Il cinema ha sempre avuto un rapporto ossessivo con il denaro. L’immaginario collettivo è segnato dai grattacieli di Wall Street, da eroi negativi come Gordon Gekko e dall’eccesso sfrenato di The Wolf of Wall Street. Queste opere hanno trasformato l’avidità in un grande spettacolo, in parabole morali sulla corruzione del Sogno Americano.
Ma oltre alla narrazione del trionfo e della caduta, il denaro è anche un’altra cosa. È un sistema, un campo di forza invisibile che governa le vite, plasma le coscienze e detta le regole di un gioco quasi sempre truccato. Esiste un cinema che compie un atto radicale: mostra il denaro non per quello che compra, ma per quello che fa.
Questo cinema analizza la critica al capitalismo, l’incubo di chi resta escluso, la disperata e tragica normalità dell’indebitamento. È un cinema che esplora le conseguenze, non solo l’eccesso. Questa guida è un percorso che unisce i film più famosi sul potere della finanza alle più taglienti opere d’autore. Dalle sale riunioni dove si è decisa la crisi finanziaria globale alle periferie dimenticate dove se ne pagano ancora le conseguenze, ecco una selezione di film che hanno osato interrogare il vero prezzo del capitale.
Parte 1: Il Crollo del Sistema: Voci dalla Crisi Finanziaria
La crisi finanziaria del 2008 non è stata solo un evento economico; è stata una crisi morale, un momento in cui il linguaggio astratto della finanza si è schiantato contro la dura realtà della vita delle persone. I film di questa sezione non si limitano a raccontare il crollo, ma ne dissezionano la logica disumana. Emerge un tema costante: l’astrazione della finanza genera una profonda spersonalizzazione. Quando il mondo è ridotto a formule matematiche, a derivati e a credit default swap, il costo umano delle decisioni svanisce. La catastrofe non è più una questione di famiglie che perdono la casa, ma di un algoritmo che smette di funzionare. Questa distanza etica è il vero cuore della critica mossa dal cinema indipendente, che mostra come la rovina di milioni di persone possa essere orchestrata da individui che non devono mai guardare in faccia le proprie vittime.
Questo sistema malato non si limita a fallire; contagia moralmente chiunque vi partecipi. In un ambiente dove la sopravvivenza è l’unica regola, la moralità diventa un lusso insostenibile. Le pellicole che seguono dimostrano come una struttura corrotta costringa anche gli individui con buone intenzioni a diventare complici, trasformando le vittime in carnefici. La partecipazione al sistema, in tempi di crisi, non ammette neutralità: richiede un compromesso, una macchia sull’anima, dimostrando che la moralità individuale è impotente di fronte a un collasso sistemico.
Margin Call (2011)
In una grande banca d’investimento di Wall Street, un analista junior scopre che i modelli di rischio della società sono catastroficamente errati. La scoperta innesca una frenetica e claustrofobica notte di decisioni, mentre i vertici della banca si confrontano con un crollo imminente che potrebbe non solo distruggere l’azienda, ma anche innescare una crisi finanziaria globale.
Margin Call è un thriller da camera che si svolge quasi interamente nell’arco di 24 ore, all’interno dei confini asettici di un grattacielo di Manhattan. J.C. Chandor trasforma la complessa terminologia finanziaria in un dialogo teso e letale, dove il destino dell’economia mondiale è legato a una formula matematica. Il film eccelle nel mostrare la disumanità di un sistema in cui la catastrofe imminente non è percepita in termini di sofferenza umana, ma come un problema di “liquidare asset tossici”. I personaggi, interpretati da un cast corale straordinario, non sono mostri, ma professionisti intrappolati in un dilemma morale dove l’unica via d’uscita per salvare se stessi è condannare milioni di sconosciuti.
Inside Job (2010)
Narrato da Matt Damon, questo documentario vincitore del Premio Oscar analizza in modo meticoloso e implacabile le cause della crisi finanziaria del 2008. Attraverso interviste a finanzieri, politici, giornalisti e accademici, il film di Charles Ferguson costruisce un’accusa schiacciante contro la deregolamentazione selvaggia, l’avidità sistemica e la corruzione che hanno portato l’economia globale sull’orlo del baratro.
Inside Job è il saggio definitivo sulla crisi finanziaria. Con la lucidità di un’inchiesta giornalistica e il ritmo di un thriller, il film non si limita a puntare il dito contro i banchieri, ma svela una rete di complicità che si estende fino ai vertici del potere politico e accademico. Ferguson dimostra come decenni di deregolamentazione abbiano creato un “governo di Wall Street”, dove i conflitti di interesse non sono l’eccezione ma la regola. È un’opera fondamentale che espone la crisi non come un incidente, ma come il risultato inevitabile di un sistema progettato per arricchire pochi a spese di molti.
99 Homes (2014)
Dennis Nash, un onesto operaio edile, viene sfrattato brutalmente dalla sua casa insieme alla madre e al figlio piccolo. A metterlo sulla strada è Rick Carver, un carismatico e spietato broker immobiliare che prospera sulla crisi dei pignoramenti. In preda alla disperazione, Nash accetta di lavorare per l’uomo che gli ha rovinato la vita, diventando a sua volta un esecutore di sfratti e imparando i trucchi di un mestiere crudele.
Se Margin Call e Inside Job mostrano la crisi dall’alto, 99 Homes di Ramin Bahrani ce la racconta dal basso, dal prato di una casa dove vengono gettati i mobili di una famiglia. Il film è un moderno patto faustiano, un dramma morale di rara potenza che esplora la disperazione economica e il compromesso etico. La discesa di Nash nel mondo di Carver è una tragica parabola su come un sistema predatorio costringa le sue vittime a diventare complici per sopravvivere. Non ci sono facili risposte, solo la domanda straziante: cosa saresti disposto a fare per riavere la tua casa?
The Corporation (2003)
Questo documentario provocatorio parte da una premessa tanto semplice quanto geniale: se la legge considera le corporazioni come persone giuridiche, che tipo di persona sarebbe una corporazione? Applicando i criteri diagnostici del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-IV), il film giunge a una conclusione sconcertante: la corporazione moderna è uno psicopatico.
The Corporation è un testo fondamentale per comprendere la logica intrinseca del capitalismo aziendale. Attraverso una serie di casi studio, interviste e analisi storiche, il film dimostra come l’obbligo legale di una corporazione di porre il profitto dei suoi azionisti al di sopra di ogni altra considerazione la porti a manifestare tratti psicopatici: indifferenza per i sentimenti altrui, incapacità di mantenere relazioni durature, disprezzo per la sicurezza degli altri e incapacità di sentirsi in colpa. È un’analisi radicale che fornisce la grammatica per decifrare i comportamenti visti in tanti altri film di questa lista.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
In questo video ti spiego la nostra visione
Cosmopolis (2012)
Il miliardario ventottenne Eric Packer attraversa una Manhattan paralizzata dal traffico e dalle proteste anti-capitaliste, chiuso nella sua limousine ipertecnologica e insonorizzata. Il suo obiettivo è un semplice taglio di capelli dal suo barbiere d’infanzia, ma il viaggio si trasforma in un’odissea esistenziale e autodistruttiva, mentre il suo impero finanziario crolla a causa di una scommessa sbagliata sullo yuan.
Tratto dal romanzo di Don DeLillo, Cosmopolis di David Cronenberg è una gelida e stilizzata allegoria del tardo capitalismo. La limousine di Packer è una metafora della bolla in cui vive l’élite finanziaria, un non-luogo disconnesso dalla realtà fisica, dove il denaro è un flusso di dati astratti su uno schermo. Il film esplora l’alienazione profonda di un uomo che ha perso ogni contatto con il mondo materiale e umano. La sua ricerca di “qualcosa di più” è una disperata pulsione di morte, il desiderio di un sistema che, avendo consumato tutto il resto, non può che iniziare a consumare se stesso.
Parte 2: Sopravvivere ai Margini: Racconti di Precarietà e Povertà
Lontano dai grafici azionari e dalle astrattezze della finanza, c’è il costo umano. Questa sezione esplora le vite di coloro che abitano ai margini del sogno americano, dove la sopravvivenza è una lotta quotidiana. Un elemento stilistico e tematico ricorrente in queste opere è la giustapposizione tra l’innocenza dell’infanzia e lo squallore della povertà. Mostrando la precarietà attraverso gli occhi di un bambino, o di chi è costretto a proteggerlo, questi registi creano un potente cortocircuito emotivo. Il gioco, l’avventura e la meraviglia infantile si scontrano con la realtà della fame, dello sfratto e della disperazione adulta, ponendo una domanda etica fondamentale: quale società permette che la magia dell’infanzia sia minacciata da una brutalità così tangibile?
In queste narrazioni, la strada non è una via di fuga verso un futuro migliore, ma un circuito chiuso di precarietà. Diventa il paesaggio della gig economy, un non-luogo dove la mobilità non è una scelta ma una necessità, un ciclo infinito di lavori stagionali a basso salario. La frontiera, un tempo promessa di infinite possibilità, si trasforma così in una trappola, un simbolo non di liberazione ma di sfruttamento continuo.
The Florida Project (2017)
Nell’ombra viola del Magic Kingdom di Disney World, la piccola Moonee vive un’estate di avventure e marachelle con i suoi amici. La loro casa è il “Magic Castle”, un motel dai colori pastello che ospita famiglie in condizioni di estrema precarietà. Mentre Moonee esplora il suo mondo con l’energia e la meraviglia dei suoi sei anni, sua madre Halley lotta disperatamente per pagare l’affitto settimanale.
Con uno stile immersivo e quasi neorealista, Sean Baker realizza un capolavoro di empatia e critica sociale. The Florida Project contrappone la fantasia artificiale e a pagamento di Disney World con la cruda realtà della povertà che si annida alle sue porte. Il film, girato ad altezza di bambino, ci fa vivere la gioia e la resilienza dell’infanzia, rendendo ancora più straziante la consapevolezza della precarietà che incombe. È un ritratto indimenticabile di un’America invisibile, che costruisce castelli delle favole ignorando chi vive ai suoi margini.
Nomadland (2020)
Dopo aver perso tutto nella Grande Recessione, Fern, una donna sulla sessantina, carica i bagagli sul suo furgone e si mette in viaggio, esplorando una vita fuori dalla società convenzionale come una nomade moderna. Attraversando gli sconfinati paesaggi dell’Ovest americano, Fern si unisce a una comunità di altri nomadi, trovando lavoro stagionale e imparando a sopravvivere ai margini.
Vincitore del Leone d’Oro e di tre Premi Oscar, Nomadland di Chloé Zhao è un’opera ibrida, a metà tra finzione e documentario, che dà voce a una generazione dimenticata. Il film esplora la complessa dialettica tra libertà e necessità, mostrando come la vita “on the road” sia tanto una scelta spirituale quanto una conseguenza della precarietà economica. La critica implicita a colossi come Amazon, che prosperano grazie a questa forza lavoro flessibile e a basso costo, è sottile ma potente. È un poema visivo sulla resilienza, la ricerca di comunità e la dignità umana di fronte al fallimento del sogno americano.
Wendy and Lucy (2008)
Wendy sta guidando verso l’Alaska in cerca di un lavoro estivo in un conservificio, con la sola compagnia della sua amata cagna, Lucy. Quando la sua vecchia auto si rompe in una piccola città dell’Oregon, una serie di piccole ma catastrofiche sfortune si abbatte su di lei. Un arresto per un piccolo furto di cibo per cani la separa da Lucy, e la sua fragile stabilità finanziaria si sgretola rapidamente.
Il cinema minimalista di Kelly Reichardt raggiunge qui uno dei suoi apici. Wendy and Lucy è un ritratto straziante della precarietà economica, dove ogni dollaro conta e un singolo imprevisto può portare alla rovina totale. La performance silenziosa e disperata di Michelle Williams cattura perfettamente l’ansia di chi vive senza una rete di sicurezza. Il film è una critica potente a una società che colpevolizza la povertà e non offre supporto a chi si trova in difficoltà, mostrando come la fragilità economica possa portare alla perdita di tutto, anche degli affetti più cari.
Winter’s Bone (2010)
Ree Dolly, una ragazza di diciassette anni degli Ozarks, si prende cura dei suoi due fratelli più piccoli e della madre catatonica. Quando scopre che suo padre, un produttore di metanfetamine, ha messo la loro casa come garanzia per la cauzione ed è poi scomparso, Ree deve avventurarsi nel pericoloso e omertoso mondo della sua comunità per trovarlo, vivo o morto, prima che la famiglia perda tutto.
Winter’s Bone è un “country noir” di una durezza implacabile, che ha rivelato al mondo il talento di Jennifer Lawrence. Il film di Debra Granik è un’immersione senza filtri nella povertà rurale americana, dove l’economia illegale della droga ha sostituito ogni altra forma di sostentamento. La determinazione di Ree è un atto di resilienza feroce in un mondo governato dalla scarsità, dalla violenza e da un codice d’onore spietato. È un’opera che mostra la sopravvivenza non come un’aspirazione, ma come una guerra quotidiana combattuta con coraggio e disperazione.
American Honey (2016)
Star, un’adolescente proveniente da una famiglia disastrata, fugge da una vita senza futuro unendosi a una “mag crew”, un gruppo di giovani disadattati che viaggiano attraverso il Midwest americano vendendo abbonamenti a riviste porta a porta. Trascinata in un vortice di feste, illegalità e amori precari, Star cerca il suo posto nel mondo ai margini del sogno americano.
Andrea Arnold firma un poema epico on the road, un ritratto vibrante e sensoriale della gioventù dimenticata d’America. Girato con uno stile quasi documentaristico, American Honey cattura l’energia caotica e la disperazione di una generazione che vive alla giornata. Il film è una critica al capitalismo dal punto di vista di chi ne è stato espulso, mostrando una sottocultura basata sullo sfruttamento reciproco ma che, paradossalmente, offre anche un fugace senso di libertà, comunità e appartenenza. È un’esperienza cinematografica immersiva e indimenticabile.
Blue Ruin (2013)
Dwight è un senzatetto che vive nella sua vecchia Pontiac blu. La sua esistenza ai margini viene sconvolta quando scopre che l’uomo che ha ucciso i suoi genitori sta per essere rilasciato di prigione. Spinto da un desiderio di vendetta a lungo sopito, Dwight, un uomo sprovveduto e terrorizzato, si imbarca in una goffa e sanguinosa missione che scatena una faida violenta con una famiglia spietata.
. Il regista Jeremy Saulnier mostra la violenza non come un atto catartico e stilizzato, ma come un’impresa sporca, difficile e terrificante, soprattutto per chi non ha le risorse economiche e sociali per portarla a termine. L’incompetenza di Dwight rende la sua vendetta ancora più angosciante e realistica. Il film è una potente riflessione su come la mancanza di denaro trasformi la giustizia fai-da-te da fantasia eroica a un incubo brutale e senza via d’uscita.
Parte 3: La Gerarchia Invisibile: Lotta di Classe e Disuguaglianza Sociale
Il denaro non crea solo ricchezza o povertà; costruisce gerarchie, muri invisibili che separano i mondi. I film di questa sezione, provenienti da diverse cinematografie nazionali, utilizzano il linguaggio del cinema per rendere tangibile l’astrazione della lotta di classe. Un espediente comune è l’uso dello spazio e dell’architettura come metafora della disuguaglianza. Le abitazioni non sono semplici sfondi, ma manifestazioni fisiche della struttura sociale: si vive in alto o in basso, in spazi aperti e luminosi o in seminterrati angusti e bui. L’atto stesso di salire o scendere le scale diventa un commento visivo sulla mobilità sociale, dimostrando che la disuguaglianza non è solo una condizione economica, ma un ambiente costruito che confina e definisce le esistenze.
In questi sistemi brutalmente iniqui, emerge un altro tema, profondo e pessimista: la virtù non paga. La bontà, la dignità e l’innocenza non vengono premiate, ma sistematicamente sfruttate o annientate. Questi film mettono in scena il fallimento della meritocrazia, suggerendo che in una società profondamente diseguale, le qualità personali non sono sufficienti per sopravvivere, e tanto meno per prosperare. Il sistema stesso è amorale, e coloro che tentano di attraversarlo mantenendo intatta la propria integrità sono spesso i primi a essere spezzati.
Parasite (Gisaengchung) (2019)
La famiglia Kim vive in un misero appartamento seminterrato, lottando per la sopravvivenza. Quando il figlio Ki-woo ottiene un lavoro come tutor per la figlia della ricca famiglia Park, si apre uno spiraglio. Con astuzia e inganno, i Kim si infiltrano uno dopo l’altro nella lussuosa villa, dando vita a una simbiosi precaria che è destinata a sfociare in una tragedia grottesca e violenta.
Palma d’Oro a Cannes e primo film non in lingua inglese a vincere l’Oscar come Miglior Film, Parasite di Bong Joon-ho è un capolavoro di tensione, umorismo nero e critica sociale. Il regista orchestra una perfetta allegoria della lotta di classe, dove l’architettura della villa dei Park, con le sue linee pulite e i suoi livelli sovrapposti, diventa il teatro della disuguaglianza. Il film esplora con maestria le linee invisibili di odore e status che separano i due mondi, mostrando come l’aspirazione a una vita migliore possa trasformarsi in una guerra spietata quando le vie legittime sono precluse.
Shoplifters (Manbiki Kazoku) (2018)
Ai margini di Tokyo, una sgangherata “famiglia” vive di espedienti, piccoli furti e della pensione della nonna. Nonostante la povertà e l’illegalità, i legami che li uniscono sono forti e affettuosi. La loro precaria armonia viene messa in discussione quando accolgono in casa una bambina maltrattata, un atto di gentilezza che finirà per svelare i segreti su cui si fonda la loro esistenza.
Con la sua consueta delicatezza e profondità, Hirokazu Kore-eda firma un’altra Palma d’Oro che interroga il concetto stesso di famiglia. Shoplifters è una critica sottile ma potente a una società giapponese che preferisce non vedere la propria povertà e che criminalizza chi vive ai margini. Il film pone una domanda fondamentale: cosa definisce una famiglia? I legami di sangue o la cura, l’affetto e la sopravvivenza condivisa? È un’opera di un’umanità struggente, che trova calore e dignità nella precarietà.
I, Daniel Blake (2016)
Daniel Blake, un falegname di Newcastle sulla sessantina, ha un grave attacco di cuore e i medici gli vietano di tornare al lavoro. Nonostante ciò, il sistema di welfare statale lo giudica idoneo al lavoro, negandogli l’indennità di malattia. Per ricevere un sussidio, è costretto a navigare in un labirinto burocratico digitale e a cercare un lavoro che non può accettare, una lotta kafkiana per la propria dignità.
Ken Loach, maestro del realismo sociale, vince la sua seconda Palma d’Oro con un film di una potenza politica e umana devastante. I, Daniel Blake è un atto d’accusa contro le politiche di austerità e la disumanizzazione della burocrazia, che trasforma i cittadini in numeri e la solidarietà in un’anomalia. La lotta di Daniel non è solo per i soldi, ma per il rispetto. È un film che dà un volto e una voce a coloro che vengono schiacciati da un sistema progettato per frustrare e umiliare, un grido di rabbia e un appello alla compassione.
Le nevi del Kilimangiaro (Les Neiges du Kilimandjaro) (2011)
Michel, un delegato sindacale di Marsiglia, vive una vita serena con sua moglie Marie-Claire, circondato da amici e familiari. La loro felicità viene brutalmente interrotta quando subiscono una rapina in casa. Lo shock più grande arriva quando Michel scopre che uno degli aggressori è un giovane operaio che lui stesso, con un sorteggio, aveva contribuito a licenziare. Questo evento scatena una profonda crisi di coscienza.
Ispirato a una poesia di Victor Hugo, il film di Robert Guédiguian è una riflessione toccante sulla coscienza di classe, la solidarietà e il divario generazionale. L’opera esplora il dilemma morale di una classe operaia “arrivata”, che gode di una certa stabilità economica, quando si confronta con la disperazione e la rabbia di chi è stato lasciato indietro. È un film profondamente umano che interroga i valori della sinistra, chiedendosi cosa resti della solidarietà quando la paura e il risentimento prendono il sopravvento.
Parte 4: L’Economia del Crimine: Quando la Disperazione Diventa Violenza
Quando le porte dell’economia legale si chiudono, spesso si aprono quelle del mondo criminale. I film di questa sezione esplorano la zona grigia dove la disperazione economica si trasforma in violenza. Queste opere demistificano la figura del gangster cinematografico, spogliandola di ogni aura romantica. Il crimine non è più una via per il potere o la ricchezza sfrenata, ma un’altra forma di lavoro precario. La rapina in banca diventa un “lavoretto” mal pianificato per arrivare a fine mese; lo spaccio, un’attività secondaria per integrare un reddito insufficiente. I protagonisti non sono boss carismatici, ma “dipendenti” a basso costo di un’impresa criminale, facilmente rimpiazzabili e costantemente a rischio.
In questa rappresentazione, emerge un’inquietante verità: la logica del capitalismo predatorio e quella della malavita non sono opposte, ma speculari. Entrambe operano secondo principi di efficienza spietata, controllo del mercato e massimizzazione del profitto a qualsiasi costo umano. Il mondo del crimine diventa così uno specchio deformato che riflette la violenza e l’amoralità intrinseche di un sistema economico non regolamentato. Che si usi una pistola o un mutuo subprime, l’obiettivo finale rimane lo stesso: l’accumulazione di capitale, indifferente alle vite che distrugge lungo il cammino.
Good Time (2017)
Dopo una rapina in banca finita male, Nick, un ragazzo con disabilità cognitive, viene arrestato e rinchiuso a Rikers Island. Suo fratello Connie, disperato e in fuga, si lancia in un’odissea notturna e adrenalinica attraverso i bassifondi di New York per trovare i soldi della cauzione e liberarlo. Ogni tentativo di risolvere un problema ne crea uno peggiore, in una spirale di violenza e caos.
I fratelli Safdie firmano un thriller al neon, un’iniezione di pura energia cinetica che non lascia respiro. Good Time è il ritratto di una disperazione febbrile, dove la criminalità non è una scelta strategica ma una serie di improvvisazioni fallimentari. La regia frenetica e la colonna sonora pulsante ci immergono nella mente di Connie, un opportunista che usa e scarta le persone come risorse. Il film è una critica feroce a un sistema che non offre vie d’uscita, dove il crimine è solo un altro gig mal pagato nell’economia dei marginalizzati.
Gomorra (2008)
Ispirato al libro-inchiesta di Roberto Saviano, il film intreccia cinque storie di vita e di morte all’ombra della Camorra, nelle periferie di Napoli e Caserta. Dagli adolescenti che sognano di diventare come Tony Montana, al sarto che lavora per l’alta moda, dal ragazzino che fa da vedetta, al “contabile” che distribuisce le pensioni alle famiglie dei carcerati, fino ai trafficanti di rifiuti tossici.
Matteo Garrone realizza un’opera monumentale e agghiacciante, che demolisce ogni rappresentazione romantica della mafia. Gomorra adotta uno stile quasi documentaristico per mostrare la Camorra non come una “famiglia” con un codice d’onore, ma come un’impresa capitalista spietata e pervasiva. Il “Sistema” è un’entità economica che controlla ogni aspetto del territorio, dalla moda ai rifiuti, trattando le persone come capitale umano usa e getta. È un film che mostra il crimine come un’industria e la vita come una merce.
Dogman (2018)
In una desolata periferia costiera, Marcello, un uomo mite che gestisce una toelettatura per cani, cerca di vivere una vita tranquilla, diviso tra l’amore per sua figlia e un piccolo spaccio di cocaina. La sua esistenza viene sconvolta dalla sua amicizia tossica con Simoncino, un ex pugile violento e brutale che lo terrorizza e lo trascina in un vortice di umiliazione e criminalità, fino a un’esplosione di vendetta inaspettata.
Matteo Garrone torna nelle periferie dell’anima con un western urbano di rara potenza. Dogman è uno studio sulla disperazione economica e sulla dinamica vittima-carnefice. La performance di Marcello Fonte, premiato a Cannes, è straordinaria nel dare corpo a un uomo buono schiacciato dalla violenza e dalla necessità. Il film esplora come la lotta per la dignità in un angolo dimenticato dell’economia possa portare alla disumanizzazione, dove l’unico linguaggio rimasto è quello della violenza.
Killing Them Softly (2012)
Quando una partita di poker protetta dalla mafia viene rapinata da due balordi, l’intera economia criminale locale entra in crisi. La fiducia è venuta meno e il denaro smette di circolare. Per ristabilire l’ordine e la “fiducia nel mercato”, la malavita assolda Jackie Cogan, un sicario professionista cinico e pragmatico. Il suo compito è trovare i colpevoli ed eliminarli, ma le sue azioni sono costantemente commentate in sottofondo dai discorsi dei politici sulla crisi finanziaria del 2008.
Andrew Dominik dirige un thriller criminale nichilista e stilizzato che funziona come una esplicita allegoria del capitalismo americano. Il film usa il linguaggio della malavita per parlare della crisi finanziaria, del bailout e della logica del mercato. La mafia non agisce per vendetta, ma per “ristabilire la fiducia dei consumatori”. Il monologo finale di Brad Pitt, pronunciato mentre Barack Obama parla di unità nazionale, è una delle più feroci e lucide condanne del sogno americano mai viste al cinema: “L’America non è una nazione. È un business. E ora pagami”.
Parte 5: Satire e Grottesco: Lo Specchio Deformante del Capitalismo
A volte, per descrivere una realtà che ha superato ogni logica, l’unico strumento adeguato è la satira. I film di questa sezione usano l’umorismo nero, il surrealismo e il grottesco per mettere a nudo l’assurdità del capitalismo contemporaneo. Un bersaglio privilegiato è il linguaggio. Il gergo aziendale, la retorica motivazionale o il lessico pretenzioso del mondo dell’arte vengono smascherati come gusci vuoti, strumenti per occultare una realtà di sfruttamento e vacuità. Questi registi prendono alla lettera tale assurdità, la spingono alle sue estreme conseguenze, e così facendo ne rivelano la violenza nascosta.
Un altro filo conduttore è l’irruzione di una forza primordiale e istintiva che manda in frantumi la fragile facciata della società “civile” e benestante. Che sia un uomo che si comporta come una scimmia a una cena di gala o un padre che sabota la carriera della figlia con scherzi demenziali, queste esplosioni di caos rivelano l’ipocrisia e la paura che si celano sotto la superficie dell’ordine borghese. Suggeriscono che le nostre sofisticate strutture sociali ed economiche sono solo un sottile velo che nasconde una natura umana più basilare e, spesso, molto meno nobile.
Sorry to Bother You (2018)
In una versione alternativa di Oakland, Cassius “Cash” Green è un telemarketer squattrinato che fatica a fare una vendita. La sua vita cambia quando un collega più anziano gli svela il segreto del successo: usare la sua “voce da bianco”. Con questa nuova abilità, Cash scala rapidamente la gerarchia aziendale, scoprendo un universo macabro e surreale che lo costringe a scegliere tra la ricchezza e la sua coscienza.
L’esordio alla regia del musicista e attivista Boots Riley è una satira anti-capitalista esplosiva, un’opera folle e geniale che mescola commedia, fantascienza e critica politica. Sorry to Bother You usa l’assurdo per parlare di temi reali come il razzismo, lo sfruttamento del lavoro e l’assimilazione culturale. La “voce da bianco” è una metafora brillante del code-switching, mentre il segreto che si cela ai vertici dell’azienda è una rappresentazione grottesca e terrificante della logica ultima del profitto.
The Square (2017)
Christian è il curatore di un prestigioso museo di arte contemporanea a Stoccolma. Mentre prepara una nuova installazione chiamata “The Square“, un’opera che invita all’altruismo e alla fiducia, la sua vita va in pezzi dopo il furto del suo cellulare. I suoi maldestri tentativi di recuperarlo lo trascinano in una serie di situazioni imbarazzanti e moralmente ambigue, che mettono a nudo l’ipocrisia del suo mondo.
Con questa satira spietata e vincitrice della Palma d’Oro, Ruben Östlund mette alla berlina il mondo dell’arte contemporanea, l’élite liberale e la vacuità della responsabilità sociale performativa. Il film è una sequenza di scene memorabili e cringe, tra cui spicca una cena di gala terrorizzata da un performance artist che impersona un primate. The Square è una riflessione acuta e scomoda sul divario tra i nostri ideali e le nostre azioni, in un mondo in cui la solidarietà è spesso solo un’installazione artistica.
Force Majeure (Turist) (2014)
Una famiglia svedese modello è in vacanza in un lussuoso resort sciistico sulle Alpi francesi. Durante un pranzo sulla terrazza, una valanga controllata sembra sul punto di travolgerli. Nel panico generale, il padre, Tomas, afferra il suo iPhone e fugge, abbandonando moglie e figli. La valanga si ferma, ma qualcosa nella dinamica familiare si è rotto per sempre.
Ruben Östlund firma una commedia nera di rara intelligenza, una dissezione chirurgica della mascolinità moderna e della fragilità del benessere borghese. Il film esplora le conseguenze di un singolo atto di codardia, che fa crollare l’immagine dell’uomo come protettore della famiglia. Con un umorismo glaciale e una precisione psicologica implacabile, Force Majeure analizza le aspettative sociali, i ruoli di genere e l’incapacità di affrontare la verità, mostrando come un attimo di paura primordiale possa distruggere un’intera vita costruita sulla stabilità e l’apparenza.
Toni Erdmann (2016)
Winfried, un insegnante di musica in pensione con un debole per gli scherzi, è preoccupato per sua figlia Ines, una consulente aziendale tutta d’un pezzo che lavora a Bucarest e sembra aver perso ogni gioia di vivere. Per cercare di riconnettersi con lei, Winfried si inventa un alter ego: “Toni Erdmann“, un life coach stravagante con una parrucca e una dentiera, che inizia a infiltrarsi nel mondo professionale della figlia.
Il capolavoro di Maren Ade è un’opera unica, un film di quasi tre ore che riesce a essere esilarante, commovente e profondamente critico. Toni Erdmann è un’analisi potente dell’alienazione nella cultura aziendale globalizzata, dove l’efficienza e il profitto hanno soffocato ogni forma di autenticità. L’irruzione del caos e dell’assurdo, incarnati da Toni, diventa un atto di resistenza, un disperato tentativo di reintrodurre l’umanità, l’umorismo e l’amore in un mondo che li ha dimenticati.
Capitalism: A Love Story (2009)
Vent’anni dopo aver messo sotto accusa la General Motors in Roger & Me, Michael Moore torna sul tema centrale della sua carriera: l’impatto devastante del dominio corporativo sulla vita degli americani. Questa volta, il colpevole è il sistema stesso: il capitalismo. Il film è un’indagine sulle radici della crisi finanziaria del 2008 e una critica radicale a un sistema economico che Moore definisce “malvagio”.
Con il suo stile polemico e inconfondibile, Moore costruisce un’accusa appassionata e personale. Capitalism: A Love Story mette in luce le storie delle vittime umane dell’avidità aziendale, dalle famiglie che subiscono pignoramenti ingiusti ai dipendenti sulle cui vite le aziende stipulano polizze assicurative segrete (“dead peasants insurance”). Pur con le sue semplificazioni, il film ha il grande merito di porre una domanda fondamentale e scomoda: è possibile conciliare il capitalismo con la democrazia?
Parte 6: Radici e Frontiere: Il Sogno Americano Messo a Nudo
Quest’ultima sezione raccoglie film che, attraverso sguardi al passato o l’analisi di drammi quotidiani, interrogano i miti fondanti del capitalismo e del “sogno americano”. Invece di concentrarsi sulla meccanica del denaro, queste opere esplorano quella che potremmo definire “l’economia della felicità”. Mettono in discussione la correlazione diretta tra benessere finanziario e appagamento emotivo, suggerendo che le connessioni sociali, la resilienza interiore e la propria visione del mondo siano forme di capitale molto più preziose.
Questi film sfidano l’assunto fondamentale secondo cui la ricerca della ricchezza è sinonimo della ricerca della felicità. Creando personaggi i cui stati emotivi sono slegati dalla loro condizione economica, suggeriscono che la vera povertà della vita moderna sia spesso una povertà di relazioni, una solitudine profonda. In questo senso, gli asset più importanti non sono quelli monetari, ma quelli umani: l’amicizia, l’empatia, la capacità di trovare gioia al di là del consumo. È una critica filosofica, che sposta il focus dal sistema economico all’individuo e alla sua capacità di definire il proprio concetto di “valore”.
First Cow (2019)
Nell’Oregon del 1820, un cuoco solitario e un immigrato cinese in fuga stringono una profonda amicizia. Insieme, avviano un’attività di successo vendendo dolci fritti, resi deliziosi da un ingrediente segreto: il latte che mungono di nascosto dall’unica mucca del territorio, di proprietà del ricco fattore locale. Il loro piccolo e fragile sogno imprenditoriale si scontra presto con la dura realtà della frontiera.
Kelly Reichardt dirige una parabola silenziosa e profonda sulle origini del capitalismo americano. First Cow ritrae l’impresa non come un atto eroico e individualista, ma come un’avventura precaria costruita sull’amicizia e, inevitabilmente, sul furto. Il film interroga la natura stessa del “sogno americano”, mostrando come la spinta verso il profitto possa mettere a repentaglio il bene più prezioso: la connessione umana. È un’opera di una bellezza malinconica, che riflette sulla storia per parlare del nostro presente.
Another Year (2010)
Tom e Gerri sono una coppia di mezza età felicemente sposata. La loro vita, scandita dal lavoro, dalla cura del loro orto e dalle cene con gli amici, è un’isola di stabilità e contentezza. Attorno a loro, però, orbita un universo di solitudine e infelicità: l’amica Mary, disperatamente alla ricerca di un amore che la salvi dall’alcolismo e dall’invecchiare, e il vecchio amico Ken, affogato nella depressione e nel cibo spazzatura.
Mike Leigh è un maestro nel creare ritratti umani di una profondità e verità sconcertanti. Another Year, strutturato attorno al passare delle quattro stagioni, è una meditazione agrodolce sulla felicità, l’amicizia e la solitudine. Il film esplora con sottigliezza il divario tra chi ha trovato un equilibrio e chi si è perso lungo la strada, mettendo in discussione il legame tra il comfort della classe media e un’autentica realizzazione personale. Non offre giudizi, ma un’osservazione compassionevole e acuta della condizione umana.
Happy-Go-Lucky (2008)
Poppy è un’insegnante trentenne di una scuola elementare di Londra, dotata di un ottimismo apparentemente incrollabile e di una risata contagiosa. La sua visione del mondo, sempre positiva e aperta agli altri, viene messa alla prova quotidianamente, in particolare dal suo istruttore di guida, Scott, un uomo consumato dalla rabbia, dal razzismo e da teorie cospirazioniste.
Ancora Mike Leigh, ma con un tono completamente diverso. Happy-Go-Lucky è uno studio complesso e affascinante sulla natura della felicità. L’ottimismo di Poppy è una scelta, una disposizione d’animo o una forma di negazione volontaria? Il film non dà una risposta facile. Attraverso la performance straordinaria di Sally Hawkins, l’opera esplora la felicità come un possibile atto di resistenza politica, un modo per opporsi a un mondo che sembra incoraggiare il cinismo e la miseria. È un film che sfida lo spettatore, a volte irritandolo, ma lasciandolo con domande profonde sul nostro modo di stare al mondo.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
In questo video ti spiego la nostra visione

