“Nado” di Daniele Farina: l’intervista

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La nostra conversazione con il regista del documentario, Daniele Farina, con il co-sceneggiatore Roberto Farina e con Massimo Canuti, che ha partecipato alla realizzazione ed è figlio dell’artista Nado Canuti

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Venerdì 13 giugno 2025 alle 17, presso il Caffè Letterario di Roma,verrà proiettato Nado di Daniele Farina, secondo documentario in concorso della quarta edizione di Indiecinema Film Festival. Nado è un viaggio intimo e potente attraverso la vita e le opere di uno dei più grandi scultori italiani del Novecento. Una storia di resistenza e coraggio, una parabola umana di volontà e gioia che attraversa un intero secolo. Nado Canuti ha affrontato le difficoltà della vita fin da giovane con tenacia e capacità di visione, trasformando ogni ostacolo in materiale da scolpire. La storia di un uomo che con tre dita ha plasmato il suo destino.

Prima dell’evento abbiamo voluto parlarne più approfonditamente con Daniele Farina, il regista del documentario, con il co-sceneggiatore Roberto Farina e con Massimo Canuti, che oltre a essere figlio dell’artista ha partecipato alla realizzazione del film.

Innanzitutto, Daniele, da dove è nata l’idea di un documentario su Nado Canuti? Conoscenza personale, amicizie comuni, o ammirazione per l’opera di questo grande artista?

L’idea di realizzare un film su Nado Canuti è nata attraverso una combinazione di conoscenze personali e coincidenze significative. Conoscevo già Massimo, il figlio di Nado, che essendo anche un copywriter aveva collaborato con me su alcuni progetti commerciali qualche anno fa.

Nell’autunno 2023 mi trovavo verso la fine di un rapporto lavorativo al quale avevo dedicato diversi anni ma che si è rivelato piuttosto deludente; sentivo quindi il bisogno di mettermi alla prova dedicandomi ad un progetto di più alto spessore.

È stato proprio in quel momento che Massimo mi ha parlato di suo padre e della sua incredibile storia.

Pur avendo una struttura classica, il documentario si sofferma particolarmente sulla giovinezza di Nado, in un’epoca tanto lontana quanto pericolosamente vicina: gli anni della guerra. Quanto quell’incidente occorso in giovane età ha segnato il destino dell’artista, oltre ad acuirne la sensibilità e la necessità di esprimerla? E quanto questo soffermarsi vuole essere un monito oggi, che abbiamo la guerra dietro l’angolo ed il pericolo che tutto si ripeta, diverso ma non diverso?

Daniele Farina: Sì, nel documentario abbiamo scelto di soffermarci con attenzione sugli anni della giovinezza di Nado, perché sono stati determinanti nel tracciare il suo percorso umano e artistico.

. È vero che oggi viviamo un presente inquieto, e comprendo che certe immagini o racconti possano evocare ciò che ci circonda, ma non c’è una volontà esplicita di lanciare un monito o di proporre un parallelo diretto con le guerre contemporanee. Il nostro intento è stato piuttosto quello di raccontare come certe esperienze drammatiche possano trasformarsi in una scintilla creativa e quanto quelle cicatrici del passato abbiano inciso profondamente sull’identità artistica e personale di Nado.

Roberto Farina: Quella di Nado è la storia di una serie di rivolte:

Nado si rivolta al tedesco invasore, che voleva una popolazione quieta e asservita; si rivolta alla società, che lo voleva relegare ai margini di una vita da invalido al Don Bosco; si rivolta alla fabbrica, che lo voleva trattenere in sé come categoria protetta. Si rivolta a fatalità e povertà e mutilazione per costruire la vita che voleva lui: una vita d’artista. La guerra è lo sfregio iniziale, il guanto della prima sfida che la vita gli getta in faccia. Non potevamo non raccontarla, come non potevamo non soffermarci sul contributo del giovane Nado alla Lotta di Liberazione, a cui arriva attraverso la figura di un giovane di poco più maturo: il ventenne Carlo Grazi. Grazi fu fucilato. Nei fori delle pallottole di quella porta di ferro di Bettolle adesso è entrata l’edera. La porta è arrugginita, l’edera vive. La pace, secondo noi, è come quell’edera.

Daniele Farina, lei ha fatto rivivere la vita di Nado attraverso interviste al protagonista, a chi lo conosceva da ragazzo ed alla moglie, alternando immagini affascinanti della toscana con rare immagini di repertorio. Questo intrecciarsi di stili e di ritmo è ispirato dal vissuto avventuroso dell’artista?

Sin dall’inizio volevo dare al film un respiro cinematografico. Ho strutturato la storia in tre atti e all’interno di essi ho diversificato ritmo e stile in base sia al mio gusto personale che alle esigenze della narrazione. Credo che questa alternanza abbia dato al film il vantaggio di non essere mai prevedibile nel modo in cui le cose vengono raccontate.

D’altra parte Nado stesso è sempre stato in perenne trasformazione e anche il film – in questo senso – ne è la naturale conseguenza.

Adesso ci piacerebbe coinvolgere nella discussione il figlio, Massimo Canuti… quello che colpisce di Nado Canuti uomo, oltre al suo vissuto ed al suo coraggio, è l’ironia: quell’ironia irriverente e pragmatica tipicamente toscana, che ha accompagnato l’artista lungo tutto il suo percorso ed è ancora viva oggi, in tarda età. Quanta Toscana c’è in Nado e quanta in lei?

Sì, è vero. Mio padre è figlio della sua terra, e l’essersi poi trasferito a Milano (diventando quindi un milanese d’adozione) non ha compromesso minimamente questa sua caratteristica. Direi perciò che di Toscana in lui ce n’è ancora moltissima. Non posso dire altrettanto di me: malgrado anche io sia nato in Toscana, a Piombino (LI), ho finito per crescere nel capoluogo lombardo. Tuttavia non ho dimenticato le mie radici, anzi. Tengo sempre a sottolineare la mia appartenenza a quella bellissima terra. Inoltre i miei nonni materni, che proprio a Piombino avevano una casa, mi hanno permesso di tornare spesso lì. Non a caso ho ancora molti amici toscani.

Lei però ha scelto di esprimersi attraverso la scrittura; ha mai pensato di seguire le orme paterne? E quanto è stato importante l’esempio – umano ed artistico – di suo padre per lei?

Le volte che ho provato a misurarmi con il disegno e con la scultura (discipline interessanti ai miei occhi), ho trovato i miei tentativi del tutto insoddisfacenti, malgrado mio padre abbia spesso cercato di convincermi del contrario. Fin da piccolo amavo molto leggere e scrivere, e in questo ho preso da mia madre, che scrive molto bene e che, per un periodo, è stata giornalista.

. La materia con cui si lavora cambia, ma forse il risultato è simile.

Devo riconoscere che ho “scoperto” mio padre soltanto negli ultimi anni. Mi spiego meglio: durante la mia giovinezza ho spesso avuto dei contrasti con lui (penso faccia parte del percorso di crescita di ognuno di noi), ma poi, con il tempo, ha finito per prevalere l’ammirazione nei suoi confronti.

Ciò che tuttora continua a stupirmi è la sua incredibile forza, la sua inesauribile energia. Per citare una frase del film: mio padre non si è mai abbattuto. È sempre riuscito a risorgere. Vorrei riuscire a fare mia questa sua qualità.

Roberto Farina, come è stato invece lavorare alla sceneggiatura a quattro mani col figlio del protagonista del documentario? Ha adattato il suo stile alla narrazione o viceversa? Quanto peso ha avuto poter discutere all’impronta dei particolari su Nado con chi ha vissuto parte di quella storia personalmente e parte gli è stata tramandata dai racconti familiari? E che idea si è fatto di Nado Canuti?

Quando Daniele mi ha proposto di entrare nel progetto, ho accettato subito, perché la storia di Nado rientra in pieno nelle mie corde. Da quando anni fa ho cominciato a scrivere, sono stato subito attirato dalle storie marginali di colossi dimenticati. Quel che ho fatto è stato affiancare Massimo nelle interviste e Daniele nel montaggio, cercando di contribuire col mio occhio – partecipe, ma esterno – all’elaborazione della biografia di suo papà. Perché qui sta la peculiarità di questo documentario: è la storia di un grande artista del Novecento italiano, narrata da uno scrittore che lo chiama “Maestro” e da uno scrittore che lo chiama “papà”. In quanto al regista, lui lo chiama semplicemente Nado.

Per finire, e qui chiamiamo nuovamente in causa Daniele Farina, vorremmo parlare un po’ di Morgan: come è nata una collaborazione artistica così importante, per le musiche del documentario?

Morgan ha partecipato ad un altro documentario cui sto lavorando. Qualche giorno dopo le riprese sono stato a casa sua e – tra le altre cose – gli ho parlato di questo film, che ha acceso sin da subito la sua curiosità e il suo interesse. Dopo aver visto alcuni spezzoni si è proposto di comporre le musiche e siamo andati avanti a lavorare insieme, quasi tutti i giorni, per diversi mesi.

Devo dire che lavorare a così stretto contatto con un artista così profondo è stata un’esperienza emozionante, molto gratificante e davvero formativa. Marco si è messo a disposizione del film con un’umiltà e una generosità incredibili. Il suo contributo è stato assolutamente determinante per portare il film ad un livello successivo.




Michela Aloisi

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Immagine di Stefano Coccia

Stefano Coccia

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