L’adolescenza è un’icona del cinema. L’immaginario collettivo è segnato da commedie romantiche con un lieto fine garantito, dalla nostalgia per Stand By Me o dalla ribellione di The Breakfast Club. Ma l’adolescenza è anche un campo di battaglia interiore, un labirinto di insicurezze, un’esplosione caotica di desideri e paure.
È un periodo di profonda alienazione, in cui ci si sente invisibili e sotto i riflettori. È la ricerca di un’identità in un mondo che offre solo maschere preconfezionate. Il cinema ha saputo mostrare tutto questo: la noia soffocante della provincia, la crudeltà dei corridoi scolastici e le ferite inflitte dalle famiglie disfunzionali.
Questa guida è un viaggio attraverso l’intero spettro. È un percorso che unisce i grandi classici del genere alle opere indipendenti. Dal realismo frontale degli anni ’90 a un approccio più psicologico, ecco opere che catturano l’essenza inquieta e trasformativa dell’adolescenza.
Kids (1995)
In una New York afosa e indifferente, un gruppo di skater adolescenti trascorre 24 ore alla deriva, tra sesso occasionale, abuso di sostanze e piccoli furti. La narrazione segue Telly, l’autoproclamato “chirurgo delle vergini”, e il suo amico Casper, entrambi inconsapevoli delle conseguenze devastanti delle loro azioni, in particolare la diffusione dell’HIV, che incombe come un fantasma invisibile sulla loro estate senza fine.
Kids è più di un film; è un reperto culturale, un’opera che ha brandito l’autenticità come un’arma. La sua forza non risiede solo in ciò che mostra, ma in come è stato percepito: una “sveglia” per una generazione di adulti terrorizzati da una cultura giovanile che non riuscivano più a comprendere. Il regista Larry Clark, proveniente dal mondo della fotografia documentaristica di sottoculture, non si è limitato a dirigere un film, ma ha curato una realtà per lo schermo, utilizzando attori non professionisti e una sceneggiatura scritta da un diciannovenne Harmony Korine per creare una patina di verità innegabile.
Questa “verità”, tuttavia, era filtrata da uno sguardo specificamente maschile, spesso voyeuristico e crudo. La controversia che circondò la sua distribuzione, con la Miramax costretta a creare una società ad hoc per aggirare il veto della Disney, non fu un incidente di percorso, ma parte integrante del suo marketing. Cimentò lo status underground del film e amplificò il suo messaggio: questa è la realtà che Hollywood ha paura di mostrarvi. La sua eredità è duplice: ha aperto la strada a ritratti giovanili più schietti, ma ha anche stabilito un modello di narrazione controversa e maschio-centrica a cui film e serie successive, come Skins ed Euphoria, avrebbero dovuto rispondere e da cui avrebbero dovuto prendere le distanze.
Welcome to the Dollhouse (1995)
Dawn Wiener è una studentessa di seconda media che naviga nel brutale paesaggio sociale di una periferia del New Jersey. È l’emarginata per eccellenza, tormentata dai bulli a scuola e completamente ignorata dalla sua famiglia, che le preferisce la viziata sorellina. Dawn si lancia in una serie di tentativi disperati e spesso umilianti per trovare un briciolo di accettazione e fuggire dalla sua desolante realtà.
Welcome to the Dollhouse è un’opera che sovverte radicalmente l’idea stessa di “romanzo di formazione. Il film di Todd Solondz sostiene che, per alcuni, l’adolescenza non è un viaggio di crescita, ma un esercizio di pura sopravvivenza. La sua genialità risiede nel rifiuto di offrire a Dawn una facile redenzione o una catarsi liberatoria, rendendolo l’antitesi perfetta di un film di John Hughes. Mentre il cinema mainstream offre protagonisti impopolari che trovano il successo o l’accettazione, Solondz rigetta questo schema consolatorio.
Il percorso di Dawn è circolare; i suoi sforzi per migliorare la sua situazione finiscono quasi sempre per peggiorarla. La “casa delle bambole” del titolo è una metafora del mondo soffocante e artificiale delle aspettative suburbane, dove Dawn non è altro che un giocattolo per la crudeltà altrui. La vittoria del Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival del 1996 ha segnato una svolta, indicando un’apertura del cinema indipendente verso esplorazioni più cupe e satiriche della vita americana, spianando la strada a una generazione di cineasti che hanno trovato la commedia negli angoli più bui dell’esperienza umana.
Fucking Åmål (Show Me Love) (1998)
Nella noiosa e sperduta cittadina svedese di Åmål, due ragazze adolescenti vivono su pianeti sociali opposti. Elin è bella, popolare e disperatamente annoiata. Agnes è una nuova arrivata, solitaria, sensibile e segretamente innamorata di Elin. Un bacio impulsivo durante una festa di compleanno disastrosa le avvicina, innescando un timido e confuso percorso alla scoperta di sé e del primo amore.
Il percorso di questo film, dal suo titolo originale provocatorio, Fucking Åmål, a quello più generico e commerciale, Show Me Love, per il mercato anglofono, illustra perfettamente la tensione tra l’autentica espressione del cinema d’autore europeo e le esigenze commerciali che spesso cercano di smussare le specificità per un presunto “appeal universale. Il film di Lukas Moodysson è un capolavoro di onestà, che cattura con una precisione quasi dolorosa due verità dell’adolescenza: la noia soffocante della vita di provincia e l’intensità totalizzante del primo amore.
Lontano dai cliché del cinema adolescenziale, il film non si concentra sul dramma dell’outing, ma sulla difficoltà universale di connettersi con un’altra persona quando ci si sente completamente soli. La sua forza risiede nell’autenticità dei dialoghi e delle interpretazioni, che trasformano una storia potenzialmente di nicchia in un racconto universale sull’accettazione di sé e sul coraggio di essere vulnerabili. .
But I’m a Cheerleader (1999)
Megan Bloomfield è la cheerleader perfetta: ha un fidanzato quarterback, pompon rosa e un futuro apparentemente radioso. I suoi genitori, però, sospettano che sia lesbica a causa della sua passione per il tofu e le immagini di altre donne. Decidono quindi di spedirla a “True Directions”, un campo di rieducazione sessuale dove, insieme a un gruppo di altri adolescenti “confusi”, dovrà imparare i cinque passi per diventare eterosessuale.
. La regista Jamie Babbit trasforma un argomento potenzialmente cupo in una celebrazione gioiosa e sovversiva dell’identità queer. Il campo “True Directions”, con le sue stanze monocromatiche ossessivamente blu per i ragazzi e rosa per le ragazze, non è solo un’ambientazione, ma una metafora visiva della rigida e artificiale costruzione dei ruoli di genere.
Il film non mira al realismo, ma all’esagerazione per svelare la verità. In questo modo, rende la sua critica politica accessibile e divertente, trasformando una storia di oppressione in un’affermazione di gioia e auto-accettazione. Le battaglie del film con la commissione di censura americana per ottenere un rating che ne permettesse la visione a un pubblico più ampio evidenziano proprio il pregiudizio istituzionale che il film stesso si proponeva di deridere, confermando la necessità e l’urgenza del suo messaggio.
The Virgin Suicides (1999)
In un sobborgo del Michigan negli anni ’70, la vita delle cinque sorelle Lisbon, belle ed eteree, è avvolta nel mistero. Dopo il tentativo di suicidio della più giovane, Cecilia, i loro genitori iperprotettivi le isolano dal mondo, trasformando la loro casa in una prigione dorata. Un gruppo di ragazzi del vicinato, ossessionati dalla loro inaccessibilità, cerca di decifrare il mistero della loro malinconia, raccogliendo frammenti e ricordi che, anni dopo, non riescono ancora a comporre un quadro completo.
Il capolavoro d’esordio di Sofia Coppola è un sogno febbrile, un poema visivo sulla memoria, la perdita e lo sguardo maschile. La struttura narrativa del film è la sua chiave di volta: la storia non è raccontata dal punto di vista delle sorelle, ma da quello dei ragazzi, ormai adulti, che le osservavano da lontano. Questa scelta trasforma il film in una profonda riflessione sull’impossibilità di comprendere veramente la vita interiore altrui, specialmente quella delle giovani donne.
Le sorelle Lisbon non sono personaggi a tutto tondo, ma oggetti di un mistero romanticizzato, fantasmi evanescenti nei ricordi altrui. Il film, quindi, non è tanto sulla loro tragedia, quanto sul fallimento dei ragazzi (e della società che rappresentano) nel vederle come esseri umani complessi invece che come proiezioni dei propri desideri e fantasie. L’estetica sognante e malinconica di Coppola, unita alla colonna sonora eterea degli Air, crea un’atmosfera unica che cattura perfettamente la nostalgia per un passato mai veramente compreso.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
In questo video ti spiego la nostra visione
Ratcatcher (1999)
Glasgow, 1973. Lo sciopero dei netturbini ha trasformato la città in una discarica a cielo aperto. In questo scenario di degrado, il dodicenne James vive schiacciato da un segreto terribile e dal senso di colpa per un incidente che ha causato la morte di un suo amico. Alienato dalla sua famiglia e dall’ambiente soffocante, James trova l’unica via di fuga in un nuovo complesso residenziale in costruzione ai margini della città, un luogo idilliaco dove può perdersi in un mondo tutto suo.
Il debutto di Lynne Ramsay è un’opera di realismo sociale che trascende il genere per diventare pura poesia visiva. La regista non si limita a rappresentare la povertà; immerge lo spettatore nella coscienza fratturata del suo giovane protagonista. Attraverso un’attenzione quasi ossessiva per i dettagli sensoriali — la sporcizia onnipresente, il contatto con l’acqua torbida del canale, la visione surreale di un topo legato a un palloncino che vola verso la luna — Ramsay costruisce una realtà soggettiva e potentissima.
Il mondo di James è un luogo in cui la brutalità della vita quotidiana è costantemente interrotta da momenti di lirismo e fuga onirica. Questi squarci di bellezza non sono una negazione della durezza della realtà, ma l’unico meccanismo di difesa possibile per una mente infantile che cerca di sopravvivere a un trauma insostenibile. Ratcatcher è un film straziante e bellissimo, che rivela una delle voci più originali e sensoriali del cinema contemporaneo.
Ghost World (2001)
Appena diplomate, le migliori amiche Enid e Rebecca affrontano l’estate con cinismo e un profondo senso di disprezzo per il mondo conformista che le circonda. Mentre Rebecca cerca di adattarsi, trovando un lavoro e pianificando il futuro, Enid si sente sempre più alienata. La sua vita prende una piega inaspettata quando, per scherzo, risponde all’annuncio di un solitario collezionista di dischi di mezza età, Seymour, trovando in lui un’improbabile anima gemella.
Ghost World è un’ode all’alienazione, un ritratto acuto e agrodolce della difficile transizione dall’adolescenza all’età adulta. Il film cattura brillantemente quel momento in cui le amicizie che sembravano eterne iniziano a sfilacciarsi di fronte alle pressioni della vita. La relazione centrale tra Enid e Seymour è un colpo di genio narrativo. Seymour, interpretato magistralmente da Steve Buscemi, non è solo un personaggio bizzarro; rappresenta un possibile futuro per il cinismo di Enid: una vita di solitudine, definita da passioni di nicchia e da un’incapacità di connettersi con il mondo “normale.
La fascinazione e, allo stesso tempo, la pietà che Enid prova per lui sono una proiezione della sua stessa paura di ciò che potrebbe diventare. Questo rende il film una toccante esplorazione dell’alienazione intergenerazionale e della disperata ricerca di autenticità in una società dei consumi che sembra offrire solo prodotti standardizzati, dalle relazioni umane alla cultura pop.
Y Tu Mamá También (2001)
In Messico, alla fine degli anni ’90, i diciassettenni Tenoch e Julio, migliori amici nonostante le differenze di classe sociale, si ritrovano con un’estate vuota davanti. A una festa di famiglia, per impressionare una donna più grande e affascinante, Luisa, inventano un viaggio verso una spiaggia paradisiaca e inesistente. Quando Luisa, scossa da una crisi personale, accetta inaspettatamente il loro invito, i tre partono per un road trip che cambierà per sempre le loro vite.
Il film di Alfonso Cuarón è molto più di un racconto di formazione erotico e solare. È un’opera politicamente acuta e stratificata, il cui elemento più radicale è la voce narrante onnisciente. Questo narratore interrompe costantemente il viaggio edonistico dei ragazzi con fatti crudi e spesso brutali sulla realtà sociale e politica del Messico di quel periodo: disordini civili, disuguaglianze economiche, corruzione.
Questa tecnica crea una dialettica potente tra l’ignoranza personale dei protagonisti e la storia della loro nazione, che scorre sullo sfondo, spesso ignorata. Il risveglio sessuale ed emotivo dei ragazzi avviene in parallelo al risveglio politico dello spettatore. Cuarón fonde magistralmente il personale e il politico, suggerendo che nessuna esperienza, per quanto intima, può essere veramente separata dal contesto storico e sociale in cui si svolge. È un road movie che non esplora solo il paesaggio fisico, ma anche quello dell’anima di un paese intero.
Thirteen (2003)
Tracy, una tredicenne studiosa e responsabile, desidera disperatamente entrare nel mondo di Evie, la ragazza più popolare e trasgressiva della scuola. Per farlo, abbandona il suo vecchio io e si tuffa in un vortice di sesso, droghe e piccoli crimini. La sua trasformazione repentina e autodistruttiva crea una frattura insanabile con la madre single, che assiste impotente alla discesa agli inferi della figlia.
A differenza di Kids, che era lo sguardo di un adulto sulla gioventù, Thirteen ha la potenza di una confessione a cuore aperto. La sua forza e la sua scomoda autenticità derivano dalla sua co-autorialità: la regista Catherine Hardwicke ha scritto la sceneggiatura insieme a Nikki Reed, all’epoca adolescente, basandosi sulle esperienze di vita di quest’ultima. Questa collaborazione conferisce al film un’urgenza e una crudezza senza pari.
Lo stile visivo, con la sua camera a mano febbrile e i colori desaturati, rispecchia il caos interiore di Tracy. Il film non giudica né moralizza; si limita a documentare la spirale discendente con una vicinanza quasi insopportabile. Non è un film di sfruttamento, ma un grido d’aiuto cinematografico, un’esplorazione viscerale della pressione dei pari, del desiderio di appartenenza e della vulnerabilità di un’età in cui l’identità è fragile e facilmente plasmabile dalle influenze esterne.
Mysterious Skin (2004)
Due ragazzini di otto anni vivono un’esperienza traumatica che segnerà per sempre le loro vite. Dieci anni dopo, i loro percorsi non potrebbero essere più diversi. Brian è un adolescente introverso e socialmente impacciato, ossessionato dall’idea di essere stato rapito dagli alieni, un ricordo di copertura per un trauma che la sua mente ha rimosso. Neil, invece, è diventato un prostituto cinico e disincantato, che usa il sesso come strumento di potere e di fuga.
Il regista Gregg Araki affronta il tema devastante dell’abuso sessuale infantile con una sensibilità e un’inventiva stilistica straordinarie. Invece di optare per un dramma realistico, Araki utilizza il linguaggio dei generi cinematografici per articolare l’inesprimibile. La storia di Brian, con la sua ossessione per gli UFO, diventa una metafora fantascientifica del trauma: un evento così alieno e incomprensibile da poter essere elaborato solo attraverso un filtro fantastico.
Il percorso di Neil, d’altra parte, è immerso in un’estetica noir, un viaggio oscuro negli abissi della sessualità e dello sfruttamento come conseguenza diretta del trauma subito. Mysterious Skin dimostra come il cinema indipendente possa affrontare argomenti tabù non solo con coraggio, ma anche con un’innovazione formale che permette di esplorare le ferite psicologiche in modo profondo ed empatico, senza mai cadere nel sensazionalismo.
Me and You and Everyone We Know (2005)
In una periferia anonima e assolata, un gruppo di personaggi solitari cerca disperatamente una connessione. Christine è un’artista e autista per anziani che si innamora di Richard, un commesso di scarpe appena separatosi. I due figli di Richard, nel frattempo, esplorano il mondo digitale: il più piccolo intraprende una bizzarra chat erotica con uno sconosciuto, mentre il più grande diventa una cavia per le prime esplorazioni sessuali delle ragazze del vicinato.
Il debutto di Miranda July è un’opera eccentrica, tenera e profondamente umana, che cattura la goffaggine e il desiderio di intimità nel mondo contemporaneo. L’aspetto più audace e controverso del film è il suo approccio non giudicante alla sessualità infantile. La famosa chat “pooping back and forth” tra il piccolo Robby e un adulto non è inserita per scioccare, ma per creare un parallelo con i tentativi altrettanto maldestri e talvolta assurdi degli adulti di trovare un contatto.
July suggerisce che il bisogno di connessione è un impulso universale che trascende l’età e le convenzioni sociali, anche se il linguaggio e i mezzi per esprimerlo possono essere diversi e, a volte, inquietanti. Il film non offre risposte facili, ma pone domande complesse sulla solitudine, la comunicazione e la natura fragile e bizzarra dei legami umani nell’era digitale.
Brick (2005)
Dopo aver ricevuto una telefonata disperata dalla sua ex-ragazza Emily, il solitario liceale Brendan Frye la trova morta in un canale di scolo. Rifiutando di coinvolgere la polizia, decide di indagare da solo, immergendosi nel sottobosco criminale della sua scuola. Per scoprire la verità, dovrà navigare tra femme fatale, spacciatori, bulli e un enigmatico signore della droga conosciuto come “The Pin.
L’audace esordio di Rian Johnson è un esercizio di stile mozzafiato che traspone il linguaggio, gli archetipi e l’atmosfera del cinema noir hard-boiled in un liceo della California suburbana. Il film è una masterclass di world-building. Costringendo i suoi personaggi adolescenti a parlare con il gergo secco e stilizzato dei detective di Dashiell Hammett, Johnson crea un universo ermetico e coerente.
Questa scelta non è un semplice vezzo stilistico; riflette brillantemente il modo in cui le cerchie sociali adolescenziali creano i propri codici intricati, i propri linguaggi e le proprie strutture di potere, che risultano impenetrabili per chiunque sia all’esterno. Brick dimostra che i drammi del liceo — con i loro tradimenti, le loro alleanze segrete e la loro posta in gioco apparentemente esistenziale — sono il terreno perfetto per le oscure trame del noir.
Persepolis (2007)
Marjane è una bambina vivace e ribelle che cresce a Teheran durante la Rivoluzione Islamica. Attraverso i suoi occhi, assistiamo alla caduta dello Scià, all’ascesa del regime fondamentalista e alla guerra con l’Iraq. Mentre il suo mondo diventa sempre più repressivo, Marjane scopre il punk, i jeans e la libertà di pensiero. Per proteggerla, i suoi genitori la mandano a studiare a Vienna, dove dovrà affrontare l’esilio, la solitudine e la sfida di trovare la propria identità tra due culture.
Basato sull’omonima graphic novel autobiografica di Marjane Satrapi, Persepolis è un’opera di animazione potente e commovente. La scelta di un’animazione in bianco e nero, stilizzata e espressionista, non è puramente estetica. Serve a universalizzare l’esperienza profondamente personale di Satrapi, trasformando la sua storia in un’allegoria accessibile e potente sulla lotta tra modernità e repressione, tra libertà individuale e controllo statale.
Il film cattura con umorismo e dolore il tumulto dell’adolescenza, amplificato dal caos della storia. La ribellione di Marjane non è solo quella di una teenager contro le regole, ma quella di un individuo contro un’intera teocrazia. È un racconto di formazione indimenticabile, che dimostra come l’animazione possa essere un veicolo straordinario per raccontare storie complesse, politiche e profondamente umane.
Paranoid Park (2007)
Alex è un sedicenne skater di Portland, silenzioso e introverso, che si sente un estraneo sia a casa, con i genitori in procinto di divorziare, sia con la sua ragazza. La sua unica passione è lo skate. Una notte, vicino al famigerato skatepark “Paranoid Park“, viene involontariamente coinvolto nella morte di un agente di sicurezza. Travolto dal senso di colpa e dalla paura, Alex si chiude in un silenzio impenetrabile, cercando di elaborare l’accaduto.
Gus Van Sant abbandona la narrazione tradizionale per creare un’opera impressionista e soggettiva. Il film non è interessato a risolvere il mistero del crimine, ma a catturare lo stato mentale del suo protagonista. La struttura non lineare, che salta avanti e indietro nel tempo, e le lunghe e sognanti sequenze di skateboard girate in Super 8, non sono altro che un riflesso della coscienza traumatizzata e dissociata di Alex.
Il film diventa così un “poema visivo” sull’alienazione e la confusione morale dell’adolescenza. Van Sant ci immerge nel mondo interiore di un ragazzo che non ha gli strumenti emotivi per affrontare un evento più grande di lui. È un ritratto intimo e malinconico della solitudine e del peso di un segreto inconfessabile.
Fish Tank (2009)
Mia è una quindicenne volatile e isolata che vive in un complesso popolare dell’East London. La sua unica passione è la danza hip-hop, che pratica da sola in un appartamento abbandonato. La sua vita, segnata da un rapporto conflittuale con la madre e la sorellina, viene sconvolta dall’arrivo di Connor, il nuovo e affascinante fidanzato della madre. Connor sembra l’unico a notare il suo talento e a incoraggiarla, ma la loro relazione prende presto una piega pericolosa e ambigua.
Il titolo del film è la sua metafora centrale. La regista Andrea Arnold utilizza un formato claustrofobico (4:3) e una camera a mano nervosa e incollata alla sua protagonista per intrappolare visivamente Mia nel suo ambiente. Il suo mondo è letteralmente un “acquario”: un ecosistema chiuso di povertà e opportunità limitate da cui la fuga sembra impossibile.
Arnold crea un ritratto crudo e allo stesso tempo poetico di un’adolescenza ai margini. La sua regia è fisica, quasi tattile, e ci fa sentire la rabbia, la frustrazione e la disperata voglia di vivere di Mia. Fish Tank è un’opera potente e viscerale, che esplora con onestà la fragilità dei sogni di fronte a una realtà spietata e al mondo predatorio degli adulti.
Submarine (2010)
Oliver Tate è un quindicenne gallese precoce e impacciato con due obiettivi principali: perdere la verginità prima del suo prossimo compleanno e impedire che sua madre lasci suo padre per un guru new age che si è trasferito nella casa accanto. Mentre cerca di conquistare la sua compagna di classe Jordana, piromane e anticonformista, Oliver analizza e drammatizza ogni evento della sua vita come se fosse il protagonista di un film d’autore.
Il debutto alla regia di Richard Ayoade è un’opera stilisticamente brillante, spiritosa e profondamente cinefila, fortemente influenzata dalla Nouvelle Vague francese. Le continue voci fuori campo, le didascalie e le elaborate fantasie visive non sono semplici vezzi registici, ma un riflesso diretto della personalità del protagonista. Oliver non vive la sua vita, la dirige.
Questo approccio meta-narrativo cattura perfettamente la natura auto-drammatizzante e intellettualizzante di un certo tipo di adolescente, per cui la vita è qualcosa da analizzare, curare e commentare mentre accade. Submarine è una commedia di formazione unica nel suo genere, che unisce un umorismo tagliente a una sorprendente tenerezza nel raccontare le goffe e complicate avventure del primo amore e delle crisi familiari.
Tomboy (2011)
Laure, una bambina di dieci anni, si trasferisce con la sua famiglia in un nuovo quartiere durante l’estate. Con i suoi capelli corti e i suoi modi mascolini, viene scambiata per un maschio da un gruppo di coetanei. Cogliendo l’occasione, si presenta come Mikäel e vive un’estate di libertà, giocando a calcio, nuotando al lago e vivendo un primo, timido amore con una ragazza del vicinato, Lisa. Ma l’estate sta per finire e l’inizio della scuola minaccia di svelare il suo segreto.
Il genio di Céline Sciamma risiede nel suo approccio osservativo, delicato e privo di giudizio. Tomboy non è un “film a tema” sull’identità transgender; è un film sensoriale sull’esperienza di abitare un corpo e un nome. Sciamma si concentra sui dettagli fisici e pratici dell’identità di genere di un bambino: come riempire un costume da bagno per sembrare un maschio, come imparare a sputare, come muoversi e parlare per essere credibile.
Questa attenzione al concreto e al tattile permette al film di esplorare un tema complesso con una semplicità e una naturalezza disarmanti. Non ci sono grandi discorsi o drammi esagerati. C’è solo l’esperienza quotidiana di un’infanzia in cui l’identità è fluida, un gioco serio e talvolta doloroso di scoperta di sé. È un’opera di una sensibilità rara, che ci invita a guardare il mondo con l’innocenza e la complessità degli occhi di un bambino.
The Spectacular Now (2013)
Sutter Keely è il classico ragazzo popolare: affascinante, spiritoso, sempre con un drink in mano e convinto di vivere “nel momento spettacolare”. Dopo essere stato lasciato dalla sua ragazza, si risveglia su un prato sconosciuto, dove incontra Aimee Finicky, una sua compagna di classe timida e studiosa che fino a quel momento non aveva mai notato. Inizia così una relazione inaspettata, che costringerà entrambi a confrontarsi con i traumi familiari e le paure per il futuro.
Questo film, diretto da James Ponsoldt, è un antidoto al romanticismo patinato di tanti teen movie. La sua forza risiede in un’autenticità quasi dolorosa, ancorata alle performance straordinarie di Miles Teller e Shailene Woodley. La sceneggiatura, scritta dagli autori di (500) giorni insieme, demolisce il cliché della “manic pixie dream girl. Aimee non è lì per salvare il carismatico ma autodistruttivo Sutter dal suo alcolismo e dal suo nichilismo.
La loro relazione, al contrario, mostra come l’amore adolescenziale possa essere sia un catalizzatore per la crescita che un luogo di danno reciproco. Il film esplora con onestà le complessità dell’intimità, la paura della vulnerabilità e l’eredità dei traumi familiari, offrendo un ritratto realistico, agrodolce e profondamente commovente del primo amore.
Palo Alto (2013)
In una periferia californiana benestante, un gruppo di adolescenti vaga senza meta tra feste, sesso e atti di vandalismo. April è una ragazza timida e intelligente, contesa tra l’affetto per il suo coetaneo Teddy e le attenzioni inappropriate del suo allenatore di calcio, Mr. B. Teddy, dal canto suo, cerca di tenere a bada il suo lato autodistruttivo, costantemente istigato dal suo migliore amico Fred, un ragazzo nichilista e imprevedibile.
Nel suo debutto alla regia, Gia Coppola (nipote di Francis Ford e nipote di Sofia) adatta i racconti di James Franco per creare un ritratto atmosferico e sognante della noia e del privilegio. Il film eccelle nel catturare un senso di apatia e di vuoto esistenziale, dove i personaggi agiscono spinti da impulsi momentanei in una ricerca disperata di significato in un mondo che sembra non offrirne alcuno.
Palo Alto esplora con sottigliezza le ambiguità morali e gli squilibri di potere nelle relazioni adolescenziali, in particolare quella tra April e il suo allenatore. L’assenza di una forte guida adulta lascia questi ragazzi in balia dei loro desideri e delle loro insicurezze, rendendo la loro “mancanza di meta” non uno stato passivo, ma una ricerca attiva e spesso pericolosa di un’emozione che li faccia sentire vivi.
A Girl Walks Home Alone at Night (2014)
Nella desolata e spettrale cittadina iraniana di Bad City, si aggira una vampira solitaria. Indossa un chador, va in skateboard e di notte dà la caccia agli uomini che mancano di rispetto alle donne. La sua esistenza cambia quando incontra Arash, un giovane dal cuore gentile oppresso dai debiti di droga del padre. Tra i due emarginati nasce un’improbabile e silenziosa storia d’amore, sullo sfondo di un paesaggio industriale in un bianco e nero espressionista.
Il debutto di Ana Lily Amirpour è un’opera audace e incredibilmente originale, un “western vampiresco iraniano” che mescola generi e influenze (dal cinema di Jarmusch allo spaghetti western) per creare qualcosa di completamente nuovo. Il film sovverte brillantemente il suo stesso titolo: la “ragazza che cammina da sola di notte” non è una potenziale vittima, ma la predatrice definitiva.
Amirpour trasforma il chador, simbolo di modestia e, in alcuni contesti, di oppressione femminile, in un mantello da supereroe (o da vampiro). La sua protagonista diventa una potente icona femminista, un’angelo vendicatore che si riappropria della notte e punisce il patriarcato. È un film stilisticamente impeccabile, ipnotico e carico di un’atmosfera unica, che usa il mito del vampiro per parlare di solitudine, giustizia e desiderio femminile.
Boyhood (2014)
Il film segue la vita di Mason, dai sei ai diciotto anni, attraverso il divorzio dei suoi genitori, i traslochi, le nuove scuole, i primi amori, le delusioni e le scoperte. Assistiamo alla sua crescita, anno dopo anno, vedendo lui e gli attori che lo circondano invecchiare naturalmente sullo schermo, in un esperimento cinematografico senza precedenti che cattura il fluire del tempo.
L’opera monumentale di Richard Linklater, girata nell’arco di dodici anni con lo stesso cast, è molto più di un semplice racconto di formazione. Il vero protagonista del film non è Mason, ma il tempo stesso. Linklater evita deliberatamente i grandi snodi drammatici che solitamente scandiscono le narrazioni cinematografiche, concentrandosi invece sui momenti apparentemente insignificanti che compongono una vita: una conversazione in macchina, un nuovo taglio di capelli, un pomeriggio passato a giocare ai videogiochi.
In questo modo, Boyhood sostiene una tesi profonda sulla natura dell’esistenza: la vita non è definita dai grandi eventi, ma dall’accumulo silenzioso e costante di esperienze quotidiane. È un’impresa cinematografica che raggiunge una forma unica di realismo, trasformando lo spettatore non in un semplice osservatore, ma in un testimone partecipe del miracolo ordinario della crescita.
The Diary of a Teenage Girl (2015)
San Francisco, 1976. Minnie Goetze è un’aspirante fumettista di quindici anni che, come molte sue coetanee, è alla disperata ricerca di amore e accettazione. La sua vita prende una piega complicata quando inizia una relazione con Monroe, il fidanzato trentacinquenne di sua madre. Attraverso il suo diario, registrato su un mangianastri, e i suoi disegni animati, Minnie documenta la sua turbolenta e confusa scoperta della sessualità.
Questo film, scritto e diretto da Marielle Heller, è un’esplorazione radicalmente onesta e non giudicante del desiderio femminile adolescenziale. La sua più grande innovazione è quella di concedere a Minnie il controllo totale della sua narrazione. Attraverso la sua voce fuori campo e le sue fantasiose animazioni, il film ci immerge completamente nella sua prospettiva, celebrando la sua curiosità, la sua creatività e la sua fame di esperienze senza mai moralizzare i suoi errori.
È un netto distacco dai film che ritraggono le ragazze adolescenti come oggetti passivi del desiderio maschile. The Diary of a Teenage Girl rivendica l’autonomia e la complessità della sessualità femminile, presentandola non come qualcosa da temere o controllare, ma come una forza vitale e creativa. È un racconto di formazione divertente, coraggioso e profondamente femminista.
Dope (2015)
Malcolm e i suoi due migliori amici, Jib e Diggy, sono dei “geek” ossessionati dalla cultura hip-hop degli anni ’90 che vivono in un quartiere difficile di Inglewood, California. Il loro sogno è entrare ad Harvard. La loro vita viene sconvolta quando, dopo essere finiti per caso a una festa di uno spacciatore, Malcolm si ritrova con uno zaino pieno di droga. Per sopravvivere e realizzare le sue ambizioni, dovrà navigare nel pericoloso mondo della criminalità di Los Angeles.
Dope è una commedia di formazione energica e intelligente che mescola umorismo, azione e un’acuta critica sociale. Il regista Rick Famuyiwa utilizza i suoi protagonisti “nerd” per decostruire gli stereotipi sulla mascolinità nera e per esplorare le complessità dell’identità in un’America che si autodefinisce “post-razziale”.
Il film dimostra che, anche per chi cerca di sottrarsi alle etichette attraverso la passione per una sottocultura, i confini razziali e i pericoli sociali persistono. Il saggio finale che Malcolm scrive per la sua ammissione ad Harvard è una sfida diretta alle nozioni preconcette dello spettatore, un potente manifesto sull’identità che rifiuta di essere incasellata in una singola definizione.
Mustang (2015)
In un remoto villaggio turco, cinque giovani sorelle orfane vivono con la nonna e lo zio conservatore. Dopo essere state viste giocare innocentemente in spiaggia con dei ragazzi, la loro casa si trasforma in una prigione. Le lezioni scolastiche vengono sostituite da lezioni di cucina e cucito, le sbarre compaiono alle finestre e iniziano ad essere organizzati matrimoni combinati. Ma lo spirito indomito delle ragazze non può essere soffocato così facilmente.
Il potente debutto della regista Deniz Gamze Ergüven è un inno alla sorellanza come forma di resistenza. Il film utilizza l’energia collettiva delle cinque sorelle come sua forza motrice. Non sono rappresentate come cinque individui isolati, ma come un unico organismo ribelle, una creatura a più teste che lotta per la propria libertà. Questa attenzione al legame fraterno come scudo contro l’oppressione patriarcale offre una contro-narrazione potente alle storie di sofferenza femminile individuale.
La casa, descritta come una “fabbrica di mogli”, diventa il teatro di una battaglia silenziosa e quotidiana per l’autodeterminazione. Mustang è una favola femminista straziante ma, in ultima analisi, piena di speranza, che celebra la vitalità e la resilienza di uno spirito che si rifiuta di essere domato.
The Fits (2015)
Toni, una undicenne mascolina, passa le sue giornate ad allenarsi nella palestra di boxe del fratello. Un giorno, rimane affascinata dalla squadra di danza che si allena nello stesso edificio e decide di unirsi a loro. Mentre lotta per integrarsi nel nuovo gruppo, una misteriosa epidemia di svenimenti e convulsioni inizia a colpire le ballerine più grandi. Toni si ritrova a desiderare e, allo stesso tempo, a temere di essere la prossima a soccombere a questi “attacchi”.
L’ipnotico film di Anna Rose Holmer opera a un livello puramente allegorico. È un’opera misteriosa e viscerale che si affida alle immagini e al suono piuttosto che al dialogo per raccontare la sua storia. Gli “attacchi” non sono una malattia fisica, ma una manifestazione esteriore delle convulsioni interiori della pubertà e del desiderio di appartenenza.
Il film è un ritratto psicologico che esplora le ansie della preadolescenza, in particolare quelle legate alla femminilità e al corpo che cambia. Holmer si fida del suo pubblico, invitandolo a interpretare le sue immagini ambigue e potenti. The Fits è un’esperienza cinematografica unica, un’esplorazione quasi astratta della trasformazione fisica ed emotiva che definisce il passaggio dall’infanzia all’adolescenza.
American Honey (2016)
Star, un’adolescente che vive in povertà e abbandono, decide di fuggire dalla sua vita senza futuro unendosi a una “mag crew”, un gruppo di giovani disadattati che viaggia attraverso il Midwest americano vendendo abbonamenti a riviste porta a porta. Trascinata in un mondo di feste, alcol, piccole truffe e un amore complicato con il carismatico Jake, Star intraprende un viaggio epico alla scoperta di sé stessa e di un’America dimenticata.
Andrea Arnold dirige un road movie tentacolare e immersivo, lungo quasi tre ore, che demolisce il mito romantico del viaggio on the road americano. Questa non è una fuga verso la libertà, ma un’odissea dettata dalla disperazione economica. La regia della Arnold è irrequieta, quasi documentaristica, e ci fa sentire parte della crew, condividendo la monotonia, l’euforia e la precarietà della loro esistenza.
La colonna sonora, un mix incessante di trap, pop e hip-hop, non è solo un sottofondo, ma il battito cardiaco del film, che scandisce il ritmo di una vita vissuta alla giornata. American Honey è un ritratto potente e lirico di una gioventù perduta ai margini del Sogno Americano, una critica struggente di un paese che ha lasciato indietro i suoi figli più vulnerabili.
The Florida Project (2017)
All’ombra del Walt Disney World, la piccola Moonee, sei anni, vive con la sua giovane e ribelle madre Halley in un motel dai colori pastello chiamato “The Magic Castle. Per Moonee, l’estate è un’avventura senza fine, un susseguirsi di scherzi, esplorazioni e amicizie. Ignara delle difficoltà economiche e dei sacrifici della madre per pagare l’affitto settimanale, Moonee trasforma il suo mondo precario in un regno magico, sotto lo sguardo protettivo ma severo del manager del motel, Bobby.
Il genio del film di Sean Baker risiede nella sua duplice prospettiva. Viviamo il mondo attraverso gli occhi di Moonee, un parco giochi vibrante e pieno di meraviglie. La camera, spesso posizionata alla sua altezza, ci costringe a guardare il mondo dal basso, rendendo le lotte e i sacrifici degli adulti che la circondano ancora più toccanti e reali.
The Florida Project è un film sulla resilienza dell’immaginazione infantile come meccanismo di difesa contro una realtà spietata. Il contrasto tra i colori sgargianti del motel e la povertà che nascondono, tra la vicinanza del “luogo più felice della Terra” e la disperazione dei suoi abitanti, crea un’opera di una bellezza straziante. È un ritratto indimenticabile dell’infanzia ai margini, pieno di vita, umorismo e un’infinita compassione.
Eighth Grade (2018)
Kayla Day sta affrontando l’ultima, terribile settimana delle scuole medie. Timida e afflitta da ansia sociale, cerca di proiettare un’immagine di sé sicura e saggia attraverso i video motivazionali che pubblica su YouTube, che però nessuno guarda. Mentre naviga tra feste in piscina a cui non è stata veramente invitata, cotte non corrisposte e il rapporto impacciato con il suo amorevole padre single, Kayla cerca disperatamente di trovare il suo posto nel mondo.
Il debutto alla regia del comico Bo Burnham è un ritratto incredibilmente autentico ed empatico della preadolescenza nell’era dei social media. Il film è una pietra miliare per essere uno dei primi a trattare la vita digitale degli adolescenti con la stessa serietà della loro vita fisica. I video di Kayla su YouTube non sono un espediente narrativo, ma il palcoscenico centrale su cui si svolge la sua faticosa costruzione dell’identità.
Burnham comprende che per la Generazione Z, la lotta per “essere sé stessi” è una performance costante, recitata per un pubblico di coetanei e sconosciuti online. Con un’onestà quasi dolorosa, il film cattura l’imbarazzo, l’ansia e la vulnerabilità di quell’età, offrendo al contempo un messaggio di speranza e di accettazione di sé.
Mid90s (2018)
Los Angeles, metà anni ’90. Il tredicenne Stevie vive una vita solitaria, tormentato dal fratello maggiore violento e trascurato dalla madre. Un giorno, scopre un negozio di skate e rimane affascinato dal gruppo di ragazzi più grandi che lo frequentano. Per essere accettato, Stevie si butta a capofitto nella cultura dello skate, imparando non solo i trick, ma anche le dure lezioni sulla lealtà, la mascolinità e l’amicizia.
Nel suo debutto alla regia, Jonah Hill realizza un’opera nostalgica e cruda, girata in un formato 4:3 che evoca l’estetica dei video di skate di quel periodo. Ma Mid90s è molto più di un semplice omaggio a un’epoca. Il film esplora la ricerca di una famiglia surrogata. La crew di skater offre a Stevie la convalida e il senso di appartenenza che la sua vera famiglia gli nega.
La forza del film risiede nella sua rappresentazione non giudicante di questi spazi maschili, dove una genuina e profonda amicizia può coesistere con una mascolinità tossica fatta di omofobia, misoginia e comportamenti autodistruttivi. È un ritratto onesto e toccante di come, nell’adolescenza, si cerchi disperatamente un luogo a cui appartenere, anche quando quel luogo è pieno di pericoli.
Booksmart (2019)
Alla vigilia del diploma, le due migliori amiche e studentesse modello Amy e Molly si rendono conto di un’amara verità: mentre loro passavano gli ultimi quattro anni a studiare per entrare in college prestigiosi, i loro compagni festaioli e apparentemente superficiali sono riusciti a fare lo stesso senza rinunciare al divertimento. Determinate a recuperare il tempo perduto, decidono di concentrare quattro anni di feste in una sola, epica notte.
Il brillante esordio alla regia di Olivia Wilde rinnova e sovverte il genere della commedia adolescenziale “one last night. L’innovazione principale del film è il suo rifiuto della dicotomia tra “secchioni” e “ragazzi popolari”. Booksmart demolisce decenni di cliché, mostrando un mondo in cui l’intelligenza e il divertimento non si escludono a vicenda e dove i diversi gruppi sociali sono più fluidi e complessi di quanto sembri.
È una celebrazione esuberante e femminista dell’amicizia femminile, dell’ambizione e della sessualità queer, il tutto raccontato con un ritmo indiavolato e un umorismo intelligente e inclusivo. Il film presenta una visione utopica e gioiosa del liceo, dove l’accettazione e la gentilezza finiscono per prevalere sulla crudeltà, offrendo una boccata d’aria fresca e un modello positivo per il teen movie del futuro.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
In questo video ti spiego la nostra visione

