Intervista a Gabriele Tacchi

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Conversando con il regista di “When Buying a Fine Murder”, in concorso alla terza edizione di Indiecinema Film Festival

Indiecinema Film Festival dedicherà a breve (ovvero domenica 23 giugno 2024) una speciale serata, presso La Bottega dell’Attore a Roma, ad alcuni tra i migliori lavori riconducibili al cinema di genere, che hanno caratterizzato le ultime selezioni della nostra kermesse cinematografica.
E tra questi non poteva certo mancare When Buying a Fine Murder di Gabriele Tacchi, eclettico cineasta che abbiamo scoperto con cortometraggi originali e capaci di scavarsi una nicchia significativa in ambito fantastico, come ad esempio Magenta. Ma è più specificamente di When Buying a Fine Murder, in concorso alla terza edizione del festival, che abbiamo parlato con lui.

Passione per i generi e modelli cinematografici

Dall’insieme dei lavori realizzati finora, compreso quindi “When Buying a Fine Murder”, si può dedurre che ad alimentare la tua passione per il cinema, Gabriele, siano in particolare determinati generi: Il giallo, l’horror, il fantastico. Se l’impressione è giusta, cosa puoi dirci a riguardo? A livello di autori e di singole pellicole c’è qualche fonte di ispirazione che vorresti mettere in evidenza?

Mi piace tutto il cinema di genere. Sicuramente non solo quello, ma trovo il cinema di genere, il giallo, l’horror e il fantastico, un modo per raccontare qualcosa di diverso dalla realtà, che di per se, a mio parere, non è interessante. Un punto di riferimento fisso per me è Hitchcock perché racconta anche situazioni, volendo, realistiche, ma le pone all’interno di una narrazione di non realismo. Lui stesso dice che la cosa importante è usare le immagini per raccontare, perchè il mezzo cinema è nato con le immagini. Questo mi interessa. Porre l’attenzione su un dettaglio, su un ritmo, su un suono, su un artificio creato per l’occasione. Mi viene sempre in mente Rear Window o Psycho o The Birds, per citare i più famosi, che possono essere visti anche senza audio e l’esperienza cinematografica non ne risente. A tal proposito mi viene in mente un altro esperimento fatto qualche anno fa da Soderbergh in cui ha preso il primo Indiana Jones, lo ha trattato in bianco e nero e ha messo una musica di sottofondo togliendo tutto l’audio originale del film. In questo senso si capisce la straordinarietà di Spielberg nel raccontare storie attraverso le immagini. Quindi anche Spielberg per me, come regista, è uno dei Grandi da seguire. L’ultimo che mi sento di disturbare è Scorsese che invece racconta sempre storie molto realistiche, ma lo fa con una narrazione cinematografica intensa e ricca di immagini, movimenti di macchina, inquadrature a volte bizzarre. La cinepresa la muove ovunque e questo secondo me è fondamentale.

Venendo ora più specificamente al corto “When Buying a Fine Murder”, sia a livello stilistico che di scelte narrative ci sono elementi che ci hanno fatto pensare un po’ ai Coen, un po’ a Tarantino, un po’ a Soderbergh e un po’ a Guy Ritchie, ad esempio per quei raccordi di montaggio così rapidi e tambureggianti. Come sei intervenuto qui sui tempi e sullo stile della narrazione?

Non so se mi fa piacere che i riferimenti siano così evidenti, speravo di essere riuscito a camuffarli di più. Ovviamente la mia è una boutade… il ritmo e lo stile narrativo sono assolutamente un mix di più autori, a volte utilizzati in maniera del tutto palese. Gli “swoosh”, i “tilt”, le sovrimpressioni, il montage frenetico, sono tutti elementi di quel cinema che non prende mai troppo sul serio se stesso, consapevole che l’autorialità con cui racconta le storie è molto più forte delle storie stesse. Ho puntato molto sul ritmo della narrazione, avendo anche mischiato i generi, proprio per agevolare un processo narrativo accattivante non tanto per intrattenere, ma proprio per stimolare visivamente una progressione narrativa che a fine film possa portare il pubblico a dire “ne voglio ancora”.

Genesi del corto e questioni di stile

Facendo un piccolo passo indietro, come è nato questo piccolo film? Dai titoli di coda abbiamo notato che c’è dietro un racconto di Jack Ritchie e che avete ottenuto dei permessi, per girarlo…

Si. Lessi una raccolta di racconti di Marcos y Marcos che ha riportato Jack Ritchie in Italia dopo tanto tempo. E molti di questi racconti mi hanno stregato. When buying a fine murder era quello più adattabile secondo me con una frase iniziale a effetto che mi ha stregato subito «È la prima volta che mi assumono per uccidere me stesso».
Tramite l’editore ho trovato chi possedeva i diritti a livello internazionale e ci siamo accordati su dei diritti internazionali non esclusivi per la realizzazione di un cortometraggio. Questo tipo di specifiche ci ha permesso di acquisire i diritti, altrimenti l’impegno economico sarebbe stato decisamente più gravoso. Vi consiglio comunque di recuperare questo titolo della Marcos y Marcos «Il grande giorno»

Ci pare che proprio il lavoro effettuato sui titoli di coda, assieme a certe soluzioni di montaggio e all’uso di sovrimpressioni, computer grafica, eccetera eccetera, si unisca ai dialoghi in inglese per conferire a un simile prodotto cinematografico quel timbro internazionale, il cui appeal va molto in direzione della cultura anglosassone. Come ti poni rispetto a tali elementi?

C’è da anticipare che essendo io figlio degli anni 80, ho vissuto il pieno della cinematografia moderna americana e di Hollywood. Rispetto ai nomi che ho citato poco fa, diciamo che ho conosciuto prima il cinema americano che quello italiano. Non è però per snobismo esterofilo che ho preso questa decisione. L’ho fatto per una questione di numeri e di festival. I festival internazionali sono di più e la questione delle selezioni è più facile se la lingua è inglese.
Non voglio però sminuire la questione narrativa. A me piace sempre mischiare i generi, i colori, gli effetti pratici da quelli visivi, quindi mi piace anche mischiare le lingue e, per quanto possibile, le culture. È chiaro che ad oggi ancora non sono riuscito a fare un lavoro di integrazione culturale, ma è un mio obiettivo portare il cinema fuori dai confini cercando in realtà di non porre confini al mezzo cinematografico.

Casting, location, colonna sonora

Come è avvenuto il casting, anche in merito alla scelta di natura linguistica, cui accennavamo prima?

Il casting è avvenuto in maniera semplice in realtà. Sono un attore e conosco il mondo degli attori, quindi ho chiesto a colleghi e amici attori se avessero dei nomi da suggerirmi. Ho fatto dei provini, non tanti, e voilà. Devo dire che all’inizio ho scritto il protagonista pensando a un mio amico attore, che però è abruzzese e non si è sentito di recitare in inglese. Mi ha ricordato un po’ l’episodio di Amélie in cui il regista all’inizio aveva ingaggiato un’attrice anglosassone che si è tirata indietro poi per questioni di lingua. Da attore lo capisco che recitare nella lingua che non ti appartiene è frustrante. In progetti tipo questo la velocità è importantissima e col senno di poi ringrazio quel mio amico di non aver accennato, sia per la questione della velocità come dicevo, ma poi perché mi ha permesso di conoscere Marco Quaglia che è un attore con cui sto continuando a lavorare. Mi sono trovato molto bene a lavorare con tutti gli attori. Maddalena Vallecchi Williams ha fatto la protagonista del mio primo lungometraggio che è ora in fase di post produzione. Il problema degli attori e delle attrici è che mancano i soldi… perchè quando trovi attori così bravi, tu che sei un regista, vorresti solo lavorare a nuove cose con loro.

Come vi siete mossi, invece, rispetto alle location e alla colonna sonora?

Le location sono state un po’ obbligate in quanto eravamo sotto pandemia, in un momento più leggero, però con le restrizione che tutti conosciamo. Quindi ho adeguato insieme a Emmanuele Rossi e a Beatrice Belli, la produttrice, la sceneggiatura in modo da avere le scene principali tutte in una location. Abbiamo affittato un villone nel viterbese che avesse anche degli spazi diciamo alternativi negli immediati pressi. Quindi abbiamo usato tutto l’usabile, compresa la bellezza di Roma come set naturale.
Per la colonna sonora mi sono servito del maestro compositore Filippo Stefanelli al quale ho chiesto cose anche complicate, perché la volontà di avere più generi insieme è rimasta anche nelle indicazioni che gli ho dato. Penso che abbia fatto un buon lavoro. Anche adesso sta componendo per il mio film.

Lavorare da indipendenti

Per essere un corto, “When Buying a Fine Murder” dura oltre mezz’ora e alcuni snodi narrativi vi appaiono comunque compressi, quasi come se tale progetto tendesse verso il lungometraggio o verso una possibile serializzazione. Lo hai mai pensato in questi termini?

Assolutamente si. Come però dicevo prima, ho avuto clausole molto strette dal detentore dei diritti di Ritchie. Non potevo lasciare aperta nessuna possibilità a serialità o superare un tot di minutaggio, che mi pare fosse 40 minuti. Questo perché ovviamente i diritti acquisiti avrebbero avuto un ammontare diverso in termini economici. Con i cortometraggi non si monetizza, con i lungometraggi si.

Per sceneggiare il racconto hai lavorato assieme allo scrittore Emmanuele Rossi, tuo sodale in diverse altre imprese. Come è nata e come si sta sviluppando questa collaborazione?

Emmanuele è un sodale. Hai detto bene. Siamo l’uno l’opposto dell’altro e rappresenta perfettamente Galaxia, il gruppo di produzione che ho creato. Baso tutto sul binomio, sullo Yin e Yang, sul lupo buono e quello cattivo, sul bianco e sul nero, sul bene e male… insomma… trova tu la derivazione simbolica che più ti piace.
Lui è uno scrittore fantastico. Una delle penne più incredibili che abbia mai incontrato. Stiamo cercando di lavorare in modo da far uscire i suoi libri. Tu stesso ne hai letto uno. Ora ne abbiamo fatto uscire un altro e per tutto il resto della prossima stagione ne usciranno altri tre.

Per finire, t’abbiamo visto muovere da indipendente nel cinema, nel teatro e persino nell’editoria… quanto può essere duro fare ciò qui in Italia? E da dove arrivano le soddisfazioni?

In Italia non è dura… è impossibile. E’ una roba da fede religiosa. Devi credere molto in quello che fai e le soddisfazioni in realtà non arrivano. Le devi creare tu stesso… le devi manovrare e far arrivare, perché non potrai mai competere con i grandi numeri delle grandi case editrici che spingono prodotti a volte di dubbia qualità artistica, ma di forte impatto popolare o intellettuale. Anche qui, non è snobismo, ma una realtà. Con Emmanuele e mio fratello Ruggero, altro socio fondatore di Galaxia, scherziamo che viviamo nel girone dei dannati e che ci stiamo facendo tutti i gironi per cercare di uscire e arrivare in paradiso… oppure regnare all’inferno. Dipende da quello che decideremo.

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Stefano Coccia

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