Il western all’italiana, volgarmente e affettuosamente noto come Spaghetti Western, non rappresenta semplicemente un sottogenere cinematografico, ma una vera e propria rivoluzione culturale che ha riscritto la grammatica del cinema mondiale. Emerso nei primi anni Sessanta dalle ceneri del peplum e spinto da un’urgente necessità economica, questo movimento artistico ha saputo trasformare i paesaggi aridi della Spagna e del Sud Italia in un palcoscenico universale dove mettere in scena la brutalità della natura umana. A differenza del western classico americano, dominato da una visione manichea e spesso rassicurante della conquista della frontiera, i registi italiani come Sergio Leone, Sergio Corbucci, Sergio Sollima e Duccio Tessari hanno dipinto un universo dominato dal cinismo, dall’avidità e dalla violenza, dove la linea di demarcazione tra eroe e antieroe è sottile quanto la polvere che ricopre i loro cappotti logori. In questo mondo, la legge non è dettata dalla stella dello sceriffo, ma dalla velocità della colt e dall’astuzia del sopravvissuto.
L’impatto di questi film trascende la semplice estetica della violenza stilizzata. Essi fungono da specchio deformante per le tensioni politiche e sociali dell’epoca, iniettando nel tessuto narrativo del West tematiche marxiste, critiche feroci al capitalismo, riflessioni sulla rivoluzione e un nichilismo che rifletteva le inquietudini del Novecento. La figura del pistolero solitario, spesso senza nome e senza passato, diventa l’archetipo dell’individualismo moderno, mentre le colonne sonore, rivoluzionate dal genio di Ennio Morricone e dei suoi colleghi, non si limitano ad accompagnare le immagini ma ne diventano l’anima pulsante, dettando ritmi operistici che dilatano il tempo fino all’astrazione.
Questa guida esaustiva esplora cronologicamente le pietre miliari del genere, selezionate per la loro rilevanza storica, la qualità artistica e la capacità di incarnare le diverse anime dello Spaghetti Western: dalla tragedia greca leoniana al barocco “Zapata Western” politico, dal gotico surreale alla commedia picaresca. Attraverso l’analisi di questi capolavori, viaggeremo in un’epopea di sangue e oro, riscoprendo pellicole che hanno influenzato generazioni di cineasti contemporanei e che continuano a brillare per la loro audacia visiva e narrativa.
Per un pugno di dollari (1964)
Uno straniero senza nome giunge a cavallo nella cittadina di San Miguel, un luogo spettrale al confine tra Stati Uniti e Messico, dominato dalla faida mortale tra due potenti famiglie di contrabbandieri: i Rojo e i Baxter. Intuendo la possibilità di trarre profitto dalla situazione, il pistolero decide di vendere i propri servigi a entrambe le fazioni, innescando un gioco pericoloso di inganni e doppi giochi. Mentre le due famiglie si distruggono a vicenda, lo straniero cerca di salvare una donna innocente e la sua famiglia, dimostrando che sotto la scorza del cinismo batte ancora un cuore capace di giustizia.
Questo è il film che ha cambiato tutto, l’opera seminale che ha codificato il linguaggio del Western all’italiana e ha lanciato l’icona immortale di Clint Eastwood. Sergio Leone, ispirandosi alla struttura narrativa di La sfida del samurai (Yojimbo) di Akira Kurosawa, spoglia il genere di ogni retorica eroica fordiana per restituirci una favola nera e stilizzata. L’analisi di Per un pugno di dollari rivela una rottura epistemologica: l’eroe non agisce per ideali alti, ma per denaro, e la sua moralità è ambigua, funzionale alla sopravvivenza in un ambiente darwiniano. Leone introduce qui l’uso rivoluzionario del primo piano estremo, che cattura ogni goccia di sudore e ogni micro-espressione, alternandolo a campi lunghi che isolano i personaggi in spazi metafisici. La violenza non è più un atto rapido e indolore, ma un rituale coreografato, enfatizzato dalla colonna sonora di Ennio Morricone che, con i suoi fischi, le chitarre elettriche e le frustate, crea un’atmosfera sonora inedita e straniante. È un film essenziale non solo per la sua importanza storica, ma per la purezza cristallina della sua messa in scena, dove ogni inquadratura è studiata per massimizzare la tensione e l’impatto iconico.
Per qualche dollaro in più (1965)
Due cacciatori di taglie, il giovane e rapido “Monco” e l’anziano ed elegante Colonnello Douglas Mortimer, si trovano sulle tracce dello stesso uomo: l’Indio, uno psicopatico bandito appena evaso di prigione che sta pianificando un audace colpo alla banca di El Paso. Inizialmente rivali e diffidenti l’uno dell’altro, i due decidono di unire le forze in una società temporanea per sgominare la banda. Tuttavia, mentre il Monco è interessato solo alla taglia, il Colonnello nasconde una motivazione molto più profonda e dolorosa legata a un vecchio orologio da taschino e a un desiderio di vendetta che lo consuma da anni.
Con il secondo capitolo della Trilogia del Dollaro, Sergio Leone compie un salto di qualità straordinario, arricchendo la formula del primo film con una complessità psicologica e narrativa superiore. L’introduzione di Lee Van Cleef nel ruolo del Colonnello Mortimer crea un contrasto generazionale e stilistico perfetto con l’antieroe di Eastwood: la fredda professionalità tecnica contro l’istinto e l’astuzia. Il film introduce il tema della memoria e del trauma, incarnato dall’orologio musicale che scandisce i tempi del duello finale, trasformando la sparatoria in una resa dei conti esistenziale. Gian Maria Volonté, nel ruolo dell’Indio, offre un’interpretazione monumentale, dipingendo un villain tormentato, quasi mistico nella sua follia indotta dalla droga, che anticipa la profondità dei cattivi che popoleranno il genere. La regia di Leone diventa qui più consapevole e barocca, alternando momenti di grottesca ironia a sequenze di suspense quasi liturgica. Per qualche dollaro in più è un ingranaggio perfetto, un film dove l’economia della morte regola ogni rapporto umano e dove la vendetta assume i tratti di una cerimonia sacra.
Una pistola per Ringo (1965)
Ringo, soprannominato “Faccia d’angelo” per il suo aspetto innocente che nasconde un pistolero infallibile, viene arrestato per aver ucciso quattro uomini in legittima difesa. La sua prigionia dura poco: una banda di feroci banditi messicani, guidata dal sanguinario Sancho, assalta la banca locale e si rifugia in una hacienda, prendendo in ostaggio i proprietari e la fidanzata dello sceriffo. Le autorità, impotenti, sono costrette a chiedere aiuto a Ringo, che accetta di infiltrarsi nella banda per salvare gli ostaggi, a patto di ottenere una cospicua percentuale sul bottino recuperato.
Diretto da Duccio Tessari, questo film rappresenta l’altra anima del boom del western italiano, quella più solare, ironica e spettacolare. Mentre Leone esplorava il mito e la tragedia, Tessari iniettava nel genere una dose di leggerezza pop e di avventura picaresca. Giuliano Gemma, con il suo Ringo che beve latte e affronta il pericolo con un sorriso beffardo, crea un archetipo diverso: un eroe estroverso, atletico e sfacciato, consapevole del proprio ruolo. L’analisi del film evidenzia come Tessari giochi con i cliché del genere, decostruendoli attraverso un protagonista che sembra quasi divertirsi nel caos. Nonostante il tono apparentemente più leggero, la tensione nella hacienda assediata è costruita con maestria e la violenza non è assente, sebbene stemperata dall’ironia. Una pistola per Ringo celebra l’astuzia e l’agilità sopra la forza bruta e stabilisce Giuliano Gemma come una delle grandi star del firmamento western europeo, aprendo la strada a un filone più accessibile al grande pubblico ma non per questo meno raffinato visivamente.
Il ritorno di Ringo (1965)
Il capitano Montgomery Brown torna a casa dopo la Guerra di Secessione, solo per scoprire che la sua proprietà è stata usurpata da due fratelli banditi messicani e che sua moglie è prigioniera, costretta a promettersi in sposa a uno di loro per salvare la figlia. Dato per morto, Brown si tinge i capelli, si finge un bracciante messicano e si infiltra nella sua stessa casa per studiare i nemici e pianificare una vendetta spietata. In un crescendo di tensione, l’uomo dovrà riconquistare la sua identità e la sua famiglia attraverso il sangue.
Spesso considerato superiore al suo predecessore, questo “sequel” tematico (che condivide solo regista e attore protagonista) è un’opera molto più cupa, drammatica e tematicamente densa. Tessari e Gemma abbandonano l’ironia del primo film per abbracciare una rilettura esplicita dell’Odissea di Omero in chiave western. Il film è un trattato sul ritorno del reduce, sull’identità perduta e riconquistata con la violenza. L’atmosfera è opprimente, quasi gotica, con un uso magistrale degli interni e delle ombre che riflette lo stato d’animo tormentato del protagonista. La trasformazione di Ringo da soldato decorato a reietto camuffato permette al film di esplorare le dinamiche di potere e razzismo all’interno della società di frontiera. La colonna sonora di Ennio Morricone accompagna questo dramma familiare con toni epici e malinconici, sottolineando la gravità della missione di Brown. È un esempio perfetto di come il Western all’italiana sapesse attingere alla mitologia classica per nobilitare storie di violenza e vendetta.
Django (1966)
Un uomo solitario trascina una bara nel fango di una città fantasma, contesa tra una banda di razzisti incappucciati guidati dal Maggiore Jackson e un gruppo di rivoluzionari messicani. Django, questo il suo nome, cerca vendetta per la morte della sua amata e si trova coinvolto in una guerra senza quartiere. Nella bara nasconde una mitragliatrice, strumento di morte che userà per livellare i conti in un crescendo di violenza parossistica che culminerà in un cimitero, dove dovrà combattere con le mani spezzate.
Sergio Corbucci firma con Django il manifesto del western “sporco” e nichilista. Se i film di Leone erano opere d’arte stilizzate, Django è un pugno nello stomaco, un film che sostituisce la polvere del deserto con un fango onnipresente che inghiotte uomini e speranze. Franco Nero, con i suoi occhi di ghiaccio e l’uniforme nordista lacera, incarna un eroe gotico, quasi un fantasma che porta la morte con sé. Il film è intriso di un simbolismo macabro e di una critica politica sotterranea contro l’autoritarismo e il razzismo. La violenza raggiunge livelli di sadismo mai visti prima, come nella scena del taglio dell’orecchio, che anticipa le esplosioni splatter del cinema successivo. Django non è solo un film, è un’icona culturale che ha generato decine di imitazioni, dimostrando la potenza del mito dell’antieroe indistruttibile e dannato che deve soffrire fisicamente per ottenere la sua redenzione.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
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Il buono, il brutto, il cattivo (1966)
Tre pistoleri, un cacciatore di taglie metodico (“il Buono”), un bandito messicano grezzo e astuto (“il Brutto”) e un sicario sadico (“il Cattivo”), si mettono alla ricerca di una fortuna in oro confederato sepolta in un cimitero. Sullo sfondo della Guerra Civile Americana, i tre sono costretti a formare alleanze precarie e a tradirsi a vicenda, in un viaggio epico che li porterà attraverso campi di battaglia, monasteri e prigioni, fino al celebre triello finale nel cerchio di pietra del cimitero di Sad Hill.
Conclusione della Trilogia del Dollaro, questo film è l’apoteosi dello stile leoniano e forse il vertice assoluto del genere. Leone espande la scala della narrazione fino a raggiungere dimensioni operistiche, intrecciando la piccola storia dei tre protagonisti con la Grande Storia della Guerra Civile, vista qui come un inutile massacro privo di gloria. L’analisi del film non può prescindere dalla maestria tecnica: il montaggio ritmico, l’uso rivoluzionario del formato panoramico, l’alternanza tra dettagli microscopici e totali immensi creano un linguaggio cinematografico puro. Il film è anche una profonda riflessione sull’avidità umana e sulla moralità relativa; i termini “buono”, “brutto” e “cattivo” sono etichette ironiche, poiché ogni personaggio è mosso dallo stesso egoismo. La sequenza finale, “L’estasi dell’oro”, in cui Tuco corre freneticamente tra le tombe, è uno dei momenti più alti della storia del cinema, una fusione perfetta di musica e immagine che trascende il genere western per diventare pura emozione cinetica.
Navajo Joe (1966)
Un guerriero Navajo, unico sopravvissuto al massacro della sua tribù perpetrato da una banda di cacciatori di scalpi, giura vendetta. Joe diventa un’ombra letale che perseguita i banditi, intercettando i loro piani di rapinare un treno e attaccare una città. Utilizzando la sua astuzia, la conoscenza del territorio e una furia implacabile, Joe decima i nemici uno ad uno, non per denaro, ma per una giustizia ancestrale che non ammette pietà.
Diretto da Sergio Corbucci, Navajo Joe è uno dei film più dinamici e fisici del regista. La scelta di Burt Reynolds per il ruolo del nativo americano, sebbene oggi possa apparire controversa, si rivela efficace grazie alla performance atletica e intensa dell’attore, che conferisce al personaggio una vitalità unica. Il film è notevole per come ribalta la prospettiva tradizionale del western: qui l’indiano non è il nemico selvaggio o la vittima passiva, ma un eroe d’azione superiore ai bianchi per intelligenza e capacità bellica. L’analisi rivela l’interesse di Corbucci per le figure degli oppressi che si ribellano, un tema che svilupperà ulteriormente nei suoi Zapata western. La colonna sonora di Ennio Morricone (accreditato come Leo Nichols) è tra le più sperimentali e aggressive, con urla tribali e ritmi incalzanti che amplificano la violenza frenetica dell’azione.
Le colt cantarono la morte e fu… tempo di massacro (1966)
Tom Corbett, un cercatore d’oro, viene richiamato nella sua città natale da un messaggio misterioso. Al suo arrivo, trova la tenuta di famiglia in rovina e la città sotto il controllo dispotico del signor Scott e del suo figlio psicopatico Junior. Riunitosi con il fratello Jeff, un ubriacone disilluso ma abile con la pistola, Tom deve affrontare i fantasmi del passato e una rivelazione scioccante sulla sua vera paternità, mentre cerca di liberare la città dalla tirannia in un crescendo di violenza familiare.
Lucio Fulci, maestro del cinema di genere italiano che diventerà poi famoso per i suoi horror, firma qui uno dei western più insoliti e disturbanti. Il film si distingue per un’atmosfera quasi onirica e per un livello di sadismo che anticipa la futura carriera del regista. Franco Nero e George Hilton formano una coppia di fratelli memorabile, ma è il cattivo interpretato da Nino Castelnuovo a rubare la scena: un dandy folle, vestito di bianco, che uccide per noia e piacere, rappresentando una degenerazione morale assoluta. L’analisi del film evidenzia la capacità di Fulci di mescolare i tropi del western con elementi da tragedia greca e melodramma gotico. La violenza è fisica, dolorosa (si pensi alla scena della frusta), e il film non offre la catarsi eroica tipica, ma piuttosto una pulizia del sangue dolorosa e necessaria.
Quien sabe? (1966)
Durante la rivoluzione messicana, il bandito El Chuncho, fedele a modo suo alla causa rivoluzionaria ma dedito al banditismo, assalta un treno dell’esercito e si imbatte in Bill Tate, un giovane americano elegante e silenzioso. Tate si unisce alla banda, dimostrando un’abilità sovrannaturale con le armi e guadagnandosi il soprannome di “Niño”. Tuttavia, mentre Chuncho è combattuto tra il desiderio di ricchezza e l’ideale rivoluzionario, Tate nasconde un obiettivo preciso: è un sicario pagato dal governo americano per assassinare il generale Elías, leader spirituale della rivoluzione.
Diretto da Damiano Damiani, questo film è il capostipite del filone “Zapata Western”, ovvero quei western ambientati nella rivoluzione messicana che fungevano da allegoria per le lotte politiche contemporanee. Quien sabe? è un’opera profondamente politica e intellettuale, travestita da film d’avventura. Gian Maria Volonté offre una delle sue interpretazioni più istrioniche e potenti nel ruolo di Chuncho, incarnando l’anima contraddittoria del popolo, divisa tra egoismo e sacrificio. Il personaggio di Lou Castel, il killer americano, è una critica gelida all’interventismo statunitense: efficiente, tecnologicamente superiore, ma moralmente vuoto. Il film è un capolavoro di scrittura che analizza i meccanismi della rivoluzione e del tradimento, ponendo domande scomode sulla purezza degli ideali politici.
La resa dei conti (1966)
Jonathan Corbett, un famoso cacciatore di taglie con ambizioni politiche, viene ingaggiato da un potente magnate delle ferrovie per dare la caccia a Cuchillo, un povero peone messicano accusato di aver stuprato e ucciso una ragazzina. La caccia si trasforma in un lungo inseguimento attraverso il confine, durante il quale Corbett inizia a dubitare della colpevolezza della sua preda e a scoprire la corruzione dell’uomo che lo ha assoldato. Il confronto finale non sarà solo tra due uomini, ma tra due visioni del mondo e della giustizia.
Sergio Sollima dirige un capolavoro che decostruisce la figura del bounty killer. Se nei film di Leone il cacciatore di taglie è un eroe (o antieroe) positivo, qui Corbett (un grandioso Lee Van Cleef) rappresenta la legge e l’ordine che vengono manipolati dal potere economico. Cuchillo, interpretato da un indimenticabile Tomas Milian, è l’eroe picaresco, il sottoproletario che sopravvive grazie all’astuzia e alla velocità, usando il coltello invece della pistola. L’analisi del film rivela una struttura narrativa che ribalta i ruoli: la preda diventa la guida morale del cacciatore. La colonna sonora di Ennio Morricone, con la potente “Run, Man, Run”, sottolinea la vitalità disperata di Cuchillo. La resa dei conti è un film sull’amicizia virile che supera le barriere di classe e sulla presa di coscienza politica, girato con uno stile elegante e dinamico.
Da uomo a uomo (1967)
Bill Meceita ha dedicato la sua vita a un unico scopo: vendicare la sua famiglia, massacrata da una banda di fuorilegge quando era solo un bambino. L’unica cosa che ricorda sono i volti e alcuni dettagli dei quattro assassini. Sulla sua strada incontra Ryan, un ex detenuto esperto e cinico che ha un conto in sospeso con la stessa banda per un tradimento passato. I due formano un’alleanza instabile, il giovane guidato dalla rabbia e il vecchio dall’interesse, in un percorso che li porterà a scoprire un legame inaspettato tra il passato di Ryan e la tragedia di Bill.
Giulio Petroni firma un western di vendetta classico nella struttura ma innovativo nella messa in scena. Il film è famoso per il rapporto mentore-allievo tra John Phillip Law e Lee Van Cleef, una dinamica che esplora il passaggio di testimone nella violenza. L’analisi deve sottolineare l’aspetto quasi horror dei flashback della memoria di Bill, che tornano ossessivamente in tonalità rosse e sature, creando una dimensione psicologica del trauma raramente vista nel genere. La colonna sonora di Morricone è tra le più belle e riconoscibili, con un tema che mescola solennità liturgica e furia tribale. Da uomo a uomo è un film che riflette sulla natura circolare della vendetta e sul peso del passato, costruito con un ritmo perfetto che alterna momenti di attesa a esplosioni di azione coreografata con precisione millimetrica.
I giorni dell’ira (1967)
Scott Mary è un giovane orfano disprezzato da tutti nella città di Clifton, dove lavora come spazzino. La sua vita cambia con l’arrivo di Frank Talby, un pistolero temuto e rispettato che prende Scott sotto la sua ala protettiva. Talby insegna al ragazzo l’arte della pistola e le “lezioni” per sopravvivere nel West, trasformandolo in un killer letale. Tuttavia, mentre Scott guadagna rispetto attraverso la paura, inizia a rendersi conto che il suo mentore è diventato un tiranno spietato che sta soggiogando la città, portando inevitabilmente allo scontro tra maestro e allievo.
Tonino Valerii, che fu assistente di Leone, dirige un film che è un vero e proprio trattato sull’uso della forza e del potere. La relazione edipica tra Giuliano Gemma (Scott) e Lee Van Cleef (Talby) è il cuore pulsante della narrazione. Il film analizza il fascino del male e il pericolo dell’autoritarismo: Talby non è un semplice bandito, ma un uomo che vuole imporre il proprio ordine attraverso la violenza, e Scott deve scegliere se diventare una copia del suo maestro o trovare una propria moralità. Le “lezioni” di Talby sono diventate cult e il duello finale, girato in un’arena che ricorda la tragedia classica, è uno dei più intensi del genere, segnando la maturazione definitiva dell’eroe che deve uccidere il “padre” per diventare uomo.
Faccia a faccia (1967)
Il professor Brad Fletcher, un intellettuale della East Coast malato di tubercolosi, si trasferisce nel West per curarsi. Qui viene preso in ostaggio dal famigerato bandito Beauregard Bennet. Contro ogni previsione, Fletcher non solo sopravvive, ma rimane affascinato dalla vita selvaggia e libera del fuorilegge. Lentamente, i ruoli si invertono: il professore mite scopre in sé una propensione alla violenza e al comando che lo trasforma in un capo banda spietato e fascista, mentre il bandito Bennet riscopre una coscienza umana e un desiderio di giustizia sociale.
Sergio Sollima realizza forse il western più sociologico e inquietante del periodo. Il film è una parabola sulla natura del fascismo e sulla corruzione dell’intelletto quando viene svincolato dalla morale. La trasformazione di Gian Maria Volonté da professore umanista a dittatore sadico è agghiacciante e magistrale, contrapposta all’evoluzione inversa di Tomas Milian, che da selvaggio diventa portatore di valori umani. L’analisi del film evidenzia come il West diventi un laboratorio per studiare la natura umana in condizioni estreme. Non si tratta solo di sparatorie, ma di un confronto filosofico tra la violenza istintiva e la violenza razionalizzata e ideologica, quest’ultima mostrata come infinitamente più pericolosa. Un capolavoro che usa il genere per parlare dei totalitarismi del Novecento.
Se sei vivo spara (1967)
Django, dopo essere stato tradito dalla sua banda e lasciato per morto in una fossa comune, emerge letteralmente dalla terra per cercare vendetta. La sua ricerca lo porta in una città surreale e infernale, dominata da due fazioni folli e corrotta dall’avidità per l’oro. Qui Django si trova coinvolto in situazioni che sfidano la logica del western classico, tra torture barocche, banditi omosessuali vestiti in uniformi paramilitari e una violenza che sfocia nell’horror puro.
Diretto da Giulio Questi, questo film (noto internazionalmente come Django Kill… If You Live, Shoot!) è l’opera più allucinata, sovversiva e sperimentale del genere. Più vicino a Buñuel e al cinema gotico che a John Ford, il film di Questi è un incubo a occhi aperti. L’analisi si concentra sugli elementi surrealisti: i proiettili d’oro che vengono estratti dai cadaveri, la banda di Sorrow che rappresenta una deviazione grottesca del militarismo, e la figura di Django come un angelo sterminatore quasi sovrannaturale. Il film fu massacrato dalla censura per la sua brutalità e le sue stranezze, ma oggi è riconosciuto come un capolavoro di avanguardia pop. È una critica feroce al capitalismo, rappresentato come una fame insaziabile che porta alla letterale consumazione dei corpi.
Dio perdona… io no! (1967)
Cat Stevens e Hutch Bessy sono due pistoleri molto diversi: uno agile e astuto, l’altro imponente e forzuto. Si mettono sulle tracce di Bill San Antonio, un bandito che tutti credevano morto ma che in realtà ha inscenato la propria fine per appropriarsi di un enorme carico d’oro dopo aver massacrato i passeggeri di un treno. La caccia li porterà a confrontarsi con inganni e trappole mortali fino allo scontro finale.
Questo film di Giuseppe Colizzi è storicamente fondamentale perché segna la prima volta in cui Terence Hill e Bud Spencer recitano insieme come protagonisti in un contesto serio e drammatico. L’analisi rivela un western solido, violento e ben costruito, che funge da ponte tra il periodo leoniano e la futura deriva comica. La chimica tra i due attori è già evidente, basata sul contrasto fisico e caratteriale, ma qui è messa al servizio di una trama noir. Il cattivo, interpretato da Frank Wolff, è memorabile per la sua crudeltà teatrale. Il film è importante per capire l’evoluzione dello star system italiano: prima di diventare Trinità e Bambino, Hill e Spencer erano eroi d’azione credibili in un contesto di violenza realistica, dimostrando una versatilità spesso sottovalutata.
Il grande silenzio (1968)
Sulle montagne innevate dello Utah, un gruppo di fuorilegge affamati e disperati è perseguitato da cacciatori di taglie spietati guidati dal sadico Loco. A difesa dei perseguitati si erge Silenzio, un pistolero muto che spara solo per legittima difesa, provocando i nemici a estrarre per primi. Silenzio viene ingaggiato dalla vedova di un uomo ucciso da Loco per ottenere vendetta, ma in un mondo dove la legge protegge i killer (che incassano taglie legalmente), la giustizia morale sembra destinata a soccombere.
Sergio Corbucci ribalta le convenzioni visive del western sostituendo il deserto e il sudore con la neve e il gelo. Il grande silenzio è il western più pessimista e politico mai realizzato. Jean-Louis Trintignant, nel ruolo del protagonista muto, e Klaus Kinski, in quello del cattivo Loco, offrono prestazioni memorabili basate su sguardi e gesti. L’analisi di questo capolavoro si focalizza sulla sua critica feroce al capitalismo predatore: i cacciatori di taglie usano la legge per commettere omicidi di massa a scopo di lucro. Il finale del film è leggendario per il suo nichilismo assoluto: non c’è il trionfo dell’eroe, ma la vittoria brutale del male, una scelta che rifletteva la disillusione politica del 1968. La neve bianca che si tinge di rosso sangue rimane una delle immagini più potenti del cinema italiano.
C’era una volta il West (1968)
L’arrivo della ferrovia segna la fine del vecchio West. In questo scenario di transizione epocale si intrecciano i destini di quattro personaggi: Jill, un’ex prostituta che eredita una terra preziosa per la ferrovia; Frank, un killer gelido che lavora per il magnate dei treni e sogna di diventare un uomo d’affari; Cheyenne, un bandito romantico accusato ingiustamente; e Armonica, un misterioso pistolero che cerca Frank per vendicare un crimine del passato. I loro percorsi convergono in una danza di morte lenta e inesorabile.
Sergio Leone realizza con questo film il suo monumento funebre al genere western. Se la Trilogia del Dollaro era cinica e veloce, C’era una volta il West è lento, maestoso, quasi mitologico. L’analisi del film si concentra sulla dilatazione del tempo: la sequenza iniziale dell’attesa alla stazione è un manuale di regia sulla tensione pura. Henry Fonda, nel ruolo del cattivo Frank che uccide bambini, ribalta la sua immagine di eroe americano in modo scioccante. Claudia Cardinale porta per la prima volta una figura femminile forte e centrale in un genere dominato dagli uomini, rappresentando il futuro e la civiltà che avanza. La colonna sonora di Morricone, con i suoi leitmotiv per ogni personaggio, è considerata una delle migliori della storia del cinema. Il film è un’elegia malinconica sulla morte degli eroi e la nascita dell’America moderna, un’opera d’arte totale che trascende il cinema di genere.
Il mercenario (1968)
Sergei Kowalski, un mercenario polacco cinico e avido, arriva in Messico durante la rivoluzione e offre i suoi servizi al miglior offerente. Si allea con Paco Roman, un peone diventato generale rivoluzionario più per caso che per convinzione. Tra i due nasce un rapporto di amore-odio: il polacco insegna al messicano la strategia militare in cambio di denaro, ma Paco inizia a sviluppare una vera coscienza politica. A complicare le cose c’è Ricciolo, un rivale americano, e la bella Columba.
Sergio Corbucci continua la sua esplorazione della rivoluzione messicana con un tono più avventuroso e picaresco rispetto ai suoi film precedenti. Il mercenario è un film fondamentale per capire la dinamica della “coppia strana” (l’intellettuale tecnico europeo e il rivoluzionario istintivo sudamericano) che diventerà un topos del genere. Franco Nero e Tony Musante duettano magnificamente, mentre Jack Palance offre un villain memorabile che gira nudo o in pigiama. L’analisi del film deve sottolineare l’uso brillante della colonna sonora di Morricone e la regia che mescola azione spettacolare con momenti di riflessione politica ironica. È un film che si chiede se la rivoluzione sia possibile senza il cinismo dei professionisti della guerra, lasciando la risposta sospesa nella polvere dell’arena.
Se incontri Sartana prega per la tua morte (1968)
Sartana, un misterioso pistolero vestito come un becchino e armato di gadget quasi futuristici, si inserisce in una complessa trama di truffe assicurative, banchieri corrotti e banditi messicani. Il suo obiettivo è il denaro, e per ottenerlo manipola tutti i giocatori sul campo, apparendo e scomparendo come un fantasma e uccidendo con precisione chirurgica chiunque tenti di fermarlo.
Con questo film, Gianfranco Parolini lancia il personaggio di Sartana, interpretato dall’elegante Gianni Garko. Sartana rappresenta l’evoluzione del pistolero verso una figura quasi sovrannaturale e “bondiana”: usa carte da gioco affilate, pistole a quattro canne e trucchi di prestidigitazione. L’analisi di questo filone mostra come il western si stia spostando verso il fumetto e l’astrazione pura. La trama è volutamente intricata, un giallo ambientato nel West dove nessuno è chi dice di essere. Sartana non è un eroe tragico come Django o Silenzio; è un dandy della morte, freddo e ironico, che attraversa il caos senza mai sporcarsi il vestito. Questo film è essenziale per comprendere il lato più barocco e ludico del Spaghetti Western.
Corri uomo corri (1968)
Cuchillo, il ladro di polli e coltelli già visto in La resa dei conti, torna come protagonista assoluto. Questa volta è l’unico a conoscere il nascondiglio di un tesoro in oro destinato alla rivoluzione, affidatogli dal poeta rivoluzionario Ramirez. Inseguito da mercenari francesi, banditi americani, la sua fidanzata Dolores e persino dall’Esercito della Salvezza, Cuchillo deve correre attraverso il Messico per consegnare l’oro alla causa, scoprendo nel frattempo il valore della responsabilità.
Sergio Sollima dirige l’unico vero sequel diretto di successo del genere, elevando il personaggio di Tomas Milian a icona assoluta del proletariato terzomondista. Corri uomo corri è un inno alla libertà e all’anarchia vitale. A differenza degli altri eroi western, Cuchillo non spara quasi mai; la sua arma è la fuga, l’inganno e la velocità. L’analisi del film evidenzia come Sollima riesca a fare un film d’azione frenetico che è anche un manifesto politico: la rivoluzione non la fanno i generali o gli intellettuali, ma i poveri cristi che corrono per salvare la pelle. Il film è girato con una verve incredibile e la performance di Milian è un tour de force di fisicità ed espressività, rendendo Cuchillo uno dei personaggi più umani e amabili dell’intera epopea western.
Tepepa (1969)
Tepepa è un leader rivoluzionario peone che combatte contro il governo federale messicano. Viene salvato dalla fucilazione dal dottor Henry Price, un medico inglese. Tuttavia, il gesto di Price non è altruistico: vuole salvare Tepepa solo per poterlo uccidere personalmente, vendicando così la morte della sua fidanzata avvenuta anni prima per mano del rivoluzionario. I due sono costretti a collaborare contro il temibile Colonnello Cascorro, in un confronto continuo tra ideali politici e vendette private.
Giulio Petroni, con la sceneggiatura di Franco Solinas, realizza uno dei western più complessi e maturi. Orson Welles offre una presenza monumentale nel ruolo del Colonnello Cascorro, ma è il duello psicologico tra Tomas Milian e John Steiner a reggere il film. L’analisi di Tepepa rivela una profonda amarezza: la rivoluzione è mostrata nelle sue contraddizioni, dove l’eroe popolare può anche essere uno stupratore e il borghese illuminato un assassino. Il film non offre risposte facili, ma mette in scena la tragedia della storia. È un film “lento” e riflessivo, che usa il genere per interrogarsi sulla legittimità della violenza politica, risultando ancora oggi incredibilmente attuale.
Ehi amico… c’è Sabata. Hai chiuso! (1969)
Sabata, un pistolero vestito di nero enigmatico e infallibile, arriva a Daugherty City e sventa una rapina alla banca dell’esercito. Scopre che dietro il colpo ci sono i notabili della città, che vogliono usare i soldi per speculazioni terriere. Sabata decide di ricattarli, iniziando un gioco al gatto col topo in cui userà ogni tipo di gadget e l’aiuto di personaggi bizzarri (un banjotista e un lanciatore di coltelli) per ottenere il suo guadagno e, incidentalmente, fare giustizia.
Gianfranco Parolini crea con Sabata un altro supereroe del West, interpretato con carisma sardonico da Lee Van Cleef. Il film spinge ancora più in là l’aspetto circense e tecnologico del genere introdotto con Sartana. Sabata usa un fucile speciale a canne corte e ha una mira sovrumana. L’analisi del film deve notare come il Spaghetti Western stia diventando sempre più autoreferenziale e spettacolare: la verosimiglianza storica è completamente abbandonata a favore del puro intrattenimento cinetico. Van Cleef, dopo essere stato il “Cattivo” per Leone e il tutore della legge per Sollima, qui diventa un trickster, un imbroglione letale che domina la scena con assoluta superiorità. È un film divertente, ritmato e visivamente inventivo.
Gli specialisti (1969)
Il pistolero Hud Dixon arriva a Blackstone per indagare sul linciaggio di suo fratello, accusato di aver rapinato la banca locale. Hud scopre una città marcia fino al midollo, dove i cittadini “rispettabili” nascondono segreti inconfessabili. La sua presenza scatena il panico e Hud, indossando un giubbotto di maglia di ferro sotto i vestiti, affronta i colpevoli uno dopo l’altro in una vendetta fredda e sistematica.
Sergio Corbucci dirige Johnny Hallyday, la rockstar francese, in questo western cupo e visivamente affascinante. Gli specialisti è un film che porta all’estremo il tema dell’antieroe solitario che si scontra con l’ipocrisia della comunità borghese. L’analisi sottolinea l’estetica particolare del film: Corbucci usa colori freddi, atmosfere quasi horror e spoglia i suoi personaggi (letteralmente, in una scena di nudo integrale insolita per l’epoca). Il film è anche una critica feroce al capitalismo e alla rispettabilità di facciata. Hallyday, pur non essendo un attore di professione, porta una presenza scenica magnetica e taciturna che funziona perfettamente nell’universo corbucciano. È un film che esplora il concetto di giustizia come atto di distruzione necessario, senza offrire redenzione.
Cimitero senza croci (1969)
Dopo che il marito viene impiccato dalla potente famiglia Rogers, Maria cerca vendetta. Si rivolge a Manuel, un pistolero solitario che vive in una città fantasma e indossa sempre un guanto nero sulla mano destra. Manuel, un tempo amante di Maria, accetta di aiutarla infiltrandosi nella famiglia rivale e rapendo la figlia dei Rogers. Ne segue una tragedia shakespeariana in cui nessuno ne uscirà vincitore.
Diretto e interpretato da Robert Hossein, questo film (noto anche come Une corde, un Colt) è uno dei western più malinconici e minimalisti mai realizzati. Dedicato a Sergio Leone, che diresse una scena del film come favore personale, si distingue per il suo ritmo lento e la sua atmosfera desolata. L’analisi di Cimitero senza croci evidenzia l’approccio europeo e esistenzialista di Hossein: i dialoghi sono ridotti all’osso, sostituiti da sguardi e silenzi carichi di significato. La violenza non è glorificata ma mostrata nella sua insensatezza dolorosa. Michèle Mercier, nel ruolo di Maria, offre una performance di dolore pietrificato. È un film di vendetta che nega la soddisfazione della vendetta stessa, lasciando lo spettatore con un senso di vuoto e tristezza infinita, sottolineato dalla splendida canzone di Scott Walker.
Vamos a matar, compañeros (1970)
Il “Basco”, un peone messicano ignorante ma ambizioso, e Yodlaf Peterson, un mercenario svedese elegante e armato fino ai denti, sono costretti ad allearsi per liberare il Professor Xantos, un leader pacifista che è l’unico a conoscere la combinazione di una cassaforte piena d’oro. Inseguiti dal sadico John l’Americano (che ha una mano di legno e un falco domestico), i due attraversano la rivoluzione messicana tra sparatorie e litigi continui.
Sergio Corbucci riprende la formula de Il mercenario e la perfeziona, creando uno dei film più divertenti e ritmati del genere. Franco Nero e Tomas Milian hanno una chimica perfetta, e Jack Palance nel ruolo del cattivo fumettistico è straordinario. L’analisi del film mostra come Corbucci riesca a bilanciare la commedia buddy-movie con la violenza politica. La pellicola è una riflessione cinica sugli ideali: il professore pacifista è impotente senza le armi del mercenario e la furia del popolo. La colonna sonora di Ennio Morricone è vivace e indimenticabile. Compañeros rappresenta l’apice del western rivoluzionario avventuroso, dove l’azione è incessante e il sottotesto politico è presente ma non appesantisce lo spettacolo.
Lo chiamavano Trinità… (1970)
Trinità, un pistolero pigro e trasandato che viaggia su una slitta trainata dal cavallo, arriva in una città dove suo fratello Bambino si finge sceriffo in attesa di compiere un colpo. Trinità decide di aiutare una comunità di mormoni pacifisti minacciata dal Maggiore Harriman, costringendo il riluttante fratello a unirsi a lui. Invece di sparatorie mortali, i conflitti si risolvono spesso a suon di sganassoni e astuzie.
Enzo Barboni dirige il film che cambia per sempre la storia del genere, inventando il “Fagioli Western”. L’analisi di questo fenomeno è cruciale: dopo anni di violenza e cinismo, il pubblico era pronto per la parodia. Terence Hill e Bud Spencer codificano qui le loro maschere definitive. Il film demitizza il western non attraverso la crudeltà, ma attraverso la risata e la sporcizia “innocua”. Trinità è un antieroe che non vuole uccidere, vuole solo mangiare fagioli e dormire. Nonostante il tono comico, la regia è solida e le scazzottate sono coreografate come balletti. Il successo fu planetario e segnò l’inizio della fine per il western serio, aprendo la strada a un decennio di commedie d’azione.
Giù la testa (1971)
Juan Miranda, un bandito messicano padre di una numerosa famiglia, incontra John Mallory, un rivoluzionario irlandese esperto di esplosivi fuggito in Messico. Juan sogna di rapinare la banca di Mesa Verde e vede in John la chiave per entrare nel caveau. Tuttavia, John lo trascina, suo malgrado, nel cuore della rivoluzione messicana, trasformando il bandito in un eroe riluttante in un contesto di massacri e tradimenti.
L’ultimo vero western di Sergio Leone è un’opera matura, disillusa e politicamente densa. Il titolo originale suggerisce l’inevitabilità di abbassare il capo di fronte alla violenza della storia. Rod Steiger e James Coburn offrono interpretazioni intense di due uomini schiacciati da forze più grandi di loro. L’analisi si concentra sulla citazione di Mao che apre il film: “La rivoluzione non è un pranzo di gala”. Leone mostra la rivoluzione non come un ideale romantico, ma come confusione, morte ed esecuzioni di massa. La musica di Morricone, con il refrain “Sean-Sean”, è struggente. È il film più emozionale di Leone, che chiude il discorso iniziato con la Trilogia del Dollaro: l’oro non conta più, conta solo l’amicizia e la sopravvivenza in un mondo che cambia troppo in fretta.
Il mio nome è Nessuno (1973)
Jack Beauregard è un vecchio pistolero leggendario che vuole solo ritirarsi in Europa e vivere in pace. Sulla sua strada incontra “Nessuno”, un giovane vagabondo eccentrico e velocissimo con la pistola, che idolatra Jack. Nessuno ha un solo obiettivo: far sì che il suo eroe esca di scena con un’impresa memorabile, affrontando da solo il “Mucchio Selvaggio”, una banda di 150 cavalieri. È lo scontro generazionale tra il vecchio West mitico e il nuovo West picaresco e beffardo.
Tonino Valerii dirige, su idea e con la supervisione di Sergio Leone, il film che sancisce metaforicamente la morte del Spaghetti Western classico. Henry Fonda e Terence Hill incarnano le due anime del genere che si incontrano e si scontrano. L’analisi del film è fondamentale: è un’opera postmoderna che riflette sul cinema stesso. La scena del duello contro il Mucchio Selvaggio, con la musica di Morricone che cita la Cavalcata delle Valchirie, è pura poesia visiva, un mix di epica e ironia. Nessuno non vuole uccidere Beauregard, vuole trasformarlo in una leggenda eterna per poter prendere il suo posto in un mondo che però è diventato un circo. È un addio commovente e divertente a un’era cinematografica.
I quattro dell’apocalisse (1975)
Quattro disperati – un baro, una prostituta incinta, un ubriacone e un folle che parla con i morti – sopravvivono a un massacro in una città e intraprendono un viaggio allucinante attraverso il deserto dello Utah. Lungo la strada, vengono perseguitati da Chaco, un bandito sadico che li tortura psicologicamente e fisicamente. Il viaggio diventa una discesa all’inferno dove la sopravvivenza richiede il sacrificio di ogni umanità residua.
Lucio Fulci torna al western con un film crepuscolare e crudele, intriso di una malinconia disperata. I quattro dell’apocalisse è un road movie della sofferenza, dove i protagonisti sono antieroi non per scelta ma per sfortuna. L’analisi del film deve notare la brutalità esplicita (la scena dello scorticamento, lo stupro) che riflette l’evoluzione del cinema di genere verso l’exploitation degli anni Settanta. Tuttavia, Fulci riesce a inserire momenti di tenerezza inaspettata, specialmente nel rapporto tra il baro Stubby (Fabio Testi) e la prostituta Bunny (Lynne Frederick). La colonna sonora pop-folk aggiunge un tocco straniante. È un film che mostra la fine del sogno della frontiera, ridotta a un deserto di dolore dove non c’è posto per la gloria, solo per la morte.
Keoma (1976)
Keoma, un mezzosangue indiano ed ex soldato nordista, torna al suo villaggio dopo la guerra civile e lo trova devastato dalla peste e sotto il controllo del crudele Caldwell, che impedisce l’arrivo di medicinali. Keoma si ritrova anche a dover combattere contro i suoi tre fratellastri bianchi che lo hanno sempre odiato. In un’atmosfera apocalittica e allucinata, Keoma combatte per la sua sopravvivenza e per quella di una donna incinta, simbolo di una speranza fragile.
Diretto da Enzo G. Castellari, Keoma è considerato l’ultimo grande capolavoro del Spaghetti Western. Realizzato quando il genere era ormai commercialmente morto, è un film di una bellezza visiva straordinaria e dolente. Franco Nero, con capelli lunghi e barba, interpreta un eroe mistico, quasi cristologico. L’analisi sottolinea l’uso rivoluzionario della macchina da presa (ralenti, inquadrature virtuosistiche) e la colonna sonora dei fratelli De Angelis, con voci femminili che commentano l’azione come un coro greco. Il film tratta temi come il razzismo, l’emarginazione e la fine del mondo. Non c’è l’ironia di Trinità né l’epica di Leone; c’è solo la poesia della fine. Keoma è il canto del cigno del genere, un urlo di libertà visiva che chiude un cerchio aperto dodici anni prima da un pugno di dollari.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
In questo video ti spiego la nostra visione

