Il cinema ha spesso guardato al Medioevo come a un’epoca di spade scintillanti, castelli imponenti e nobili cavalieri. L’immaginario collettivo è segnato da produzioni colossali come Braveheart o Le Crociate, che hanno definito il genere con grandi affreschi storici e avventure spettacolari, creando un’epica che ha affascinato generazioni.
Ma esiste un’altra tradizione cinematografica, più sotterranea e radicale. Il Medioevo è anche uno specchio deformante per esplorare la fede, il potere, la violenza e la condizione esistenziale. È un cinema che spoglia il passato del suo alone mitico per rivelarne la natura brutale, quasi aliena. In queste opere, la cavalleria è un’illusione fragile in un mondo dominato dal fango e dal sangue, e il paesaggio stesso diventa un personaggio attivo.
Questa guida è un viaggio attraverso l’intero spettro. È un percorso che unisce i capolavori epici che hanno definito il genere alle più intransigenti opere di nicchia. È una mappa per orientarsi in un territorio affascinante, offrendo una comprensione più complessa non solo del Medioevo, ma anche del cinema stesso come forma di indagine filosofica.
Il Settimo Sigillo (The Seventh Seal, 1957)
Di ritorno dalle Crociate, il cavaliere Antonius Block trova la sua terra devastata dalla Peste Nera. Sulla spiaggia incontra la Morte, venuta a prenderlo, e la sfida a una partita a scacchi, sperando di guadagnare tempo per trovare risposte alle sue domande sulla vita, la fede e l’esistenza di Dio. Durante il suo viaggio, si unisce a lui una piccola compagnia di attori girovaghi, la cui semplice gioia di vivere contrasta con la sua angoscia esistenziale.
Con Il Settimo Sigillo, Ingmar Bergman trasforma un’allegoria medievale in un’esplorazione profondamente personale e universale dell’angoscia esistenziale. Il film, girato in soli 35 giorni con un budget minimo, attinge a piene mani dalle radici teatrali del regista e dalla sua educazione luterana, mettendo in scena il dramma della fede nel mondo moderno. La celebre partita a scacchi non è solo un espediente narrativo, ma una potente metafora della lotta dell’uomo contro la mortalità e della sua disperata ricerca di significato in un universo che sembra indifferente.
Bergman orchestra un potente contrappunto visivo e tematico. Da un lato, l’intellettualismo tormentato del cavaliere, che cerca Dio con la ragione e trova solo il silenzio. Dall’altro, la fede istintiva e la semplice umanità della famiglia di attori, Jof e Mia, che trovano un senso non nelle grandi domande, ma nei piccoli gesti d’amore e nella meraviglia del quotidiano. In un mondo dominato dalla paura, dai flagellanti e dall’ipocrisia religiosa, la loro umile carovana rappresenta un’arca di salvezza. L’austero bianco e nero di Gunnar Fischer scolpisce i volti come paesaggi dell’anima, rendendo il film un capolavoro senza tempo sulla fragilità umana di fronte al mistero ultimo.
Andrei Rublev (1966)
Il film ripercorre, attraverso otto episodi, la vita del grande pittore di icone russo del XV secolo, Andrei Rublev. Il suo viaggio spirituale e artistico si svolge in un’epoca di violenza inaudita, segnata dalle invasioni tartare, dalla peste, dalla fame e dalla brutalità dei principi russi. Testimone di orrori indicibili, Rublev cade in una profonda crisi di fede, smette di dipingere e fa voto di silenzio, interrogandosi sul senso dell’arte in un mondo apparentemente abbandonato da Dio.
L’epopea di Andrei Tarkovsky è molto più di un film biografico; è una monumentale meditazione sul ruolo dell’artista, sulla necessità della fede e sulla resilienza dello spirito umano di fronte alla crudeltà della storia. La travagliata produzione del film, a lungo osteggiato e censurato dalle autorità sovietiche che lo ritenevano troppo negativo, violento e spiritualmente complesso, rispecchia perfettamente il suo tema centrale: la creazione artistica come atto di resistenza contro un potere oppressivo. Tarkovsky non è interessato a una ricostruzione storica convenzionale, ma a evocare la materialità quasi tattile di un’epoca.
Il suo bianco e nero scolpisce un mondo primordiale fatto di fango, neve, fuoco e acqua. In questo paesaggio infernale, la fede di Rublev è messa alla prova non da dubbi teologici astratti, ma dalla violenza fisica e dalla sofferenza che lo circondano. Il film sostiene che l’arte non è una fuga dalla realtà, ma un atto di fede che nasce proprio dalla sofferenza. La lunga sequenza finale, in cui la macchina da presa esplora a colori i dettagli delle icone di Rublev, non è solo una rivelazione estetica, ma la catarsi di un intero percorso: dopo ore di silenzio e oscurità, l’arte emerge come l’unica, fragile testimonianza della possibilità della trascendenza.
La Passione di Giovanna d’Arco (The Passion of Joan of Arc, 1928)
Basato sulle trascrizioni originali del processo, il film si concentra sulle ultime ore di vita di Giovanna d’Arco, prigioniera degli inglesi e processata per eresia da un tribunale ecclesiastico francese. Sottoposta a un interrogatorio psicologicamente estenuante, Giovanna affronta i suoi accusatori con una fede incrollabile, passando dalla paura alla speranza, dalla sofferenza all’estasi spirituale, fino al suo tragico destino sul rogo.
Capolavoro assoluto del cinema muto, l’opera di Carl Theodor Dreyer è un’esperienza cinematografica radicale e senza precedenti. Il regista danese compie una scelta rivoluzionaria: elimina ogni elemento spettacolare per concentrarsi quasi esclusivamente sui volti dei suoi personaggi. Attraverso un uso ossessivo e innovativo del primo piano, Dreyer trasforma il dramma storico in un’indagine puramente psicologica e spirituale. Il volto di Renée Jeanne Falconetti, nella sua unica e leggendaria interpretazione cinematografica, diventa il vero campo di battaglia del film, un paesaggio in cui si manifestano il tormento del dubbio, l’agonia della persecuzione e la luce della grazia divina.
La produzione stessa fu un esercizio di immersione totale. Dreyer fece costruire un imponente set ispirato all’architettura medievale, ma lo mostrò solo in rari frammenti, usandolo principalmente per creare un’atmosfera di oppressione per gli attori. Le riprese si svolsero in ordine cronologico, senza l’uso di trucco, per catturare la fatica e la sofferenza reali sui volti. Questa ricerca di un’autenticità quasi documentaristica rende la performance di Falconetti un evento irripetibile. Il film, mutilato dalla censura, distrutto da un incendio e poi miracolosamente ritrovato decenni dopo nella sua versione originale, incarna la stessa resilienza della sua eroina, rimanendo una delle più potenti testimonianze della capacità del cinema di trascendere la narrazione per toccare l’essenza dell’esperienza umana.
Marketa Lazarová (1967)
Nel XIII secolo, in una terra selvaggia e pagana, due clan di briganti rivali, i Kozlík e i Lazar, si scontrano in una faida brutale. Durante uno dei loro raid, i figli di Kozlík rapiscono Marketa, la giovane figlia di Lazar, promessa in sposa a Dio e destinata al convento. Strappata alla sua vita pia, Marketa viene gettata in un mondo di violenza primordiale, dove i confini tra amore e brutalità, cristianesimo e paganesimo, si dissolvono in un caos sanguinoso.
Spesso votato come il più grande film ceco mai realizzato, Marketa Lazarová di František Vláčil non è un dramma storico, ma un’immersione totale e senza compromessi nella mentalità aliena del Medioevo. L’obiettivo di Vláčil non è raccontare una storia lineare, ma ricreare la texture sensoriale di un’epoca passata. Il risultato è un’esperienza cinematografica quasi fisica, un poema epico febbrile e disorientante che assale lo spettatore con la sua bellezza selvaggia e la sua crudeltà implacabile.
La produzione, durata quasi tre anni, con 548 giorni di riprese in condizioni estreme, è la chiave per comprendere la potenza del film. Vláčil ha costruito un ambiente in cui gli attori potessero “vivere” il Medioevo, non solo recitarlo. La sua innovativa fotografia in cinemascope, il montaggio frammentato e il sound design avvolgente creano un flusso di coscienza visivo che privilegia l’atmosfera sulla narrazione. Lo spettatore si sente perso in un mondo di foreste innevate, volti segnati dal fango e rituali incomprensibili. Più che un film, Marketa Lazarová è un’allucinazione controllata, un’opera che rifiuta le convenzioni per offrire una delle più autentiche e inquietanti visioni del passato mai apparse sullo schermo.
Aguirre, Furore di Dio (Aguirre, the Wrath of God, 1972)
Nel 1560, una spedizione di conquistadores spagnoli discende il Rio delle Amazzoni alla ricerca della mitica città d’oro, El Dorado. Quando il comandante ufficiale esita, il suo secondo, il fanatico e spietato Lope de Aguirre, prende il controllo con un ammutinamento. Sotto la sua guida ossessiva, la spedizione si trasforma in una discesa agli inferi, un viaggio nella follia e nella megalomania, mentre la giungla implacabile consuma uomini e speranze.
Il capolavoro di Werner Herzog è la rappresentazione definitiva dell’ossessione umana e della hybris coloniale. Girato in condizioni proibitive nella giungla peruviana, il film è inseparabile dalla sua stessa leggenda, in particolare dalla relazione esplosiva tra il regista e il suo attore protagonista, l’indomabile Klaus Kinski. La tensione palpabile sul set, le difficoltà logistiche e la natura selvaggia e ostile del luogo non sono semplici aneddoti di produzione, ma l’essenza stessa del film, che trasuda un’atmosfera opprimente e allucinatoria.
Herzog adotta un approccio minimalista alla narrazione e ai dialoghi, lasciando che siano le immagini a parlare. La macchina da presa osserva con uno sguardo quasi documentaristico la lenta disintegrazione della spedizione, mentre la zattera scivola inesorabilmente verso la follia. La giungla non è uno sfondo, ma un’entità viva e minacciosa che inghiotte la civiltà. La performance di Kinski, con il suo sguardo febbrile e la sua andatura sbilenca, incarna perfettamente la figura di un uomo che, nel tentativo di conquistare un impero, crea solo un regno di morte e deliri, diventando un potente monito contro l’arroganza del potere e l’avidità senza limiti.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
In questo video ti spiego la nostra visione
Ran (1985)
Liberamente ispirato al Re Lear di Shakespeare, il film narra la storia di Hidetora Ichimonji, un anziano e potente signore della guerra del Giappone del XVI secolo. Deciso a ritirarsi, divide il suo regno tra i suoi tre figli, Taro, Jiro e Saburo. Quando il figlio più giovane, Saburo, lo avverte che questa decisione porterà solo al conflitto, Hidetora lo bandisce in un impeto d’orgoglio. Presto, i due figli maggiori si rivoltano contro il padre, gettandolo in un vortice di tradimento, guerra e follia.
L’ultimo grande affresco epico di Akira Kurosawa è un’opera di una bellezza visiva mozzafiato e di un nichilismo sconvolgente. Realizzato quando il regista era quasi cieco, Ran (che significa “caos”) è il testamento di un maestro che orchestra la distruzione con la precisione di un pittore. Kurosawa preparò il film per anni, realizzando centinaia di storyboard dipinti a mano che fungevano da guida per ogni singola inquadratura, composizione e schema cromatico. Il risultato è un film dove ogni fotogramma è un’opera d’arte.
A differenza di molte epopee storiche, Ran non glorifica la guerra, ma la mostra come una forza insensata e distruttiva. Le scene di battaglia sono grandiose ma stranamente silenziose, spesso prive di dialoghi o suoni di combattimento, accompagnate solo dalla musica malinconica di Toru Takemitsu. Questa scelta stilistica crea un senso di distanza, come se stessimo osservando la tragedia da una prospettiva divina, impotenti di fronte alla ciclica follia umana. La visione di Kurosawa è desolata: in un mondo senza dèi, l’ambizione, l’orgoglio e la violenza portano inevitabilmente all’annientamento, lasciando dietro di sé solo rovine e disperazione.
La porta dell'inferno

Drammatico, storico, di Teinosuke Kinugasa, Giappone, 1953.
Durante la ribellione di Heiji, in Giappone, nel 1159, Lord Kiyomori si allontana dal suo castello per andare a combattere. Mentre è assente alcuni signori locali tentano un colpo di stato per impadronirsi del Castello Sanjo. Il samurai Endō Morito scorta la dama di compagnia Kesa mentre si allontana dal palazzo travestita da sorella del daimyō, dando al padre e alla sorella reale il tempo di fuggire senza essere visti. Basato su un'opera teatrale di Kan Kikuchi ambientata nel Giappone feudale del XII secolo, il film racconta la storia di un samurai il cui coraggio nel difendere il suo sovrano deve essere ricompensato con tutto ciò che desidera. Desidera la bella e aristocratica Lady Kesa, che è già sposata con un altro samurai, Wataru. Morito tenta di persuadere Kesa a lasciare il marito, ma la sua devozione è incrollabile. Vincitore dell'Oscar per il miglior film straniero e per i migliori costumi, gran premio a Cannes, diventato poi un film perduto per 50 anni, La porta dell'inferno è un film figurativamente impressionante, forse l'esempio più abbagliante della fotografia a colori giapponese degli anni '50.
LINGUA: giapponese
SOTTOTITOLI: italiano
The Northman (2022)
Nell’Islanda del X secolo, il giovane principe Amleth assiste all’omicidio di suo padre, il re Aurvandil, per mano dello zio Fjölnir, che rapisce anche sua madre, la regina Gudrún. Fuggito e cresciuto come un feroce guerriero vichingo, Amleth non dimentica il suo giuramento: vendicare il padre, salvare la madre e uccidere lo zio. Anni dopo, si finge schiavo per infiltrarsi nella fattoria di Fjölnir e portare a termine la sua sanguinosa vendetta.
Con The Northman, Robert Eggers tenta un’impresa audace: creare un’epopea vichinga che sia allo stesso tempo un blockbuster accessibile e un’opera d’autore intransigente, dedicata a un’immersione totale nella mentalità di un’epoca. Nonostante un budget considerevole per un regista dal background indipendente ($70-90 milioni), il film conserva una sensibilità arthouse, privilegiando l’accuratezza storica e mitologica rispetto alle convenzioni del cinema d’azione. Eggers, noto per la sua meticolosa ricerca, attinge a piene mani dalle saghe norrene e dalle scoperte archeologiche per costruire un mondo in cui il soprannaturale è reale, le visioni sono profezie e la vendetta non è solo un movente, ma un destino sacro.
Il film rifiuta deliberatamente la morale moderna, costringendo lo spettatore a confrontarsi con la logica brutale del suo protagonista. La violenza non è stilizzata, ma viscerale e terrificante, presentata come parte integrante di una cultura in cui l’onore si misura sul campo di battaglia. La vera forza di The Northman risiede nella sua capacità di farci sentire il peso di un mondo governato da forze primordiali, dove il confine tra uomo e bestia è labile e il destino è scritto nel sangue.
Valhalla Rising (2009)
In un’epoca imprecisata delle Highlands scozzesi, un guerriero muto e monocolo, tenuto prigioniero e costretto a combattere, riesce a liberarsi massacrando i suoi carcerieri. Insieme a un ragazzo che lo segue, si unisce a un gruppo di crociati cristiani diretti in Terra Santa. La loro nave, tuttavia, viene avvolta da una nebbia impenetrabile e, dopo un viaggio estenuante, approda in una terra sconosciuta e ostile, un “nuovo mondo” che si rivelerà essere un inferno.
Valhalla Rising è l’antitesi radicale dell’epica vichinga tradizionale. Il regista Nicolas Winding Refn spoglia il genere di ogni elemento narrativo convenzionale per creare un’esperienza puramente sensoriale e metafisica. Con dialoghi ridotti all’osso, il film si affida a un’estetica brutale e allucinatoria, un viaggio esistenziale che evoca tanto il 2001: Odissea nello spazio di Kubrick quanto il Cuore di tenebra di Conrad. Non c’è trama, solo un’inesorabile discesa in un abisso di violenza e silenzio.
Il film è un’opera ipnotica e respingente, che usa la sua ambientazione storica per esplorare temi universali come la fede, la violenza e la natura del male. Il paesaggio scozzese, desolato e primordiale, diventa il riflesso di un mondo interiore privo di certezze. One-Eye, interpretato da un magnetico Mads Mikkelsen, non è un eroe, ma una forza della natura, un enigma che incarna una violenza quasi divina o infernale. Valhalla Rising è un’esperienza cinematografica estrema, un’opera che non offre risposte ma trascina lo spettatore in un incubo a occhi aperti, lasciandolo a meditare sul confine tra sacro e profano.
Francesco, Giullare di Dio (The Flowers of St. Francis, 1950)
Attraverso una serie di semplici e gioiose vignette, il film racconta episodi della vita di San Francesco d’Assisi e dei suoi primi seguaci. Le scene, tratte dai Fioretti, non seguono una trama lineare, ma illustrano lo spirito del francescanesimo: l’umiltà, la compassione, la fede assoluta e la gioia trovata nella povertà e nel servizio. Dallo scontro con un tiranno alla predicazione agli uccelli, il film dipinge un ritratto della ricerca della santità nella vita di tutti i giorni.
In un’epoca dominata dalle sfarzose produzioni religiose hollywoodiane, Roberto Rossellini applica i principi del Neorealismo italiano a un soggetto storico e spirituale, creando un’opera di una purezza e un’autenticità rivoluzionarie. Co-sceneggiato da Federico Fellini, il film rifiuta la drammaturgia convenzionale per abbracciare uno stile quasi documentaristico. La scelta più radicale di Rossellini è quella di affidare i ruoli dei frati a veri monaci del convento di Nocera Inferiore, una decisione che conferisce al film una sincerità e una naturalezza ineguagliabili.
La macchina da presa di Rossellini osserva con umiltà, senza artifici. La santità non emerge da miracoli spettacolari, ma da gesti quotidiani, dalla semplicità dei volti e dalla comica goffaggine dei frati. Il film celebra una fede vissuta, non predicata, una spiritualità che si manifesta nell’accettazione gioiosa delle difficoltà e nell’amore per ogni creatura. Francesco, Giullare di Dio è un’anomalia luminosa, un film che trova il trascendente nel reale e dimostra come il cinema, spogliato di ogni orpello, possa diventare una forma di preghiera.
Il Decameron (The Decameron, 1971)
Ispirato all’opera trecentesca di Giovanni Boccaccio, il film intreccia una selezione delle sue novelle più terrene e licenziose. Le storie, ambientate in una Napoli popolare e vitale, raccontano di amanti astuti, suore lussuriose, ladri di tombe e imbroglioni. Tra i vari episodi, spicca la vicenda del giovane Andreuccio da Perugia e quella di Ser Ciappelletto, un peccatore incallito che riesce a farsi santificare in punto di morte.
Primo capitolo della “Trilogia della Vita” di Pier Paolo Pasolini, Il Decameron è una celebrazione esuberante e provocatoria della sessualità pre-industriale, vista dal regista come una forza vitale e innocente, non ancora corrotta dal consumismo e dall’ipocrisia borghese. Pasolini compie una scelta radicale: smantella la cornice aristocratica del libro di Boccaccio, popolata da giovani nobili che si raccontano storie per sfuggire alla peste, e la sostituisce con il mondo brulicante e autentico del sottoproletariato napoletano.
Questa trasposizione non è solo geografica, ma ideologica. Il film diventa un atto politico, un inno alla gioia dei corpi e a una cultura popolare che Pasolini vedeva minacciata dalla modernità. La sua rappresentazione della nudità e del sesso è schietta, gioiosa e priva di malizia, un gesto di ribellione contro la morale cattolica e la mercificazione del corpo. Con uno stile che mescola realismo e una bellezza pittorica ispirata a Giotto (interpretato dallo stesso Pasolini), il film è un’opera scandalosa e vitale, un sogno di un mondo in cui il piacere era ancora un atto di libertà.
I Racconti di Canterbury (The Canterbury Tales, 1972)
Secondo capitolo della “Trilogia della Vita”, il film adatta otto dei racconti di Geoffrey Chaucer, ambientati nell’Inghilterra medievale. Un gruppo eterogeneo di pellegrini in viaggio verso Canterbury si intrattiene narrando storie che spaziano dal comico al grottesco, dal licenzioso al macabro. Tra queste, la vicenda di un vecchio nobile accecato dopo aver sposato una giovane e infedele moglie, e un viaggio finale in un inferno popolato da frati avidi e diavoli flatulenti.
Se Il Decameron era una celebrazione solare della vita, I Racconti di Canterbury rappresenta il suo rovescio della medaglia, un’opera più cupa, grottesca e scatologica. Pasolini, che qui interpreta Chaucer stesso, sposta l’ambientazione dall’Italia mediterranea alla grigia Inghilterra, e questo cambiamento climatico si riflette nel tono del film. La gioia del corpo è ancora presente, ma è sempre più intrecciata con il dolore, la corruzione e la morte.
Il film è una “allegra blasfemia” che culmina in una delle sequenze più oltraggiose della storia del cinema: una visione dell’inferno ispirata a Bosch e Bruegel, dove il peccato è punito con una fantasia comica e terrificante. Pasolini usa l’umorismo crudo e la fisicità esasperata per lanciare un attacco ancora più feroce contro l’ipocrisia del potere, in particolare quello ecclesiastico. Pur essendo l’episodio più disperato della trilogia, il film conserva una vitalità anarchica e una potenza visiva che lo rendono un’opera indimenticabile, un viaggio affascinante e disturbante nel lato oscuro del corpo e dell’anima.
La Sorgente della Vergine (The Virgin Spring, 1960)
Nella Svezia del XIV secolo, la giovane e devota Karin viene inviata dai suoi pii genitori a portare delle candele alla chiesa. Durante il viaggio attraverso la foresta, accompagnata dalla sorellastra Ingeri, viene brutalmente violentata e uccisa da tre pastori. Per uno scherzo del destino, gli assassini chiedono ospitalità proprio alla fattoria dei genitori di Karin. Quando il padre, Töre, scopre la verità, la sua fede cristiana si scontra con un primordiale istinto di vendetta.
Capolavoro giovanile di Ingmar Bergman, La Sorgente della Vergine è una parabola crudele e potente sul conflitto tra fede e violenza, tra la morale cristiana del perdono e l’antica legge pagana dell’occhio per occhio. Basato su una ballata medievale, il film esplora con una lucidità quasi insopportabile il dilemma di un uomo di fede costretto a confrontarsi con il male assoluto. La rappresentazione della violenza, sia quella subita da Karin che quella inflitta da Töre, è diretta e priva di compiacimento, servendo uno scopo puramente teologico.
Bergman non offre facili risposte. La vendetta del padre, compiuta dopo un rituale di purificazione quasi pagano, non porta alcuna catarsi, ma solo ulteriore dolore e senso di colpa. È solo di fronte al corpo della figlia che Töre si rivolge di nuovo a un Dio silenzioso, mettendo in discussione la propria fede e promettendo di costruire una chiesa come atto di penitenza. Il miracolo finale, la sorgente che sgorga dal punto in cui giaceva Karin, non è una consolazione, ma una promessa difficile e impegnativa di grazia, un segno che la redenzione può nascere anche dalla sofferenza più insopportabile.
The Green Knight (2021)
Durante le celebrazioni natalizie alla corte di Re Artù, una misteriosa e gigantesca creatura, il Cavaliere Verde, lancia una sfida: chiunque oserà colpirlo potrà tenersi la sua ascia, ma dovrà accettare di ricevere un colpo identico un anno e un giorno dopo. Il giovane e ambizioso Gawain, nipote del re, accetta la sfida e decapita la creatura, che però si rialza, raccoglie la propria testa e gli ricorda l’appuntamento. Inizia così per Gawain un viaggio epico per onorare il patto.
L’opera di David Lowery è una sontuosa e ipnotica decostruzione del mito cavalleresco. Invece di concentrarsi sull’azione e l’eroismo, il film trasforma il poema medievale originale in un’odissea interiore, un viaggio surreale e psicologico nella mente di un protagonista che lotta con le proprie paure, i propri desideri e l’idea stessa di onore. La domanda che il film pone non è se Gawain sia coraggioso, ma cosa significhi veramente esserlo in un mondo dove la leggenda conta più della realtà.
Visivamente sbalorditivo, The Green Knight immerge lo spettatore in un paesaggio onirico e minaccioso, popolato da giganti, fantasmi e volpi parlanti. Ogni tappa del viaggio di Gawain è una prova che mette in discussione la sua integrità e lo costringe a confrontarsi con la propria mortalità. Il film sovverte le aspettative del genere arturiano, offrendo una meditazione malinconica e profondamente moderna sulla natura della narrazione, sull’eredità e sul coraggio di affrontare il proprio destino, anche quando questo significa accettare la propria imperfezione.
Monty Python and the Holy Grail (1975)
Nell’anno 932, Re Artù e i suoi fedeli Cavalieri della Tavola Rotonda ricevono da Dio in persona una sacra missione: trovare il Santo Graal. Il loro viaggio, condotto con un budget evidentemente limitato e cavalli immaginari, li porterà ad affrontare una serie di ostacoli demenziali: un cavaliere nero invincibile nonostante le mutilazioni, contadini anarco-sindacalisti, un coniglio assassino e cavalieri che dicono “Ni!”.
Monty Python and the Holy Grail è molto più di una semplice parodia; è la decostruzione comica definitiva e più intelligente del mito medievale. Il genio dei Python risiede nella loro capacità di fondere l’assurdo più sfrenato con una profonda e quasi accademica conoscenza del periodo storico e delle sue convenzioni letterarie. Il film non si limita a prendere in giro i cavalieri e i castelli, ma attacca le fondamenta stesse del genere epico.
Ogni gag, dal dibattito sulla capacità di carico delle rondini africane alla critica della base costituzionale della monarchia, è un brillante esempio di come l’anacronismo e la logica portata all’estremo possano rivelare l’assurdità latente nelle storie che diamo per scontate. Girato con pochi mezzi ma con un’inventiva inesauribile, il film è diventato un cult immortale, un’opera che, dietro le risate, offre una satira affilata e senza tempo sull’eroismo, la religione e la tendenza umana a prendere troppo sul serio le proprie narrazioni.
L’Ora del Maiale (The Hour of the Pig, 1993)
Nella Francia rurale del XV secolo, il giovane avvocato parigino Richard Courtois, in cerca di una vita più semplice, si trasferisce nella cittadina di Abbeville. Le sue speranze vengono presto deluse quando si trova immerso in un mondo governato da superstizioni arcaiche e corruzione. Il suo idealismo viene messo a dura prova quando gli viene assegnato un caso bizzarro e apparentemente impossibile: difendere un maiale, accusato dell’omicidio di un bambino ebreo.
Questo film unico e ingiustamente dimenticato è un procedural legale cupamente comico che utilizza la sua premessa surreale per esplorare lo scontro tra la nascente razionalità del Rinascimento e il dogmatismo superstizioso del Medioevo. La pratica storica, realmente esistita, di processare gli animali per crimini diventa qui il pretesto per una satira acuta sulla natura della giustizia, della fede e del pregiudizio.
Mentre Richard tenta di applicare la logica e la legge in un sistema dove i diavoli e la stregoneria sono considerati prove tangibili, il film svela l’ipocrisia e la brutalità che si celano dietro la facciata della pietà religiosa. L’indagine sul “delitto” del maiale si trasforma in un’inchiesta su una cospirazione ben più umana e sinistra. L’Ora del Maiale è un’opera intelligente e originale che usa l’assurdo per mettere in scena un dramma molto serio sulla difficoltà di far prevalere la ragione in un mondo dominato dall’irrazionale.
The Tragedy of Macbeth (2021)
Dopo aver ricevuto da tre streghe una profezia secondo cui diventerà re di Scozia, il valoroso generale Macbeth, spinto dall’ambizione e istigato dalla moglie, assassina il re Duncan per usurparne il trono. Travolto dal senso di colpa e dalla paranoia, Macbeth si trasforma in un tiranno sanguinario, la cui discesa nella follia lo condurrà a una fine inevitabile e violenta, compiendo così la seconda parte della profezia.
La versione di Joel Coen della tragedia shakespeariana è un’opera di una bellezza austera e terrificante. Girato in un bianco e nero espressionista e ambientato in set minimalisti e astratti, il film spoglia la storia di ogni realismo storico per trasformarla in un incubo psicologico senza tempo. L’influenza dei maestri del cinema d’autore medievale, come Dreyer e Bergman, è evidente in ogni inquadratura, dove la geometria opprimente degli spazi e il gioco di luci e ombre riflettono la disintegrazione morale dei protagonisti.
Questa non è una rappresentazione del Medioevo, ma una sua distillazione in puro dramma esistenziale. L’architettura diventa una prigione della mente, la nebbia un velo che confonde il reale e il soprannaturale. La performance di Denzel Washington e Frances McDormand, più anziani rispetto alle interpretazioni tradizionali, aggiunge un peso di stanchezza e disperazione alla loro ambizione. Il risultato è un’opera potente e claustrofobica, un racconto medievale che, liberato dal peso della Storia, parla direttamente alla nostra epoca con una voce antica e spaventosamente attuale.
È Difficile Essere un Dio (Hard to Be a God, 2013)
Un gruppo di scienziati terrestri viene inviato in missione sul pianeta Arkanar, una civiltà extraterrestre bloccata in una fase storica identica al Medioevo terrestre. Operando in incognito, il loro compito è osservare senza intervenire. Uno di loro, Don Rumata, vive tra gli abitanti del pianeta, che lo considerano quasi una divinità, ma è impotente di fronte alla brutalità, all’ignoranza e alla sistematica persecuzione degli intellettuali che lo circondano.
L’opera postuma di Aleksei German è una delle esperienze cinematografiche più estreme e totalizzanti mai realizzate. Più che un film, è un’immersione sensoriale di tre ore in un inferno di fango, violenza e fluidi corporei. Basato su un romanzo di fantascienza dei fratelli Strugatsky, il film utilizza la sua premessa per creare non una narrazione, ma un ambiente. Lo spettatore viene letteralmente gettato nel mondo di Arkanar, un incubo bruegeliano filmato in un bianco e nero abbagliante e iperdettagliato.
La macchina da presa si muove in lunghi e complessi piani sequenza attraverso un mondo sovraffollato e grottesco, dove ogni superficie è coperta di sporcizia e ogni interazione umana è segnata dalla brutalità. Non c’è tregua, non c’è distanza critica. German ci costringe a vivere la disperazione di Don Rumata, a sentire l’odore e la consistenza di un mondo in decomposizione. È un’allegoria devastante sulla storia russa, ma anche una riflessione universale sull’impotenza dell’intelletto di fronte alla barbarie. Un’opera monumentale e respingente, un’aggressione ai sensi che ridefinisce i limiti del cinema.
A Field in England (2013)
Durante la Guerra Civile Inglese del XVII secolo, un piccolo gruppo di disertori fugge da una battaglia e viene catturato da un alchimista di nome O’Neil. Dopo averli costretti a consumare funghi allucinogeni, O’Neil li obbliga a scavare in un campo alla ricerca di un tesoro nascosto. Sotto l’effetto delle droghe, la realtà si disgrega e il campo si trasforma in un’arena psichedelica di paranoia, violenza e terrore cosmico.
Il film di Ben Wheatley è un capolavoro di folk horror a basso costo, un viaggio allucinante e terrificante nel cuore nero della storia e della psiche umana. Girato in un suggestivo bianco e nero, il film utilizza la sua ambientazione storica non per una ricostruzione fedele, ma come punto di partenza per un’esplorazione della follia e del misticismo. Il campo non è solo un luogo, ma un personaggio, uno spazio liminale dove le leggi della fisica e della ragione vengono sospese.
Wheatley orchestra un’esperienza claustrofobica e disorientante, con un montaggio frenetico, immagini stroboscopiche e un sound design assordante che catapultano lo spettatore nella mente alterata dei protagonisti. Il film è un puzzle enigmatico che mescola alchimia, folklore inglese e orrore psicologico, creando una discesa nel caos che è allo stesso tempo spaventosa e stranamente comica. A Field in England dimostra come il cinema indipendente, con pochi mezzi ma grande audacia, possa creare visioni potenti e originali, trasformando un semplice campo in un purgatorio senza via d’uscita.
Hagazussa: A Heathen’s Curse (2017)
In un isolato villaggio alpino del XV secolo, la giovane Albrun vive ai margini della comunità, tormentata dal ricordo della madre, morta di peste e considerata una strega. Emarginata e perseguitata a causa delle antiche superstizioni e di una misoginia radicata, Albrun cresce in solitudine, trovando conforto solo nelle sue capre e nella natura selvaggia. La sua fragile stabilità viene distrutta quando la crudeltà degli abitanti del villaggio la spinge verso un abisso di follia e orrore soprannaturale.
Hagazussa è un esempio superbo e terrificante del folk horror contemporaneo. Il regista Lukas Feigelfeld crea un’opera lenta, atmosferica e profondamente disturbante, che esplora come l’isolamento, il trauma e l’oppressione sociale possano generare un mostro. Il film, quasi privo di dialoghi, si affida alla potenza delle immagini e a un sound design inquietante per costruire una tensione quasi insopportabile. Il paesaggio alpino, magnifico e ostile, diventa il riflesso della psiche fratturata della protagonista.
La narrazione si muove su un confine ambiguo tra il dramma psicologico e l’orrore soprannaturale. Non è mai chiaro se la discesa di Albrun nella stregoneria sia una reale manifestazione del male o il tragico risultato di un’esistenza di abusi e solitudine. Il film non giudica la sua protagonista, ma ci costringe a entrare nella sua prospettiva, a condividere la sua alienazione e la sua rabbia. Il risultato è un’esperienza viscerale e angosciante, un bagno lento in una palude di disperazione che lascia lo spettatore a interrogarsi sulla natura del male e sulla sottile linea che separa la vittima dal carnefice.
Sauna (2008)
Nel 1595, al termine di una lunga e brutale guerra tra Svezia e Russia, due fratelli finlandesi, membri di una commissione per la demarcazione dei nuovi confini, attraversano una terra desolata. Erik è un soldato indurito e spietato, mentre Knut, uno studioso, è tormentato dal senso di colpa per un peccato commesso durante la guerra. Il loro viaggio li conduce in un misterioso villaggio sperduto in una palude, dove si dice esista una sauna in grado di lavare via ogni peccato.
Questo gioiello del cinema horror finlandese è un racconto cupo e atmosferico sul peso incancellabile della colpa. Ambientato in una “terra di nessuno” non solo geografica ma anche spirituale, al confine tra cristianesimo e paganesimo, il film utilizza la sua ambientazione storica per creare una forma unica di terrore psicologico. La sauna del titolo non è un luogo di purificazione, ma un catalizzatore di orrori, un punto di convergenza dove i peccati non vengono cancellati, ma assumono una forma fisica e terrificante.
La regia costruisce una tensione opprimente attraverso un ritmo lento, una fotografia desaturata che esalta la desolazione del paesaggio e un’atmosfera di malinconia e presagio. Sauna non si affida a facili spaventi, ma a un senso di terrore esistenziale. È un film che suggerisce che l’inferno non è un luogo ultraterreno, ma una condizione della mente, e che certi peccati sono così profondi da contaminare la terra stessa, rendendo impossibile ogni forma di redenzione.
Perceval le Gallois (1978)
Il giovane e ingenuo Perceval, cresciuto isolato dal mondo nella foresta da sua madre, incontra per caso un gruppo di cavalieri e decide di recarsi alla corte di Re Artù per diventare uno di loro. Inizia così il suo percorso di formazione, un’avventura che lo porterà a incontrare dame, a combattere duelli e a giungere al castello del Re Pescatore, dove assiste alla misteriosa processione del Santo Graal senza osare fare domande, commettendo un errore che avrà gravi conseguenze.
L’adattamento del poema arturiano di Chrétien de Troyes da parte di Éric Rohmer è un’opera radicalmente anti-realista, un esperimento affascinante che rifiuta ogni convenzione del cinema storico. Invece di cercare l’immersione in un mondo medievale credibile, Rohmer opta per una deliberata e stilizzata teatralità. Il film è girato interamente in studio, con scenografie dipinte che imitano le miniature medievali, alberi di cartone e un coro che narra e commenta l’azione.
L’obiettivo di Rohmer non è creare un’illusione di realtà, ma presentare il testo del XII secolo nel modo più fedele possibile alla sua concezione originale, inclusa la recitazione in versi e rima. Il risultato è un “libro di fiabe in movimento”, un’opera che appare volutamente artificiale e aliena alla sensibilità moderna. Questa scelta stilistica, apparentemente così lontana dal naturalismo tipico del regista, rivela in realtà una coerenza profonda: è un tentativo di catturare la verità non di un’epoca, ma della sua rappresentazione artistica, offrendo un’esperienza cinematografica unica e intellettualmente stimolante.
Ironclad (2011)
Inghilterra, 1215. Dopo essere stato costretto a firmare la Magna Carta, il tirannico Re Giovanni raduna un esercito di mercenari danesi per riprendere il controllo del paese. Un piccolo gruppo di baroni ribelli, guidati da un cavaliere templare tormentato, si barrica nel castello di Rochester, un punto strategico cruciale, per resistere all’assedio del re. Con meno di venti uomini, dovranno affrontare una forza soverchiante in una battaglia disperata per la libertà.
Ironclad è un esempio perfetto di cinema d’azione indipendente, un film che rifiuta il romanticismo e la patina eroica del genere medievale per offrire un’esperienza viscerale, brutale e senza compromessi. Realizzato con un budget di 25 milioni di dollari, frutto di un complesso finanziamento internazionale, il film si distingue per la sua rappresentazione cruda e realistica della guerra d’assedio. Qui non ci sono armature scintillanti o duelli eleganti, ma solo fango, sangue e una violenza quasi insopportabile.
La regia di Jonathan English utilizza una macchina da presa a mano e un montaggio frenetico per immergere lo spettatore nel caos della battaglia, catturando la brutalità del combattimento corpo a corpo. Il film è un assalto ai sensi, un’opera che celebra l’energia “heavy metal” della guerra medievale, concentrandosi sulla fisicità e la sofferenza. Nonostante una trama convenzionale, Ironclad riesce a essere avvincente grazie alla sua onestà brutale, dimostrando che un approccio indipendente può portare nuova linfa e una gradita dose di realismo a un genere spesso troppo edulcorato.
The Head Hunter (2018)
In un regno desolato e senza tempo, un guerriero solitario vive in una capanna isolata, il cui muro è adornato dalle teste delle mostruose creature che ha ucciso. La sua esistenza è consumata da un unico scopo: dare la caccia e uccidere il mostro che anni prima gli ha portato via la sua unica figlia. Ogni giorno è una routine di preparazione, attesa e brutale combattimento, alimentata dal desiderio di vendetta e da un dolore che non si placa.
The Head Hunter è un piccolo miracolo di cinema a micro-budget, un esempio sbalorditivo di come la creatività e la visione possano superare i limiti finanziari. Realizzato con soli 30.000 dollari, il film di Jordan Downey è un’opera atmosferica e carica di tensione che trasforma i suoi vincoli in punti di forza. Con un solo attore protagonista e dialoghi quasi inesistenti, la narrazione si affida interamente all’impatto visivo e sonoro.
La scelta di mostrare le battaglie fuori campo, concentrandosi invece sulla preparazione del guerriero e sulle macabre conseguenze, si rivela geniale: non solo risolve i problemi di budget, ma aumenta la suspense e l’orrore, lasciando che l’immaginazione dello spettatore colmi i vuoti. Il mondo del film è tangibile e desolato, grazie a un’eccellente direzione artistica, a costumi dettagliati e a effetti pratici sorprendentemente efficaci. È un’opera essenziale e potente che dimostra come il cinema di genere possa essere allo stesso tempo epico e intimista.
Údolí včel (The Valley of the Bees, 1968)
Nel XIII secolo, il giovane Ondřej viene costretto dal padre a entrare nell’Ordine Teutonico come penitenza. All’interno dell’ordine, sviluppa un profondo legame con Armin, un cavaliere fanatico e devoto. Incapace di sopportare la rigida disciplina, Ondřej fugge per tornare alla sua casa e alla sua vita precedente. Ma Armin, legato dal suo giuramento e da un affetto possessivo, si lancia al suo inseguimento, determinato a riportarlo all’ordine o a ucciderlo.
Realizzato da František Vláčil subito dopo il monumentale Marketa Lazarová, e utilizzando parte delle stesse scenografie e costumi, La Valle delle Api è un’opera più contenuta ma non meno potente. Il film è una gelida e austera allegoria sul conflitto tra libertà individuale e fanatismo ideologico, un tema che risuonava con forza nella Cecoslovacchia del 1968, alla vigilia della repressione della Primavera di Praga.
La splendida fotografia in bianco e nero esalta la rigidità del mondo dell’Ordine, contrapponendola alla vitalità del mondo esterno a cui Ondřej anela. Lo scontro tra i due protagonisti non è solo fisico, ma filosofico: da un lato la ricerca della felicità terrena, dall’altro la devozione assoluta a un dogma che non ammette deviazioni. Il film è un dramma psicologico teso e implacabile, una riflessione senza tempo sulla natura distruttiva del fanatismo e sul prezzo della libertà.
The Navigator: A Medieval Odyssey (1988)
Nel 1348, in un villaggio minerario della Cumbria devastato dalla Peste Nera, un giovane ragazzo di nome Griffin ha una visione: per salvarsi, gli abitanti del villaggio dovranno scavare un tunnel attraverso la Terra e piantare una croce sulla guglia di una grande cattedrale in una terra lontana. Guidati dalla sua visione, un piccolo gruppo di uomini inizia a scavare, per poi riemergere in un luogo inimmaginabile: una metropoli della Nuova Zelanda degli anni ’80.
Il film del neozelandese Vincent Ward è un cult classico unico e visionario, un’audace fusione di dramma medievale, fantascienza e fantasy. L’idea di base è tanto semplice quanto geniale: osservare il mondo moderno attraverso gli occhi di uomini medievali, per i quali i grattacieli, le autostrade e le luci al neon non sono il futuro, ma una manifestazione ultraterrena, forse il paradiso o l’inferno.
Il passaggio dal bianco e nero del XIV secolo al colore sgargiante del XX secolo è un espediente cinematografico brillante che sottolinea lo shock culturale e percettivo. Il film esplora con intelligenza e sensibilità temi come la fede, la paura, l’alienazione tecnologica e la perdita del sacro. Lungi dall’essere una semplice commedia “fish-out-of-water”, The Navigator è un’opera profondamente malinconica e suggestiva, un’allegoria potente e originale sul viaggio dell’umanità tra fede e disincanto.
Hrafninn flýgur (When the Raven Flies, 1984)
Irlanda, IX secolo. Un bambino assiste impotente al massacro della sua famiglia per mano di un gruppo di predoni vichinghi. Risparmiato e cresciuto lontano dalla sua terra, torna in Islanda vent’anni dopo, un uomo consumato dal desiderio di vendetta. Il suo obiettivo è rintracciare e uccidere i responsabili della strage, in particolare il loro capo, Thord, che ora è un potente leader locale.
Questo film islandese, spesso descritto come un “Vichingo Western”, è un’opera fondamentale per il cinema nordico e un precursore del revisionismo del genere vichingo. Il regista Hrafn Gunnlaugsson spoglia il mito di ogni romanticismo e orpello, eliminando gli elmi con le corna e le narrazioni eroiche per offrire un racconto crudo, sporco e spietato di vendetta. L’influenza dei western di Sergio Leone e dei film di samurai di Akira Kurosawa è evidente, ma viene rielaborata in un contesto unicamente islandese.
Il paesaggio, con le sue distese vulcaniche nere e i suoi cieli grigi, non è un semplice sfondo, ma il riflesso di un mondo brutale e senza legge, dove la sopravvivenza dipende dalla forza e dalla determinazione. Il film è un’epopea a basso costo che punta tutto sull’atmosfera e sulla violenza realistica, creando un ritratto potente e autentico di un’epoca dominata da cicli di violenza apparentemente senza fine.
Blanche (1971)
In un castello medievale, la giovane e bellissima Blanche è la moglie di un castellano molto più anziano di lei. La sua purezza e la sua bellezza accendono il desiderio di tutti gli uomini della corte, inclusi il re in visita e il figliastro del marito. Intrappolata in una rete di sguardi lussuriosi, sospetti e gelosie, la virtù di Blanche diventa la causa involontaria di una tragedia sanguinosa che travolgerà tutti.
. Più che un dramma narrativo, Blanche è un arazzo medievale in movimento, un’opera pittorica in cui ogni inquadratura è meticolosamente costruita come un dipinto del primo Rinascimento. Lo stile è ieratico, i dialoghi sono scarni e l’atmosfera è claustrofobica.
Borowczyk crea un mondo chiuso e opprimente, dove la bellezza è una condanna e la passione porta inevitabilmente alla distruzione. Il film è una favola tragica e sensuale, che utilizza la sua estetica raffinata per esplorare la brutalità dei desideri repressi e la violenza insita nelle strutture di potere patriarcali. È un’opera d’arte visiva, un’esperienza cinematografica che privilegia la forma e l’atmosfera per raccontare una storia di innocenza perduta.
Pilgrimage (2017)
Irlanda, 1209. Un piccolo gruppo di monaci riceve l’ordine di trasportare la reliquia più sacra del loro monastero fino a Roma. Il loro pericoloso pellegrinaggio li porterà ad attraversare un’isola devastata da guerre tribali e dall’invasione normanna. Accompagnati da un crociato muto dal passato violento, i monaci dovranno affrontare pericoli mortali e mettere alla prova la loro fede, scoprendo che la vera minaccia non è il dubbio teologico, ma la spietata violenza degli uomini.
Pilgrimage è un thriller medievale brutale, teso e linguisticamente ambizioso. Girato con un budget indipendente, il film si distingue per la sua scelta coraggiosa di far recitare i personaggi nelle loro lingue originali (irlandese, francese normanno, latino e inglese), creando un senso di autenticità e di alienazione culturale. Questa non è l’Irlanda mitica delle leggende, ma una terra selvaggia e insanguinata.
Il film decostruisce l’idea del viaggio spirituale, trasformandolo in una disperata lotta per la sopravvivenza. La fede dei monaci viene messa alla prova non da dilemmi filosofici, ma dalla violenza fisica e dalla crudeltà del mondo. La regia è secca e viscerale, e il paesaggio irlandese, magnifico e ostile, diventa il teatro di un viaggio nel cuore di tenebra dell’umanità. È un esempio moderno di come il cinema indipendente possa rivitalizzare il genere storico con un approccio crudo e senza compromessi.
Flesh + Blood (1985)
Italia, 1501. Un gruppo di mercenari guidati dal carismatico Martin viene tradito e cacciato dal nobile Arnolfini, per cui avevano appena conquistato una città. Per vendetta, saccheggiano la carovana di Arnolfini e rapiscono la sua futura nuora, la giovane e determinata Agnes. Rifugiatisi in un castello, i mercenari dovranno affrontare l’assedio di Arnolfini e la peste, mentre Agnes usa la sua astuzia per sopravvivere e manipolare i suoi rapitori.
Il primo film in lingua inglese di Paul Verhoeven è una deliberata e scioccante confutazione di ogni romanticismo cavalleresco. Flesh + Blood è un’opera amorale, sporca e cinica che ritrae il Rinascimento non come un’epoca di rinascita artistica, ma come un periodo di violenza, superstizione e opportunismo. Non ci sono eroi, solo sopravvissuti, e ogni personaggio è mosso da avidità, lussuria o desiderio di potere.
Verhoeven dirige con la sua tipica energia provocatoria, non risparmiando allo spettatore scene di violenza esplicita e una sessualità ambigua e brutale. Il film, un flop al botteghino ma diventato un cult, è un perfetto esempio della visione del regista, ossessionato dall’ipocrisia della morale e dalla brutalità che si cela sotto la superficie della civiltà. È un ritratto spietato e senza illusioni di un’epoca in cui la vita era breve e la sopravvivenza era l’unica virtù.
Black Death (2010)
Inghilterra, 1348. Mentre la Peste Nera devasta il paese, giunge notizia di un villaggio remoto, protetto da una palude, che sembra essere immune al contagio. Si mormora che il villaggio sia guidato da un negromante in grado di resuscitare i morti. Un gruppo di spietati cavalieri, inviati dal vescovo, viene incaricato di indagare. A guidarli attraverso la palude c’è Osmund, un giovane monaco la cui fede sarà messa a dura prova dal viaggio e dagli orrori che scoprirà.
L’opera di Christopher Smith è una potente e desolata fusione di dramma storico e horror. Prodotto da un consorzio di compagnie indipendenti britanniche e tedesche, il film utilizza l’ambientazione della peste per condurre un’indagine spietata sulla natura della fede e del fanatismo. Il viaggio di Osmund non è solo fisico, ma spirituale, una discesa in un inferno dove le certezze teologiche si sgretolano di fronte alla sofferenza e alla crudeltà umana.
Il film sovverte abilmente le aspettative del genere. La vera minaccia non proviene dal soprannaturale, ma dagli uomini stessi, sia dai fanatici cristiani che dagli abitanti del villaggio pagano. Black Death suggerisce che in un mondo apparentemente abbandonato da Dio, l’assenza di fede può essere terrificante quanto la sua versione più dogmatica e violenta. È un’opera intelligente, cupa e senza speranza, un potente promemoria di come l’orrore più profondo risieda spesso nel cuore umano.
Echi da un’Epoca Buia
Questo viaggio attraverso trenta film indipendenti sul Medioevo rivela un paesaggio cinematografico vasto, complesso e incredibilmente fertile. Lungi dall’essere un genere monolitico, il cinema d’autore ha utilizzato questo periodo storico non per fuggire dalla realtà, ma per affrontarla in modo più diretto e radicale. Dalle vette filosofiche di Bergman e Tarkovsky, dove la ricerca di Dio si scontra con il silenzio del cosmo, al fango viscerale di German e Verhoeven, dove il corpo e la violenza regnano sovrani, questi film usano il passato per tendere uno specchio oscuro al nostro presente.
Abbiamo visto come la decostruzione del mito cavalleresco possa diventare una satira sulla narrazione stessa, come il folk horror possa esplorare le radici della paura e della superstizione, e come la visione intransigente di un regista possa trasformare un budget limitato in un’opera di straordinaria potenza atmosferica. Queste pellicole rifiutano le risposte facili e l’escapismo romantico, offrendo in cambio qualcosa di molto più prezioso: un confronto potente, e spesso indimenticabile, con le tenebre persistenti e la luce occasionale e miracolosa dello spirito umano. Dimostrano che i viaggi più avvincenti nel passato sono quelli che, alla fine, ci conducono più in profondità dentro noi stessi.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
In questo video ti spiego la nostra visione

