla solitudine e sul fragile equilibrio tra l’uomo e il suo ambiente.
Alcarràs (2022)
Per generazioni, la famiglia Solé ha trascorso le estati a raccogliere le pesche nel proprio frutteto ad Alcarràs, in Catalogna. Ma il raccolto di quest’anno potrebbe essere l’ultimo. Il proprietario del terreno è morto e il suo erede vuole sradicare gli alberi per installare pannelli solari. Di fronte a un futuro incerto, la grande famiglia si trova per la prima volta divisa, rischiando di perdere molto più della propria casa.
Dopo il successo di Estate 1993, Carla Simón torna con un’altra opera corale e profondamente radicata nella sua terra, vincitrice dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino. Il film è un affresco realistico e commovente di un mondo rurale che sta scomparendo, schiacciato dalle logiche del progresso e del profitto. La regista lavora ancora una volta con attori non professionisti, persone del luogo che parlano il loro dialetto catalano, conferendo al film un’autenticità straordinaria.
Alcarràs è un’elegia per un modello di vita basato sul legame con la terra e sulla solidarietà familiare. La regia della Simón è immersiva, capace di catturare la coralità della vita familiare con i suoi conflitti, le sue tenerezze e i suoi riti. Senza grandi colpi di scena, il film costruisce un flusso di immagini dense di significato, tracciando un ritratto sentito e universale della fragilità di un’identità e della fine di un’era.
As Bestas (2022)
Antoine e Olga, una coppia francese, si sono trasferiti in un piccolo villaggio dell’entroterra galiziano per vivere a contatto con la natura e avviare un’azienda agricola biologica. La loro presenza, però, non è ben vista dai vicini, in particolare dai fratelli Anta, che vedono in loro un ostacolo alla vendita dei terreni per un progetto eolico. La tensione cresce in un’escalation di minacce e ostilità, fino a un punto di non ritorno.
Rodrigo Sorogoyen dirige un thriller rurale teso e brutale, ispirato a una storia vera. Il film è un western moderno, dove la frontiera non è geografica, ma culturale e sociale. La lotta tra i francesi e i locali è lo scontro tra due visioni del mondo inconciliabili: quella idealistica di chi cerca un ritorno alla natura e quella pragmatica e disperata di chi dalla terra vuole solo scappare.
Il film è costruito su una tensione crescente, che esplode in sequenze di dialogo di una potenza straordinaria, come il lungo confronto al bar tra Antoine e Xan. La regia di Sorogoyen è rigorosa e immersiva, capace di catturare la bellezza selvaggia del paesaggio e la ferocia che si annida nel cuore degli uomini. As Bestas è una riflessione spietata sulla xenofobia, sull’avidità e sulla natura bestiale della violenza, un’opera che lascia lo spettatore senza fiato.
Cerrar los ojos (2023)
Un celebre attore spagnolo, Julio Arenas, scompare durante le riprese di un film. Sebbene il suo corpo non venga mai ritrovato, la polizia conclude che abbia avuto un incidente in mare. Molti anni dopo, il mistero torna a galla quando un programma televisivo decide di rievocare il caso, intervistando il regista e amico intimo dell’attore, Miguel Garay. Questo riaccende in Miguel il desiderio di scoprire la verità.
Trent’anni dopo il suo ultimo lungometraggio, il maestro Víctor Erice torna dietro la macchina da presa con un’opera testamentaria, una riflessione malinconica e profonda sulla memoria, l’identità e il potere del cinema. Chiudere gli occhi è un film che parla del tempo che passa, delle assenze che segnano una vita e della capacità delle immagini di conservare ciò che è andato perduto.
Il film è un atto d’amore verso il cinema stesso, visto come un’arte capace di resuscitare i fantasmi e di dare un senso al frammento. La regia di Erice è, come sempre, rigorosa e poetica, fatta di lunghi silenzi e di un’attenzione quasi sacra ai volti e ai luoghi. È un’opera che si muove tra il noir e il melodramma, un viaggio emozionante nel labirinto della memoria, che conferma Erice come uno dei più grandi e inimitabili autori del cinema europeo.
20.000 specie di api (2023)
Cocó, otto anni, non si riconosce nel nome di Aitor che tutti le hanno dato. Durante un’estate trascorsa nel paese basco della sua famiglia, tra le arnie e la produzione di miele, la bambina confida i suoi dubbi e il suo desiderio di essere chiamata Lucía. Questo viaggio di auto-affermazione si intreccia con le crisi identitarie delle donne della sua famiglia, in un delicato ritratto di tre generazioni al femminile.
L’opera prima di Estibaliz Urresola Solaguren è un film di una sensibilità e di un’intelligenza rare, premiato al Festival di Berlino per la straordinaria interpretazione della giovanissima protagonista, Sofía Otero. Il film affronta il tema dell’identità di genere nell’infanzia con un tocco delicato e poetico, evitando ogni didascalismo.
La metafora delle api e dell’alveare, con la sua complessa organizzazione sociale, serve a esplorare la diversità e la ricchezza delle identità all’interno di una comunità. La regista costruisce un racconto corale, dove la ricerca di Lucía si rispecchia in quella della madre, un’artista in crisi, e della nonna, custode delle tradizioni. È un’opera luminosa e necessaria, che celebra la libertà di essere sé stessi e l’importanza dell’accettazione familiare.
Conclusione: Un Cinema in Perpetua Reinvenzione
Il viaggio attraverso il cinema indipendente spagnolo rivela una cinematografia in dialogo costante con la propria storia, capace di reinventarsi pur mantenendo un nucleo tematico e stilistico riconoscibile. Dalle allegorie codificate sotto il franchismo, all’esplosione liberatoria della Movida, fino alla decostruzione dei generi negli anni ’90 e ai potenti drammi sociali del nuovo millennio, ogni fase ha riflesso le tensioni e le trasformazioni della nazione.
Oggi, una Nueva Ola di autori sta raccogliendo consensi nei più importanti festival internazionali, da Cannes a Berlino, portando una nuova sensibilità. Questa ondata contemporanea è caratterizzata da un ritorno al locale, a un neorealismo intimista che trova l’universale nel particolare. Registi come Carla Simón con Estiu 1993 e Alcarràs, o Oliver Laxe con O que arde, radicano le loro storie in paesaggi e lingue specifiche – la Catalogna, la Galizia – spesso utilizzando attori non professionisti per raggiungere un’autenticità quasi documentaristica.
Questo nuovo regionalismo segna un distacco dalla Madrid-centrica Movida, suggerendo che, con il decentramento politico della Spagna, anche il suo cinema ha iniziato a esplorare le molteplici identità che compongono la nazione. Questa tendenza dimostra che il cinema indipendente spagnolo non è definito da un unico stile, ma da un impegno duraturo nell’indagare la complessa e sfaccettata anima del paese dal basso. Più vitale che mai, questa tradizione continua a produrre opere audaci, personali e artisticamente ambiziose che meritano l’attenzione del mondo intero.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
In questo video ti spiego la nostra visione


