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L’angelo sterminatore riparatore
Volti attoniti eppure mobili, loquaci e tuttavia paralizzati dal terrore, bagnati da una luce strana, né giorno né notte. L’Inferno sono già quegli indizi del loro essere materia, carne uguale a transenne e reticolati. Venti persone, donne e uomini, cinte in un cumulo di macerie: dannati. Elaborano un trauma, fissano e piangono, s’interrogano e parlano. «Siamo morti!… Siamo morti?». Stupore e incredulità. Sembra un happening anni ’70. Sguardi nuche corpi tra il suono di pietre, ferraglie e passi. Primi piani visivi e primi piani acustici. Il sonoro si avverte soprattutto nel silenzio, assoluto, se non fosse per il tramenìo (in)significante dei loro gesti, minimi. Strappare una foglia, ballare, accennare un timido sorriso, fumare. Ogni tanto, utilizzate con parsimonia eloquente, come un asse di simmetria lirica, per meglio dar forma sonora al vuoto di ascolto, ai puntelli sonori diegetici, arrivano la musica di Andrea Manzoli e la voce del soprano Valentina Coladonato.
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Stefano Odoardi, il regista
Virgilio del cinema indipendente, Stefano Odoardi aveva già saputo guidarci nella tunnel vision delle opere precedenti, magnifiche dilatazioni sensoriali tese a ricreare e ricongiungere universi separati. Visione bigia, plumbea, opaca, come qui, o immersa nel chiarore di una bellezza paesaggistica rifulgente e impercepita, quella del lutto latteo di Una ballata bianca (2007). Gli echi di Cechov e Beckett, possibili numi tutelari, sono una volta di più trascesi in un’opera-magma che riarticoli i corpi, il dolore e la luce. Per tutto ri-comprendere e risanare, proprio a partire dal disastro.
Un attimo prima di arrivare all’Inferno, l’opera apre in un’altra parte dello spazio. Una manciata di secondi nel bosco, in un recinto sacro sorvegliato dagli alberi, dove il Godot che mai arriva, stavolta un Angelo donna, sta invece per liberarsi dall’enorme gabbia che lo imprigiona, evocato dal buio non completamente spento delle anime in pena. Mentre un tocco di campana, incipit sonoro del film, fa da punto di raccordo tra i due mondi. È la soglia segreta della natura, una sfera della psiche e del furore divino. Spunta parallela alla lacerazione dei dannati, come principio di una rinascita iniziatica correlata alla caduta.
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Lack-Hell, il primo pezzo di una trilogia
Mancanza-Inferno, primo tassello di una trilogia che approderà al naturale opposto Paradiso, non nega sin dall’inizio, sin da qui, l’equivalenza paradossale di ciò che appare contrapposto. Lo spazio pertinente all’Angelo e quello relativo ai dannati sono luoghi equidistanti, richiamantisi a vicenda. La loro convergenza distilla la consapevolezza della caducità delle cose, la scoperta terribile eppure luminosa (e illuminante) dell’inferno del bisogno e dell’attaccamento. Al pari di un testo buddista. Il mono no aware alberga nelle pietre viste come gocce umiliate di una roccia creduta indistruttibile. Metafora numinosa di un terremoto interiore.
Per bipartire natura e cultura, eternità e tempo, permanenza e impermanenza, il film utilizza differenti strumenti tecnici e linguistici. Se attorno ai dannati ruota una telecamera digitale ad alta definizione, è invece una macchina da presa in 16mm a pedinare, contemplare e ricreare lo sguardo di Angélique Cavallari. L’Angelo in impermeabile chiaro col caschetto alla Louise Brooks, però più scomposto. Seducente e stilizzato Angelo dell’imperfezione. Da un lato un’attrice professionista, alle prese con un grande classico, le Elegie duinesi (1912-1922) di Rilke, testo poetico capitale sul (non) senso della vita; dall’altro, i protagonisti presi dalla strada, chiamati a improvvisare dialoghi e monologhi non scritti.
Dividere per far convergere, sintesi di antitesi. Per questa via, i versi detti dall’Angelo, sterminatore e riparatore a un tempo, Angelus Novus foriero di verità tenute a bada e luci-fero, riformulano il teatro. La scena si fa immagine pura, cinema di sguardo, lungi da convenzioni e accademismi letterari. Laddove, le testimonianze non fiction degli autentici dannati/vittime attingono al profondo (psicologico, poetico) di un documentario di avanguardia espressivo, mai di mera informazione. Scisma più che sisma. Bandita infatti ogni menzione al terremoto aquilano del 2009, se non nei titoli di coda. I personaggi sono al di fuori del tempo, attori di un trauma confuso col dolore e l’orrore di vivere. Potrebbero appartenere indifferentemente a un luogo di guerra o di occupazione, di crisi economica e di sfratto, di perdita del lavoro o di un affetto. La ricostruzione a cui si allude è quella, rilkiana, di un ri-percepire diversamente le cose, all’ombra di una positività superiore.
Anche la ri-edificazione (ma negativa, massificante) dell’emarginato Franz Biberkopf avveniva in un paesaggio pietroso e indifferenziato, guardato dagli Angeli (due), nella parte finale e cimiteriale di Berlin Alexanderplatz (1980). Fassbinder, oltre che a Döblin (stesse generazione e lingua di Rilke), si era ispirato al concreto Inferno astratto di Pasolini. Quel sadiano Salò (1975) sulle mutazioni antropologiche del sistema, già presagito dai cadaveri nudi tra le pietre del sogno di Accattone (1961), altro personaggio trasformato. Dialettica dell’illuminsmo, rivelazione della barbarie della civiltà e della razionalità, il terreno battuto da Rilke. La medesima civilizzazione forzata, che con sassi e macerie scandiva lo scenario di un rifondato teatro nel cinema, l’avant-garde del collettivo Nouveau Théâtre tunisino di Fadhel Jaïbi e Fadhel Jaziri (autori di film come al-῾Urs, 1978, e ῾Arab, 1988). Sicuramente memori di Fassbinder e Pasolini, e possibili predecessori del percorso plurifonico (teatro, cinema, poesia, video-arte) di Odoardi. Tutto torna, inevitabilmente. In considerazione del fatto che oggi più che mai ci soffoca il caos da “civiltà” (se vi piace ancora chiamarla così) e il terremoto aquilano è stato da subito letto come emblematica metafora di rovine anche eccedenti. Il degrado politico (Draquila, 2010, di Sabina Guzzanti), la condizione esistenziale, soprattutto giovanile, già terremotata di suo (Into the Blue, 2010, di Emiliano Dante), la patologica artificiosità-spettacolo della nostra vita sociale (Canto 6409, 2009, di Dino Viani). Proprio in mezzo a quelle macerie, Pippo Delbono ha scelto di incorniciare il profondo, insostenibile dolore di Amore carne (2001) e Sangue (2013).
Adesso, più che al centro, la tragedia appare sullo sfondo di un discorso di cui è tuttavia parte integrante. L’autore ne amplifica la portata, spostandola su un piano antropologico e psicanalitico. Film sociale? politico? Anche. Senza esserlo comunque fino in fondo. Come le elegie di Rilke o il terremoto non esprimono pienamente il film. Tutto è testo e pre-testo insieme. Non ci si lega a niente in particolare, restando costantemente sulla soglia, determinatamente indeterminati. L’attuale waste land emerge da una forma-contenuto in simbiosi con l’opera letteraria di partenza, viaggio mesto di sublimazione della propria scissione. Struttura-racconto a tutto aderente e coerentemente oltre, e al di là, di ogni elemento e argomento di cui serve. Testo classico e scena free, pellicola e digitale, dizione impostata e neo-realismo docu (quello, per restare in ambito italiano, post Sacro Gra e post TIR). Esempi che definiscono ma non esauriscono la portata del film.
A suo modo panteista, l’autore guarda con rispetto a qualsiasi forma di dolore, piccolo o grande, e ponendo sullo stesso piano letteratura elevata e testimonianza quotidiana (sorti entrambi dal profondo e dalla psicologia del profondo). Bello vedere come gli attori non professionisti, posti in una condizione volta a ricreare materialmente la «grande unità» perseguita da Rilke, e combaciante con i temi e il cinema di Stefano Odoardi (sospensione tra naturale e soprannaturale, confronto con morte e precarietà da cui prima si era stati distolti, convergenza di individuale con collettivo, senso del finito come infinito), riescano a toccare, con parole e mezzi propri, un’uguale essenza poetica. Discorrendo della punizione insita nella condizione umana, di solitudine e di assenza, ricreano Rainer Maria Rilke ad altezza del quotidiano. Anche per vie traverse, tramite l’inconscio.
Un ragazzo nomina l’animale, esempio, per il poeta austriaco-boemo (insieme all’angelo, l’eroe, il saltimbanco, la marionetta e il bambino), di serena inconsapevolezza della morte. «Ho visto un gatto che girava» sussurra profetico, vicino così alla bimba buñueliana di Viridiana (1961) che aveva scorto un minaccioso toro nero, prolessi al dramma di pulsioni trattenute. Più tardi, anche un signore, in lacrime, racconta della morte del suo gattino, Lulù: inconsapevole richiamo al personaggio di Wedekind e Pabst, contemporaneamente innocente e terribile, a seconda di come lo si guardi. «Mi sento innocente. Mi sento all’inferno» viene riferito da una battuta. E su Lulu, si è detto, forse è stato modellato l’Angelo (s)composto della Cavallari.
La divisione alla base del film svela quindi, a gradi, l’alba di un nuovo comprendere. «Come fai a dire che non c’è più la bellezza?… che c’è solo il silenzio?… che vorresti fare una cosa e non puoi farlo perché è vietato?». Nuove articolazioni di luce e di ombra profilano la perseguita(ta) comunione. Un dialogo tra due uomini diventa quasi impercettibile, l’intimità sfocia nel silenzio e nell’inaudibile, nell’inquadratura sfocata. Qui e altrove la lunghezza focale ridimensiona lo sfondo, facendo affiorare l’immagine-affezione, il volto. Il fuoco spostato dei piani evidenzia l’oscillazione tra inferno e anticamera del purgatorio, preludio al paradiso. E sono pure le parole a perdere fuoco, peso, o probabilmente ad acquistarlo, elevate a formule eucaristiche, transustanziate in preghiera. Sarà un verso della decima elegia a Duino («Che il mio volto bagnato di lacrime brilli, e il pianto che non si vede fiorisca») a celebrare l’unione dei due orizzonti, umano e sovrumano, che nel finale si stringono in un abbraccio liturgico di toccante asciuttezza stilistica.
Riferendosi al cinema di ricostruzione storica, Umberto Barbaro avvertiva che l’immaginazione, se sviluppata coerentemente, finisce sempre per combaciare con la realtà, indovinando il passato e presagendo anche il futuro: il supremo mistero dell’arte. Naturalmente vale anche per l’adattamento di un testo e la ri-creazione visiva di un complesso stato d’animo. Mancanza-Inferno si offre come opera molteplice e unitaria, capace di abbattere le distanze di tempo e spazio non solo al suo interno. Se disposto ad accoglierlo, lo spettatore scisso può riceverne in cambio un guardare rinnovato, il dono di una radicale esperienza estetica. Altrimenti, si rischia di rimanere dannati, al riparo dal largo e intimo orizzonte semantico che il film dispiega. Un panorama interiore, prospero di bellezza mai scontata o separata. A cui lo stesso Rilke si sarebbe forse affacciato con gioia. •
Leonardo Persia, Rapporto confidenziale