Introduzione
Francois Truffaut è nato a Parigi il 6 febbraio 1932. È stato uno dei registi più influenti del cinema francese. All’attività di regista ha affiancato quella di critico cinematografico, nella redazione dei Cahier du Cinema. Spesso è stato anche sceneggiatore, produttore e attore dei suoi film e di film di altri registi.
Francois Truffaut e la Nouvelle Vague
L’attività di Francois Truffaut nel cinema copre circa 30 anni, dagli anni 50 agli anni 80, e si affianca a quella di altri amici-filmakers del cinema francese come Jean-Luc Godard, Claude Chabrol, Éric Rohmer e Jacques Rivette.
Questo gruppo di giovani, sotto la guida del critico André Bazin, ha creato il più importante movimento cinematografico della storia del cinema, La Nouvelle Vague, la nuova onda francese che creò nuove onde in altre parti del mondo.
Tra questi paesi ci sono anche gli Stati Uniti d’America e il movimento della nuova Hollywood. Scorsese, Coppola, De Palma e altri registi americani che sarebbero diventati famosissimi iniziano i loro primi passi ispirandosi alla Nouvelle Vague francese.
In tutto questo Truffaut riveste il ruolo d’onore: è suo il film che ha fatto conoscere il nuovo cinema francese indipendente in tutto il mondo. Si tratta de I 400 colpi che riscuote un grandissimo successo al Festival di Cannes del 1959.
Da quel momento le cose cambiano radicalmente per il cinema commerciale. I produttori, sempre pronti a seguire le mode con cui fare soldi, vanno in cerca di nuovi registi di film d’essai.
Truffaut rispecchia a pieno la migliore tradizione del cinema francese d’essai. Regista rigoroso ed emotivo nello stesso tempo, come critico cinematografico non esitava a stroncare i film commerciali che uscivano in quegli anni, proposti dai media e delle case di produzione come film artistici di qualità. Lo chiamavano il becchino del cinema.
La vita di Francois Truffaut
Infanzia
Figlio di Jeanine de Monferrand, una ragazza madre che lo aveva concepito a 18 anni, Francois Truffaut è cresciuto a Parigi, con una situazione familiare conflittuale che lo ha segnato per tutta la vita. Jeanine non desiderava affatto un figlio ed aveva tentato di abortire. A causa di ciò la famiglia l’aveva mandata in una specie di collegio per peccatrici.
La donna fu costretta ad avere il figlio e poi trovò lavoro come segretaria in una redazione. Lì conobbe il futuro marito, Roland Truffaut, un architetto. Jeanine ed era spesso intollerante e scontrosa con Francois, gli impediva di muoversi e di fare qualunque tipo di rumore. L’unica attività che Francois poteva fare senza disturbarla era leggere.
La passione per la lettura gli fu trasmessa dalla nonna, che si cimentava anche con la scrittura ed aveva scritto un libro contro il bigottismo. Francois fu cresciuto da lei e continuava a passare con la nonna lunghi periodi anche da adolescente. La nonna era una donna acculturata, controcorrente, completamente diversa dalla madre, che gli fece conoscere i classici della letteratura francese.
Truffaut adolescente
La figura di una madre distratta, irascibile, spesso occupata a frequentare i suoi amanti fuori casa, emerge in maniera chiara nel primo film di Francois Truffaut, I Quattrocento colpi, e torna in alcuni film successivi. Truffaut non saprà per molti anni che il suo vero padre biologico non è Roland. Inizierà le ricerche solo molti anni dopo mentre sta girando il film Baci rubati, assumendo un investigatore privato.
La matrice autobiografica del cinema di Truffaut, in cui la sua vita si specchia, si conferma anche in questo periodo, dove il personaggio dell’investigatore privato compare diverse volte nei suoi film. Scoprirà che il suo vero padre è Roland Lévy, un dentista di una piccola città di provincia francese, ma deciderà di non entrare in contatto con lui.
Nel periodo della scuola Francois Truffaut è un ragazzino ribelle, insofferente alle regole scolastiche. Le fughe dalla scuola per scoprire Parigi sono descritte in modo mirabile e poetico ne I 400 colpi. Passa da una scuola all’altra senza riuscire ad integrarsi in nessun contesto. A casa vive una situazione di disagio dove i genitori litigano continuamente.
Per fortuna conosce Robert Lachenay, un ragazzino con cui condivide le stesse passioni e gli stessi problemi, con cui condivide avventure, furti e pomeriggi al cinema. A causa di alcuni furti e della sua condotta scolastica viene mandato in un collegio da cui riesce a fuggire poco prima della fine della guerra trovando un lavoro come magazziniere.
Truffaut scopre il cinema
Da quando vede il film di Abel Gance Paradiso Perduto Francois Truffaut si appassiona al cinema e fonda un cineclub vicino a quello del critico cinematografico Andre Bazin. André Bazin decide di andare a conoscere il suo concorrente ragazzino. Il padre però lo ritrova e lo consegna alla polizia che lo manda in un riformatorio. Andre Bazin lo aiuta ad uscire fuori dall’istituto. Truffaut trova lavoro come manovale e si innamora di una ragazza che non ricambia il suo sentimento.
Disperato per la delusione amorosa si arruola per la guerra in Indocina. Presto però la vita militare gli diventa insopportabile: diserta e si rende nuovamente colpevole di un reato. Bazin lo aiuta di nuovo consigliandogli come uscire dai guai, facendogli da tutore e da figura paterna. Lo fa conoscere ad alcune redazioni giornalistiche che si occupano di cinema, con cui Francois inizia a collaborare.
Gli trova lavoro presso il Ministero dell’Agricoltura francese e lo ospita a casa sua, a Bry-sur-Marne. Poi lo assume come critico cinematografico nella redazione dei Cahiers du cinema, rivista creata da poco. Nella redazione conosce altri giovani critici cinematografici, futuri registi: Claude Chabrol, Jacques Rivette, Jacques Demy, Éric Rohmer, Jean-Luc Godard.
Le Cahiers du cinema
Nel 1953 scrive il famoso articolo Una certa tendenza del film francese, una critica spietata ai film che uscivano In quell’epoca in Francia, affermando apertamente quel che molti registi pensano in silenzio. Storicamente si fa coincidere la pubblicazione dell’articolo di Truffaut con l’inizio del movimento della Nouvelle Vague. L’anno seguente realizza il suo primo film, il cortometraggio Une visite, e scrive la sceneggiatura di Fino all’ultimo respiro (A bout de souffle) di Jean-Luc Godard.
Si dedica alla scrittura di racconti sulla rivista Le parisien. Nel cinema fa pratica come assistente alla regia di Roberto Rossellini. Intanto prosegue la sua attività giornalistica intervistando Alfred Hitchcock. Dopo aver trovato per caso su una bancarella il romanzo Jules e Jim diventa grande amico del suo autore, Henri-Pierre Roché. Successivamente realizzerà due film delle sue opere letterarie.
I film di Francois Truffaut
Nel 1957 fonda la sua casa di produzione Les films du carrosse. Il nome è un omaggio al film di Jean Renoir la carrozza d’oro. Gira un altro cortometraggio malinconico e poetico ispirato le sue vicissitudini sentimentali: La visita (Les mistons).
Si sposa con Madeleine, hanno due figli, ma il matrimonio dura solo qualche anno. In effetti Truffaut si rivelerà un vero e proprio seduttore compulsivo che passa da un colpo di fulmine all’altro, innamorandosi praticamente di tutte le sue attrici.
I 400 colpi
Nel 1959 gira il suo primo lungometraggio I 400 colpi grande successo al Festival di Cannes. È il film che insieme ad A bout de souffle di Jean-Luc Godard rende famosa la Nouvelle Vague francese in tutto il mondo.
Si tratta di un film quasi totalmente autobiografico dove Truffaut racconta la sua adolescenza difficile e turbolenta a Parigi. La piccola casa dove il protagonista Antoine Doinel dorme nel corridoio dell’ingresso, il rapporto difficile con la madre che sorprende casualmente per strada con uno dei suoi amanti, i furti, la ricerca di una libertà che sembra impossibile, l’esperienza al riformatorio.
I 400 colpi è un film profondamente autentico e commovente dove Francois Truffaut si mette completamente a nudo. A interpretare il suo alter ego Antoine Doinel chiama un ragazzino di 13 anni Jean Pierre Leaud, trovato casualmente con un annuncio per il provino del film su France Soir.
Jean-Pierre è nella vita molto simile al protagonista del film: un ragazzino insofferente e ribelle alle regole di una società che non riesce a capire. Non c’è molta distanza tra il personaggio di Antoine Doinel e l’aspirante piccolo attore che lo interpreterà.
È l’inizio di una lunga collaborazione che durerà molti film, il cosiddetto ciclo di film di Antoine Doinel. Truffaut inventa questo personaggio ragazzino e lo segue nella sua crescita fino alla maturità, utilizzandolo come specchio cinematografico delle sue esperienze di vita. Ad interpretare Antoine Doinel nel corso del tempo sarà sempre Jean Pierre Leaud.
Jules è Jim
Grazie al successo del suo primo film Francois Truffaut si può permettere anche di fare il produttore, finanziando Le riprese de Il testamento di Orfeo, dello scrittore e poeta Jean Cocteau. La popolarità del regista aumenta nel 1965 con il film Jules e Jim. Nel 1968 invita a nozze Claude Jade protagonista femminile del suo film Baci rubati, uno dei film che continua la saga sul personaggio di Antoine Doinel.
Ma Truffaut non si presenta alla celebrazione del matrimonio e preferisce dedicarsi all’attivismo politico in favore del maggio francese. Il regista è l’attrice rimarranno comunque amici e gireranno nuovi film insieme.
Francois Truffaut sembra l’immagine riflessa nella vita reale del protagonista del suo film L’uomo che amava le donne. Si innamora di quasi tutte le protagoniste femminili dei suoi film. L’ultima della lunga serie e Fanny Ardant, protagonista all’inizio degli anni 80 di Finalmente domenica e La signora della porta accanto.
Truffaut è attore in ruoli secondari nei suoi film Adele H – una storia d’amore, L’uomo che amava le donne, mentre è protagonista nei suoi film Il ragazzo selvaggio, Effetto notte, La camera verde.
Francois Truffaut intervista Hitchcock
Truffaut era un grande estimatore del cinema di Alfred Hitchcock In quell’epoca considerato solo intrattenimento. Ha avuto il merito insieme ad altri suoi colleghi dei Cahier du Cinema come Claude Chabrol di rivalutare l’opera del maestro del thriller, fino a farlo considerare un regista di film d’essai.
Nel corso degli anni Truffaut ha intervistato molte volte Hitchcock. Una serie di interviste che partono dalla tecnica cinematografica per svelare l’interessante e complessa personalità del regista americano. Il frutto di questa serie di interviste e il libro Il cinema secondo Hitchcock.
L’amore fugge
Dopo sette anni Antoine e Christine divorziano, pur rimanendo buoni amici. Antoine ha una relazione con Liliane, amica di Christine, ha pubblicato un’autobiografia che parla dei suoi amori e trova lavoro come correttore di bozze ed inizia anche un’allegra, anche se tumultuosa relazione, con Sabine, commessa in un negozio di dischi.
Con L’amore fugge, Truffaut conclude un progetto unico nella storia del cinema. Gira cinque film nel corso di vent’anni seguendo la crescita di un unico personaggio, Antoine Doinel, sempre interpretato dallo stesso attore Jean-Pierre Léaud. L’amore fugge è l’ultimo film del ciclo, il film che fa il bilancio di tutte le avventure precedenti.
Guarda L’amore fugge
Le riflessioni di Truffaut sul cinema
Ecco alcune interessanti riflessioni del regista sul cinema e gli aspetti tecnici e artistici del suo lavoro, più misteriosi legami che si creano tra cinema e vita di un regista. Pensieri e idee molto preziose, sia per chi si occupa di cinema sia per chi lo guarda come spettatore.
“Esiste, nell’idea stessa dello spettacolo cinematografico, una promessa di piacere, un’idea di esaltazione che contraddice il movimento della vita, cioè la china discendente: degradazione, invecchiamento e morte.
Riassumo e semplifico: lo spettacolo è una cosa che cresce, la vita qualcosa che discende e, se si accetta questa visione delle cose, si dirà che lo spettacolo, contrariamente al giornalismo, compie una missione di menzogna, ma che i più grandi uomini di spettacolo sono quelli che riescono a non cadere nella menzogna e che fanno accettare al pubblico la loro verità, senza tuttavia urtare la legge fondamentale dello spettacolo.
Questi fanno accettare la loro verità e anche la loro follia, perché non bisogna dimenticare che un artista deve imporre la propria follia particolare a un pubblico meno folle di lui o la cui follia è diversa. “
Il cinema come arte della prosa
“Per me, il cinema è un’arte della prosa. Definitivamente. Si tratta di filmare della bellezza senza averne l’aria. A questo tengo enormemente, ed è per questo che non posso abboccare all’amo di Antonioni, troppo indecente. La poesia mi esaspera, e quando qualcuno mi manda poesie nelle lettere, le cestino immediatamente.
Amo la prosa poetica, Cocteau, Audiberti, Genêt e Queneau, ma solamente la prosa. Amo il cinema perché è prosaico, è un’arte indiretta, inconfessata, nasconde nel momento stesso in cui mostra. I cineasti che amo hanno tutti in comune un pudore che li rende simili almeno su questo punto.
Buñuel che rifiuta di girare due volte la stessa inquadratura, Welles che accorcia le inquadrature “belle” fino a renderle illeggibili, Bergman e Godard che lavorano a tutta velocità per non dare importanza a quello che fanno, Rohmer che imita il documentario, Hitchcock talmente emotivo da far sembrare di pensare solo ai soldi, Renoir che finge di affidarsi al caso, tutti istintivamente rifiutano l’atteggiamento poetico.”
“Non so se sono reazionario, ma non sono d’accordo con la tendenza critica che consiste nel dire: «Dopo il tale film, non sopporteremo più di vedere delle storie ben legate, ecc.». Pur amando film tanto nuovi come Due o tre cose che so di lei, Barriera, L’uomo non è un uccello e altri, io credo che se Lo splendore degli Amberson, La carrozza d’oro o Il fiume rosso arrivassero ora, nel ’67, sarebbero i migliori film dell’anno.
Dunque, sono deciso a continuare lo stesso cinema che consiste sia nel raccontare una storia, sia nel far finta di raccontare una storia, è la stessa cosa. In fondo, non sono moderno, e se facessi finta di esserlo, sarebbe artificioso. In ogni caso, non ne sarei contento, il che è una ragione sufficiente per non farlo.”
I film e il pubblico
“Lo spettacolo, il linguaggio, i miei film sono spettacoli da circo, questo voglio che siano. Non mostrerei mai due elefanti che recitano dall’inizio alla fine. Dopo gli elefanti viene il prestigiatore; dopo il prestigiatore, l’orso. Predispongo anche un intervallo verso il sesto rullo perché può capitare che la gente sia un po’ stanca. Al settimo rullo riprendo in mano la situazione e cerco di concludere con le cose migliori dello spettacolo.
Credo che sia necessario pensare al pubblico. Non credo più a quell’idea che un tempo mi seduceva – fu Otto Preminger a dirmelo in un’intervista e anche altri cineasti lo dicono – secondo cui non c’è alcun problema con il pubblico: «Se una cosa mi piace, so che piacerà al pubblico». Non è vero, è più complicato di così e, al momento, la penso in maniera opposta.
Credo che un’idea che piace a un artista, per definizione, debba spiacere al pubblico. Perché? Perché l’artista è qualcuno al di fuori della società, e si indirizza alla società. Allora, si tratta di imporre alla gente la propria originalità, e non di andare verso la loro banalità; sì, bisogna ben dire le cose come stanno.
Attualmente, credo molto al lavoro che consiste nell’imporre la propria originalità. È un lavoro di persuasione e l’impresa diviene una partita con la gente. Avverto questa cosa ogni volta che vedo uno dei miei film in pubblico. Sento che tale idea scandalizza e che quella dopo passa, che la successiva scandalizza, ecc. “
Creare emozioni con le immagini
“Amo molto questo aspetto, malgrado tutto ciò che può apparire antipatico, cioè il calcolo, eventualmente l’astuzia, mi sembra che ciò faccia parte del nostro lavoro.
Bisogna sapere ciò che si vuole ottenere e, soprattutto, non volere ottenere che una cosa sola alla volta. Si tratta di creare emozioni. Allora, davanti a ciascuna inquadratura, fermiamoci per riflettere: come creare questa emozione? Tutto ciò che entra nel film, nella scena o nell’inquadratura, e che non risponde a questa domanda, diventa un elemento parassitario che bisogna rifiutare.
Noi lavoriamo in un ambito che è insieme letterario, musicale, e plastico; bisogna senza sosta semplificare fino all’estremo. Il film è un battello che domanda solo di affondare, non è mai una cosa che cresce e progredisce; vi assicuro che è qualcosa che va a fondo e che si degrada inesorabilmente. Se non si tiene conto di questa legge, si è fritti. “
Il pubblico non cinefilo
“L’altro giorno ho rivisto Intrigo internazionale e mezz’ora prima della fine ho sentito un tale dietro di me dire al suo vicino: «Non è male come film»; è una frase straordinaria perché è rivelatrice della mentalità degli spettatori occasionali, non cinefili; un film non è che della gelatina dopo tutto! Quel tale era uno spettatore difficile, scettico e diceva: «Non è male come film» e io sono stato contento per Hitchcock.
Questo film, Intrigo internazionale, dura due ore, la metà dei piani è truccata in laboratorio o in fase di ripresa, ci sono dei mascherini, delle virtuosità strabilianti, un amore del mestiere e una scienza straordinari. È un film completamente personale, intimo, le ossessioni di Hitchcock, le sue ricerche, ma quel buon uomo, che era entrato là per caso, era obbligato a seguire, era stato conquistato.
È una bella cosa. Per me, è questo il cinema. Io credo a questa specie di match. Si hanno immense responsabilità. Credo anche che si entri al cinema per caso e che non debbano esserci più categorie di spettatori; che lo spettatore avvertito, quello che vede cento film all’anno, il cinefilo trovi più cose di colui che va al cinema una volta all’anno, è normale, ma il film deve presentarsi esteriormente nello stesso modo per tutti e due.”
Inizia a guardare i film con una prova gratuita
Hitchcock e Renoir: idee di cinema diverse
Ammiro in Hitchcock le risposte alla domanda: come farsi comprendere? Mi piace questo modo di moltiplicare gli avvenimenti, di spezzettare le difficoltà al fine di risolverle una per una, questa stilizzazione estrema dell’immagine. C’è una cosa sola da mostrare, dunque occorre togliere tutto ciò che dà fastidio intorno.
Sovente il lavoro di Hitchcock contraddice Renoir ma io aspiro ad una forma che sarà la sintesi dei due. Nel corso di una scena, Renoir sacrifica tutto alla comodità degli attori. Ebbene, pensa Renoir, se gli attori sono più contenti d’essere seduti sulla scala, li si farà sedere sulla scala, se hanno voglia di mangiare una mela, gli si darà una mela e questa comodità che egli favorisce è una comodità del momento, è una comodità di tutto lo spazio attorno alla macchina da presa, e dinanzi c’è una messa in condizione, bisogna che gli attori si sentano a loro agio per interpretare la scena con il massimo di realtà.
Alfred Hitchcock
Hitchcock è il contrario. Vogliamo conservare sullo schermo questa porzione di spazio ben delimitata, abbiamo attorno a noi 140 tecnici, una scala, tre finestre, una gru, dei proiettori, ma il pubblico non vedrà che la porzione di immagine di cui, io, Hitchcock, ho bisogno per integrarla nella successione delle inquadrature.
Perché questa porzione di immagine abbia il massimo di efficacia, occorre forse che l’interprete maschile sia accoccolato su di uno sgabello e bisogna che la ragazza che egli abbraccia sia sospesa per i piedi a un argano collegato al soffitto dello studio, o non so che altro… Non sono contenti?
Hitchcock non vuole neppure saperlo. Ciò che conta è ciò che ci sarà sull’immagine. L’effetto visivo da ottenere – sovente anzitutto disegnato su carta – sarà ottenuto costi quel che costi. Ecco un cinema che è evidentemente il contrario di quello di Renoir; è un cinema più logico di quello di Renoir perché effettivamente ciò che gli spettatori vedranno in sala, è appunto solo questo piccolo rettangolo e questo piccolo spazio selezionato che sono l’oggetto di tante cure da parte di Hitchcock, che, a dispetto di una irrealtà totale in fase di ripresa, perviene al massimo di efficacia, al massimo di effetto sull’intera sala, nel mondo intero, nello stesso tempo.
Trovo formidabile in Hitchcock questo coraggio, perché ci vuole del coraggio per fare cose irreali durante le riprese… È formidabile sapere a quel punto: a) ciò che si vuole ottenere, b) come ottenerlo, che si ha ragione e tener duro. E ciò vale per tutto.”
Jean Renoir
Renoir è la prova che si può fare tutto al cinema a condizione di abbordare le cose con franchezza e semplicità. Si dice di lui che è un cineasta familiare, ma ha fatto anche cose molto liriche, molto deliranti che gli sono riuscite grazie al suo spirito di semplicità, alla sua umiltà. Conosco a memoria tutti i film di Renoir e intuisco sempre come e perché egli ha fatto le cose.
Quando ho delle difficoltà nei miei film, le risolvo pensando a lui. Mi è capitato sovente di aiutare gli attori a trovare il tono giusto per una scena riflettendo alla maniera in cui Renoir l’avrebbe fatta interpretare.
Ho un’idea, se volete, che è interessante come tutte le idee, un poco folle anche, come tutte le idee troppo teoriche, e cioè che c’è una riconciliazione possibile tra Renoir e Hitchcock, tra l’estremo del cinema di personaggi che è Renoir, e l’estremo del cinema di situazioni che è Hitchcock.
Da entrambe le parti ci sono degli inconvenienti; credo che in Hitchcock questi vadano cercati sul versante del realismo, dell’umanità; e in Renoir, nella debolezza di certe situazioni. Io credo a una mescolanza.”
La Nouvelle Vague
Credo ci siano due tipi di cinema, uno che discende da Lumière e l’altro da Delluc. Lumière inventò il cinema per filmare la natura o un’azione. Delluc, che era scrittore e critico, pensò che si poteva usare questa invenzione per filmare idee, o azioni, che avessero un significato diverso da quello ovvio, e così, eventualmente, per avvicinarsi maggiormente alle altre arti.
Il risultato è che abbiamo Griffith, Chaplin, Stroheim, Flaherty, Gance, Vigo, Renoir, Rossellini (e più vicino a noi Godard) nel campo Lumière; e Epstein, L’Herbier, Feyder, Grémillon, Huston, Bardem, Astruc, Antonioni (e più vicino a noi Resnais) nel campo Delluc. Per il primo gruppo il cinema è essenzialmente uno spettacolo, per il secondo è un linguaggio. I critici, sia detto per inciso, hanno sempre maggiore simpatia per il gruppo Delluc, e si capisce visto che Louis Delluc è il loro patrono.
Sto cercando di dire che il primo gruppo fa film con una sorta di spontanea o ricreata innocenza – treni che arrivano in stazione, bambini che mangiano, l’innaffiatore innaffiato – mentre il secondo si occupa, più deliberatamente e intellettualmente, di conflitti morali, di personaggi che non guardano a noi mentre parlano. Sto semplificando, naturalmente, ma non troppo.
Questa distinzione è divenuta meno vera dall’apparizione della Nouvelle Vague, perché persone come Agnès Varda, Doniol-Valcroze, Chabrol stanno facendo una sorta di doppio gioco: Lumière-Delluc.
Ma la Nouvelle Vague è stata così criticata per il suo aspetto eccessivamente letterario che penso sia giusto distinguere due grandi tendenze al suo interno: a) la tendenza Sagan: cerca di essere maggiormente esplicita sulle questioni attinenti il sesso e l’amore; predilige ritratti di artisti o intellettuali; personaggi colti, benestanti e apparentemente privi di cordialità. Qualche titolo: I cugini (Chabrol), La Proie pour l’ombre (Astruc), La récréation (Moreuil), Les mauvais coups (Leterrier), Les grandes personnes (Valère), Ce soir ou jamais (Deville).
b) La tendenza Queneau: cerca di esplorare un vocabolario quotidiano; predilige gli incontri inattesi e comici tra persone che generalmente appartengono alla classe lavoratrice o che ne sono di poco fuori; ha il gusto per i generi mescolati e per i mutamenti di tono; una sorta di tenerezza “rosa e nera”. Qualche titolo: Zazie nel metro (Malle), Un couple (Mocky) (naturalmente!), ma anche Le donne facili (Chabrol), Tirate sul pianista (Truffaut), Lola (Demy), La donna è donna (Godard), Desideri nel sole (Rozier).”
“Il punto di partenza Credo che il punto di partenza sia ogni volta diverso. Io ragiono in rapporto al cinema e credo che il punto in comune tra i miei diversi film sia il risultato delle riflessioni su altri film esistenti e anche su quelli che ho girato io.”
La sceneggiatura
“È più facile per me scrivere una sceneggiatura originale, a meno che non abbia sul tema scelto una serie di idee sufficienti in testa, ma incontro meno difficoltà inventando una sceneggiatura che adattando un libro. In fase di ripresa, è esattamente il contrario. Diciamo, non si incontrano le medesime difficoltà. D’altro canto, non potrei girare esclusivamente sceneggiature originali, perché sono troppo realista.
Mi sono reso conto che non posso inventare nulla di violento, perché non ne ho il coraggio. Non oso introdurre nel film un revolver, un fucile, non oso immaginare un suicidio, una morte. Così resto al quotidiano se scrivo una sceneggiatura da solo o con un amico. Tuttavia queste cose eccezionali, amo vederle nei film e mi piace filmarle se le ho già trovate scritte.
È un po’ quel che è avvenuto con Jules e Jim. Scene come quella della macchina che cade nell’acqua, alla fine, o anche il crematorio non avrei mai osato inventarle da solo.”
La messa in scena
“Che cos’è esattamente la messa in scena? È l’insieme delle decisioni prese nel corso della preparazione, della ripresa e dell’edizione di un film. Credo che tutte le scelte che si offrono a un regista (scelta del soggetto, delle ellissi, dei luoghi, degli attori, dei collaboratori, delle angolazioni, degli obiettivi, delle riprese da fare, dei rumori, della musica) lo conducono a decidere, e ciò che si chiama regia è evidentemente la direzione comune verso cui tendono le migliaia di decisioni prese durante questi sei, nove, dodici o sedici mesi di lavoro.
Per questo i registi “parziali”, coloro che si occupano di una tappa sola, anche se ricchi di talento, mi interessano meno di Bergman, Buñuel, Hitchcock, Welles che sono totalmente nei loro film.”
Le riprese
“Terminata una sceneggiatura, Jean-Louis Richard e io, abbiamo sempre l’impressione che sia molto chiara, logica e priva di ambiguità. Poi durante le riprese si insinua nel lavoro un non so che di sovversivo, già nella scelta degli attori… Intuisco che le riprese non sono per forza la continuazione della scrittura. Girando non desidero più scuotere il pubblico, né dominarlo, né metterlo con le spalle al muro, non provo più il desiderio imperioso di essere efficace.
È un fatto curioso e irresistibile. Non dimentichiamo che in quaranta film, Renoir non ha mai potuto filmare qualcuno che fosse odioso; anche il grosso Dalban in Toni è delizioso quando parla della sua donna.
Allora io credo che questo spirito presieda alla maniera europea di fare cinema, ed è per questo che noi saremo sempre lontani da Hollywood anche se sbirciamo sempre da quella parte. Nelle riprese noi sentiamo in maniera molto forte un sentimento che si può esprimere così: non diamola a bere al pubblico, non tentiamo di nascondere che stiamo per girare un film.”
Le riprese in teatro di posa
Non ho mai girato in un teatro di prosa. Non è una questione di principio: d’economia e d’estetica nello stesso tempo, perché per poter avere in studio l’equivalente di ciò che ho trovato finora in ambienti naturali, bisognerebbe disporre di somme non concepibili nei preventivi francesi. Le soddisfazioni che mi ha dato lo chalet autentico di Jules e Jim non si possono valutare nei preventivi di studio.
A parte l’impossibilità di passare con una sola inquadratura dall’esterno all’interno, dal pianterreno al primo piano, lo studio ci avrebbe privati delle sorprese del caso, come la sequenza della nebbia. L’altro giorno mi hanno telefonato dalla produzione di Burt Lancaster, Il treno, mi hanno chiesto come avevamo fatto a ottener la nebbia in Jules e Jim. Gli ho risposto di andare in Alsazia. Sono coincidenze e le coincidenze bisogna meritarsele.”
I dialoghi
“In fondo, io sono arrivato al cinema attraverso i dialoghi: li imparavo a memoria. Conoscevo tutti quelli de Il corvo, tutti quelli di Prévert e tutti quelli di Renoir. Solo più tardi ho sentito parlare di “messa in scena” da Rivette. L’istinto era di ubriacarmi di film per conoscere la colonna sonora a memoria, dialogo e musica. È per questo che non sono d’accordo con gli avversari del doppiaggio.
Posso citarvi Johnny Guitar, che ha nella mia vita una importanza probabilmente più grande che in quella del suo autore Nicholas Ray. Bene, mi piace quasi di più la versione doppiata di Johnny Guitar che la versione originale, e posso anche dirvi che certe cose del Pianista per esempio, sono influenzate dal tono del doppiaggio di Johnny Guitar: «Suonateci qualcosa signor Guitar…».
Lo stile
“Adottare uno stile particolare, fuori delle necessità del soggetto, è il difetto per eccellenza. Non ho mai saputo veramente che cosa sia uno “stile”, né lo stile. La forma di un film si presenta al mio spirito nello stesso tempo che l’idea del film; se penso che devo filmare una coppia che si bacia non mi chiedo un mese prima: si baceranno sotto il sole o sotto la pioggia.
No, è già tutto nella mia testa quando mi viene l’idea, completa: si baceranno… sotto la pioggia… sarà l’ora dell’uscita dagli uffici… la gente passerà davanti e dietro di loro… si sentiranno i denti che si urtano… la sua sciarpa sembrerà uno strofinaccio, ecc… Libero di fare il contrario all’ultimo momento: sole, nessuno per la strada… ma se non avessi visualizzato subito la scena, l’avrei scartata dalla sceneggiatura.
Il lavoro del cinema è così particolare che non c’è alcun piacere a parlare di cinema con i letterati e neppure, spesso, con i giornalisti. Mi piace parlare con Rivette, con Aurel, con Hitchcock evidentemente, ma credo che un tipo come Robbe-Grillet non ne capisca ancora nulla, finora voglio dire. Non vado mai ai pranzi per non dover rispondere a domande sul cinema.”