La Guida Definitiva ai Migliori Film Tratti da Storie Vere

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Ecco una selezione curata di film indipendenti che incarnano perfettamente il potere del cinema di interrogare la realtà, non solo di raccontarla. Queste opere trascendono la semplice biografia o la cronaca, utilizzando eventi reali come punto di partenza per esplorazioni profonde sulla memoria, il trauma, la società e la condizione umana. Abbandonando le formule rassicuranti delle grandi produzioni, questi registi d’autore ci offrono una visione più complessa, spesso scomoda, ma infinitamente più onesta di cosa significhi catturare una “storia vera” sullo schermo.

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Il cinema, nella sua essenza, non è una finestra sulla realtà, ma una cornice. I film più sinceri sono quelli che non nascondono questo artificio, ma lo usano per rivelare una verità più profonda, quella che Werner Herzog definirebbe una “verità estatica. I cineasti indipendenti, liberi dai vincoli commerciali che spesso sterilizzano le narrazioni mainstream, non si accontentano di riprodurre i fatti; li smontano, li interrogano, li filtrano attraverso una sensibilità artistica che trasforma la cronaca in arte. L’eredità del cinéma vérité non risiede tanto in una tecnica, quanto in una filosofia: la ricerca di un’autenticità che vada oltre la superficie degli eventi.

Questa non è una classifica, ma un viaggio curato attraverso opere fondamentali che dimostrano come il cinema indipendente affronta la materia del reale. Sono film che non forniscono risposte facili, ma pongono domande potenti. Non si limitano a mostrarci cosa è successo, ma ci fanno sentire il peso di quella realtà, ci costringono a mettere in discussione la sua rappresentazione e, infine, espandono la nostra comprensione di cosa possa essere, e fare, un film tratto da una storia vera.

American Animals

Quattro giovani uomini, annoiati dalla loro vita ordinaria in Kentucky, decidono di dare una scossa alla loro esistenza pianificando una rapina audace: rubare alcuni dei libri più rari e preziosi d’America dalla biblioteca della Transylvania University. Quello che inizia come un desiderio di avventura si trasforma rapidamente in un’impresa goffa e disperata, con conseguenze che nessuno di loro avrebbe potuto prevedere.

Il film di Bart Layton è una decostruzione geniale e sovversiva del genere heist movie e un’acuta riflessione sulla natura inaffidabile della memoria. Invece di limitarsi a drammatizzare la vera rapina del 2004, Layton fonde la narrazione con interviste documentaristiche ai veri protagonisti, che commentano, contraddicono e a volte mettono in dubbio la versione degli eventi che stiamo vedendo. Questa scelta formale trasforma il film in un’indagine sulla narrazione stessa. Non assistiamo semplicemente a una storia vera, ma alla dolorosa e confusa costruzione di quella storia, dove la verità è un mosaico di ricordi soggettivi e auto-giustificazioni. American Animals diventa così un ritratto potente di una mascolinità in crisi, di una generazione cresciuta con l’idea che la vita debba essere un film e tragicamente impreparata quando la realtà si rivela molto più caotica e priva di sceneggiatura.

Waltz with Bashir

Il regista Ari Folman incontra un vecchio amico dell’esercito che gli racconta di un incubo ricorrente legato alla loro esperienza nella guerra del Libano del 1982. Folman si rende conto di non avere alcun ricordo di quel periodo. Inizia così un viaggio per ricostruire il proprio passato, intervistando altri soldati e amici, nel tentativo di recuperare le memorie perdute del massacro di Sabra e Shatila.

Waltz with Bashir è un’opera rivoluzionaria che dimostra come l’animazione possa essere lo strumento più potente per esplorare i paesaggi interiori del trauma e della memoria. La scelta di Folman non è un vezzo stilistico, ma una necessità espressiva. L’animazione permette di visualizzare l’invisibile: i sogni, gli incubi, i ricordi frammentati e le allucinazioni che costituiscono l’esperienza post-traumatica. Il film è un’indagine psicologica che mette a nudo il meccanismo della dissociazione, il modo in cui la mente si protegge da orrori indicibili cancellandoli. Il culmine, in cui l’animazione lascia il posto a reali, strazianti filmati d’archivio del massacro, è uno dei momenti più devastanti della storia del cinema. È un pugno nello stomaco che annulla ogni distanza estetica, costringendo lo spettatore a confrontarsi con una realtà che nessuna forma d’arte può veramente contenere.

I, Tonya

Il film ripercorre la vita turbolenta della pattinatrice artistica Tonya Harding, dalla sua infanzia segnata dagli abusi della madre LaVona, alla sua ascesa come una delle atlete più talentuose ma controverse d’America. La narrazione culmina nel famigerato “incidente” del 1994, quando la sua rivale Nancy Kerrigan fu aggredita, un evento che trasformò una competizione sportiva in uno scandalo mediatico globale.

Craig Gillespie dirige un biopic feroce e sfacciato che utilizza uno stile narrativo frammentato, con interviste mockumentary e continue rotture della quarta parete, per riflettere la natura caotica e contraddittoria della storia stessa. I, Tonya non cerca di stabilire una verità oggettiva, ma esplora come le narrazioni vengono costruite, manipolate e vendute dai media e dagli stessi protagonisti. È un film sulla classe sociale, sul pregiudizio e sulla brutalità con cui l’opinione pubblica può creare e distruggere un’icona. La performance di Margot Robbie è straordinaria, ma è la struttura del film a essere veramente radicale: ci presenta una sinfonia di voci inaffidabili, lasciando a noi il compito di navigare in un mare di mezze verità e palesi menzogne. In questo, il film è meno un ritratto di Tonya Harding e più un’impietosa radiografia della cultura della celebrità e del giornalismo scandalistico.

American Splendor

La vita e i pensieri di Harvey Pekar, un archivista di un ospedale di Cleveland che diventa un’improbabile icona della scena dei fumetti underground. Pekar trasforma le frustrazioni e le piccole osservazioni della sua vita quotidiana in una serie di fumetti autobiografici, “American Splendor“, trovando il sublime nel banale e l’eroico nell’ordinario.

Questo film, diretto da Shari Springer Berman e Robert Pulcini, è un miracolo di inventiva biografica. Invece di seguire una narrazione lineare, mescola magistralmente la finzione (con un superbo Paul Giamatti nel ruolo di Pekar), il documentario (con il vero Harvey Pekar che commenta la sua stessa storia) e l’animazione (che dà vita ai suoi fumetti). Questa struttura ibrida non è un semplice trucco, ma un modo profondamente onesto di catturare l’essenza del lavoro di Pekar: la costante interazione tra la vita vissuta e la sua rappresentazione artistica. American Splendor esplora il curioso paradosso di un uomo che diventa famoso raccontando la propria normalità, mettendo in discussione i confini tra l’individuo e il personaggio che egli stesso ha creato. È un omaggio commovente e intelligente all’arte come strumento per dare un senso al caos della vita, una celebrazione dell’antieroe per eccellenza.

Mishima: A Life in Four Chapters

Il film esplora la vita e l’opera del controverso scrittore giapponese Yukio Mishima, concentrandosi sul suo ultimo giorno, il 25 novembre 1970, quando tentò un colpo di stato prima di commettere il suicidio rituale (seppuku). La narrazione intreccia questo evento con flashback della sua vita e rappresentazioni stilizzate di tre dei suoi romanzi.

L’opera di Paul Schrader è uno dei biopic più audaci e concettualmente rigorosi mai realizzati. Invece di una biografia convenzionale, Schrader crea un collage visivo e tematico che rispecchia la filosofia di Mishima stesso: la fusione totale di arte, vita e azione. La struttura del film è divisa in quattro capitoli, che alternano tre stili distinti: il realismo quasi documentaristico dell’ultimo giorno (a colori), i flashback in bianco e nero della sua formazione e le magnifiche, teatrali e iper-stilizzate messe in scena dei suoi romanzi. Questa scelta formale non è casuale; è una tesi cinematografica sulla ricerca di Mishima di un’armonia impossibile tra bellezza, corpo e ideologia. Sostenuto dalla colonna sonora ipnotica e pulsante di Philip Glass, Mishima non si limita a raccontare una vita, ma tenta di penetrare l’estetica complessa e ossessiva di un artista per cui la morte era l’atto creativo definitivo.

Una visione curata da un regista, non da un algoritmo

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Hunger

Ambientato nel carcere di Maze, in Irlanda del Nord, nel 1981, il film documenta gli ultimi mesi di vita di Bobby Sands, membro dell’IRA che guidò lo sciopero della fame per protestare contro la revoca dello status di prigionieri politici da parte del governo britannico. La narrazione si concentra sulla “protesta delle coperte” e la “protesta dello sporco”, prima di culminare nel digiuno fatale di Sands.

Il debutto alla regia di Steve McQueen è un’opera di un rigore formale e di una potenza viscerale sconcertanti. Hunger non è un film politico nel senso tradizionale; è un’esplorazione quasi astratta del corpo come ultimo baluardo della resistenza. McQueen evita ogni retorica e si concentra sulla fisicità della protesta con uno sguardo quasi scultoreo. Attraverso lunghi piani sequenza, un dialogo ridotto al minimo e un’attenzione ossessiva ai dettagli sensoriali (lo sporco, il dolore, il decadimento fisico), il film costringe lo spettatore a un’esperienza immersiva e quasi insopportabile. Il cuore del film è una straordinaria scena di 22 minuti, girata in un’unica inquadratura fissa, in cui Sands (un incredibile Michael Fassbender) discute la moralità dello sciopero con un prete. È un momento di altissima densità filosofica che precede la discesa finale nel silenzio e nel sacrificio del corpo, affermando McQueen come uno dei più importanti cineasti contemporanei.

The Diving Bell and the Butterfly

Jean-Dominique Bauby, carismatico direttore della rivista francese Elle, viene colpito da un ictus devastante che lo lascia completamente paralizzato, affetto dalla “sindrome locked-in. L’unica parte del suo corpo che può muovere è la palpebra sinistra. Attraverso questo unico mezzo di comunicazione, detterà un intero libro di memorie, lettera per lettera.

Julian Schnabel, pittore prima che regista, realizza un miracolo di cinema soggettivo. The Diving Bell and the Butterfly non si limita a raccontare la storia di Bauby, ma ci trasporta direttamente all’interno della sua coscienza. Attraverso una fotografia sfocata, una narrazione in prima persona e un montaggio che alterna la claustrofobica realtà ospedaliera a voli pindarici dell’immaginazione e del ricordo, il film riesce a tradurre in immagini l’esperienza di essere una mente vibrante intrappolata in un corpo immobile. È un’opera di una bellezza struggente, un inno alla resilienza dello spirito umano e al potere della memoria e della fantasia come uniche, vere forme di libertà. Il film dimostra che anche quando il corpo è una “campana da palombaro”, la mente può librarsi leggera come una “farfalla”.

My Left Foot

La storia di Christy Brown, un uomo irlandese nato con una grave paralisi cerebrale che lo lascia quasi completamente paralizzato. Dato per spacciato da molti, Christy, con l’aiuto della sua tenace madre e della sua famiglia operaia, impara a scrivere e a dipingere usando l’unica parte del suo corpo che riesce a controllare: il suo piede sinistro.

Diretto da Jim Sheridan, My Left Foot è un film che trascende i cliché del dramma ispiratore grazie alla sua onestà brutale e alla performance leggendaria di Daniel Day-Lewis. Il film non santifica il suo protagonista; al contrario, ci mostra Christy Brown in tutta la sua complessa umanità: un uomo irascibile, testardo, a tratti crudele, ma dotato di un’intelligenza e di una forza di volontà prodigiose. La performance di Day-Lewis è più di una prodezza tecnica; è l’incarnazione fisica della lotta per l’espressione, la metafora centrale del film. My Left Foot è un ritratto crudo e commovente della creatività come atto di pura sfida contro un destino avverso, e un potente omaggio alla resilienza di una famiglia della classe operaia.

The Elephant Man

Nella Londra vittoriana, il chirurgo Frederick Treves scopre John Merrick, un uomo gravemente deforme esibito come un’attrazione da baraccone. Treves lo porta al London Hospital, inizialmente per studi scientifici, ma presto scopre che dietro l’aspetto mostruoso si nasconde un’anima gentile, intelligente e sensibile.

Il secondo lungometraggio di David Lynch, girato in un bianco e nero espressionista mozzafiato, è molto più di un biopic. È una favola oscura e straziante sulla natura della bellezza, della crudeltà e della dignità umana. Lynch usa la storia vera di Joseph Merrick per orchestrare una potente meditazione sulla dualità della società: da un lato la brutalità del “freak show”, dall’altro l’ipocrisia voyeuristica dell’alta società, che tratta Merrick come un oggetto di curiosità caritatevole. Il film è un’indagine sulla superficie e sulla profondità, sull’orrore esteriore e sulla bellezza interiore. La celebre, disperata affermazione di Merrick, “Non sono un animale! Sono un essere umano!”, risuona come il cuore pulsante di un’opera che sfida lo spettatore a guardare oltre le apparenze e a riconoscere l’umanità nei luoghi più inaspettati.

Christiane F.

Berlino Ovest, fine anni ’70. . Presto, però, la sua ricerca di evasione la conduce in un tunnel di dipendenza dall’eroina e prostituzione, con la stazione dello Zoo di Berlino come epicentro della sua discesa agli inferi.

Tratto dal libro-inchiesta Wir Kinder vom Bahnhof Zoo, il film di Uli Edel è un pugno nello stomaco, un documento di realismo sociale di una crudezza quasi insopportabile. Lontano da ogni moralismo o sensazionalismo, il film adotta uno stile quasi documentaristico per immergerci nella quotidianità squallida e disperata dei giovani tossicodipendenti. La Berlino ritratta è una città fredda e indifferente, magnificamente catturata dalla fotografia e resa iconica dalla colonna sonora di David Bowie, che appare anche in un cameo. Christiane F. è un film che non offre redenzione né facili spiegazioni, ma mostra con una lucidità spietata il corpo come campo di battaglia, un luogo di piacere effimero e di inesorabile decadimento. Il suo status di cult movie deriva proprio da questa autenticità scioccante, che all’epoca rappresentò una rottura radicale con le rappresentazioni edulcorate dell’adolescenza.

Gomorrah

Attraverso cinque storie intrecciate, il film offre uno spaccato della vita quotidiana sotto il dominio della Camorra nella provincia di Napoli e Caserta. Dalle lotte di potere tra clan rivali alla gestione dei rifiuti tossici, dal reclutamento di giovani adolescenti al lavoro di un sarto d’alta moda, la narrazione mostra come il sistema criminale pervada ogni aspetto della società.

Matteo Garrone, basandosi sul libro-inchiesta di Roberto Saviano, demolisce l’immaginario romantico del cinema di mafia. Gomorrah non ha protagonisti carismatici né una trama epica; è un’opera corale, girata con uno stile quasi etnografico, che espone la Camorra non come un’organizzazione, ma come un ecosistema. L’uso di attori non professionisti, alcuni dei quali con reali legami con la criminalità, e di location autentiche conferisce al film un’atmosfera di autenticità opprimente. Garrone non giudica, osserva. Il risultato è un’analisi spietata del potere, del denaro e della violenza come motori di un capitalismo selvaggio. Non è un film di gangster; è un film sull’economia, sulla politica e sulla geografia di un territorio divorato da un cancro invisibile ma onnipresente.

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Memories of Murder

In una piccola provincia della Corea del Sud, nel 1986, due detective locali, rozzi e brutali, si trovano a indagare su una serie di efferati omicidi di giovani donne. A loro si unisce un detective più metodico proveniente da Seul, ma l’indagine si scontra con l’incompetenza, la corruzione e la mancanza di mezzi di una forza di polizia impreparata, sullo sfondo della dittatura militare.

Il capolavoro di Bong Joon Ho è molto più di un thriller procedurale. È un’acuta e devastante critica sociale che utilizza la cornice del “true crime” per mettere a nudo le ferite di un’intera nazione. Bong orchestra un’incredibile miscela di toni, passando senza sforzo dalla commedia nera al dramma straziante, dalla suspense alla satira politica. Il vero colpevole, nel film, non è solo il serial killer (che all’epoca dell’uscita del film non era ancora stato identificato), ma il sistema stesso: una società repressiva e patriarcale, rappresentata da una polizia che preferisce estorcere confessioni con la tortura piuttosto che seguire le prove. Il celebre sguardo in macchina finale del detective Park è un momento di cinema puro, una rottura della quarta parete che non cerca risposte ma ci lascia sospesi in un abisso di incertezza, un’immagine indelebile del fallimento e del trauma irrisolto di un paese.

Badlands

South Dakota, anni ’50. La quindicenne Holly viene sedotta dal venticinquenne Kit, un ribelle disadattato che assomiglia a James Dean. Dopo che Kit uccide il padre di Holly, che si opponeva alla loro relazione, i due iniziano una fuga attraverso le desolate “badlands” del Montana, lasciandosi alle spalle una scia di violenza casuale e insensata.

Il folgorante esordio di Terrence Malick è un’opera lirica e disturbante che sovverte il mito della coppia di amanti in fuga. Ispirato alla vera storia di Charles Starkweather e Caril Ann Fugate, il film è caratterizzato da un tono sognante e distaccato che contrasta in modo agghiacciante con la brutalità degli eventi. La narrazione è affidata alla voce fuori campo di Holly, che descrive gli omicidi con la stessa ingenuità e banalità con cui commenterebbe una rivista per adolescenti. Malick non è interessato alla psicologia dei suoi personaggi, ma li ritrae come figure quasi mitiche, perse in un vuoto spirituale e morale. Badlands è un poema visivo sulla perdita dell’innocenza e sulla disconnessione da un mondo che ha perso i suoi punti di riferimento, un capolavoro seminale del New Hollywood.

My Friend Dahmer

Ohio, fine anni ’70. Jeffrey Dahmer è un adolescente goffo e solitario, tormentato da una famiglia disfunzionale e da impulsi oscuri e inconfessabili. Il film, raccontato dal punto di vista del suo amico e futuro fumettista Derf Backderf, segue l’ultimo anno di liceo di Dahmer, mostrando la lenta e inquietante formazione di uno dei più noti serial killer d’America.

A differenza di innumerevoli film e serie che si concentrano sugli aspetti più macabri dei suoi crimini, My Friend Dahmer sceglie un approccio più sottile e per questo ancora più terrificante. Il film di Marc Meyers è un ritratto agghiacciante della normalità che circonda l’origine del male. Non cerca di spiegare o giustificare, ma osserva con uno sguardo freddo e quasi empatico la solitudine, l’alienazione e la patologia nascente di un ragazzo che sta per varcare un punto di non ritorno. Girato nei luoghi reali dell’adolescenza di Dahmer, inclusa la sua casa d’infanzia, il film è pervaso da un senso di ineluttabilità e di tristezza. È un’opera che ci costringe a confrontarci con una verità scomoda: i mostri non nascono dal nulla, ma crescono in silenzio, spesso sotto gli occhi di tutti.

The Magdalene Sisters

Irlanda, 1964. Quattro giovani donne vengono rinchiuse contro la loro volontà nelle “lavanderie della Maddalena”, istituti gestiti da suore cattoliche destinati a “redimere” ragazze considerate “peccatrici. Le loro colpe vanno dall’essere state vittime di stupro, all’essere troppo belle o semplicemente ragazze madri. All’interno, subiscono abusi fisici e psicologici in un regime di lavoro forzato.

Il film di Peter Mullan è un atto di accusa potente e necessario contro un capitolo oscuro e a lungo taciuto della storia irlandese. Con uno stile diretto e privo di fronzoli, Mullan espone l’ipocrisia e la crudeltà di un sistema teocratico che puniva le donne per la loro stessa esistenza. Il film è un racconto corale di sofferenza, ma anche di resilienza e di amicizia. Le performance delle giovani attrici sono di un’intensità straziante. The Magdalene Sisters non è un film facile da guardare; è un’opera dura, che provoca rabbia e indignazione, ma che svolge un ruolo fondamentale nel dare voce alle migliaia di donne la cui dignità è stata calpestata in nome di una morale perversa.

Fruitvale Station

Il film ricostruisce le ultime 24 ore di vita di Oscar Grant, un ragazzo di 22 anni della Bay Area, il 31 dicembre 2008. La narrazione segue Oscar nei suoi tentativi di essere un figlio, un compagno e un padre migliore, prima che un alterco su un treno della metropolitana culmini nel suo tragico e insensato omicidio per mano di un agente di polizia.

L’opera prima di Ryan Coogler è un film di una potenza e di un’urgenza devastanti. Invece di concentrarsi sul processo o sull’indagine, Coogler fa una scelta tanto semplice quanto radicale: restituire l’umanità a una vittima che i media avevano ridotto a una statistica. Attraverso piccoli gesti e interazioni quotidiane, il film costruisce un ritratto intimo e sfaccettato di Oscar Grant, interpretato con straordinaria sensibilità da Michael B. Jordan. Questa scelta rende l’inevitabile finale ancora più insopportabile. Fruitvale Station è un esempio lampante di come il cinema indipendente possa affrontare temi di giustizia sociale con un impatto emotivo che nessuna notizia o documentario potrebbe mai eguagliare. È un film che non urla la sua rabbia, ma la fa crescere silenziosamente nello spettatore, lasciando un segno indelebile.

The Class (Entre les murs)

Un anno scolastico in una classe di una scuola media di un quartiere multietnico di Parigi. Il professor François Marin e i suoi studenti adolescenti si confrontano, si scontrano e dialogano, creando un microcosmo che riflette le tensioni, le speranze e le contraddizioni della società francese contemporanea.

Vincitore della Palma d’Oro a Cannes, il film di Laurent Cantet è un esperimento di realismo quasi senza precedenti. Basato sul libro autobiografico dell’insegnante e protagonista François Bégaudeau, il film è stato girato con veri studenti che improvvisano le loro reazioni e i loro dialoghi all’interno di una struttura narrativa predefinita. Il risultato è un’opera di un’autenticità sbalorditiva, che cattura la dinamica caotica, frustrante e a tratti esaltante di un’aula scolastica. Entre les murs non è un film a tesi; non offre soluzioni né eroi. È un’osservazione paziente e complessa del linguaggio come strumento di potere, di inclusione e di esclusione, e della scuola come laboratorio in cui si forgia, con fatica, il concetto stesso di cittadinanza.

No

Cile, 1988. Sotto la pressione internazionale, il dittatore Augusto Pinochet è costretto a indire un plebiscito sul suo futuro al potere. I leader dell’opposizione ingaggiano un giovane e brillante pubblicitario, René Saavedra, per guidare la campagna per il “No”. René, contro il parere dei suoi stessi committenti, decide di applicare le tecniche del marketing consumistico per vendere un’idea di futuro e di felicità, invece di concentrarsi sugli orrori del passato.

Il film di Pablo Larraín è una riflessione acuta e ironica sul potere delle immagini e sulla politica nell’era dei mass media. Girato con telecamere U-matic dell’epoca per fondere perfettamente il materiale di finzione con i filmati d’archivio, No ha un’estetica unica che conferisce al racconto un’incredibile sensazione di autenticità. Gael García Bernal è perfetto nel ruolo del pubblicitario apolitico che si trova a plasmare il destino di una nazione. Il film esplora il paradosso di come le stesse tecniche usate per vendere bibite gassate possano essere impiegate per rovesciare una dittatura, sollevando domande complesse sul rapporto tra democrazia, consumismo e spettacolo.

The Rider

Brady, un giovane cowboy e astro nascente del rodeo, subisce un grave infortunio alla testa che pone fine alla sua carriera. Tornato a casa nella riserva di Pine Ridge, in South Dakota, deve confrontarsi con una nuova realtà e cercare un nuovo scopo nella vita, combattendo contro la sensazione di aver perso la propria identità.

Il film di Chloé Zhao è un’opera di una bellezza e di una sensibilità rare, un perfetto esempio di docu-fiction. Il protagonista, Brady Jandreau, e gran parte del cast interpretano versioni romanzate di se stessi, portando sullo schermo le loro vere esperienze, le loro ferite e il loro mondo. Questa fusione tra realtà e finzione crea un’intimità e un’autenticità straordinarie. Zhao cattura i paesaggi mozzafiato del West americano con uno sguardo lirico, ma il suo vero interesse è il paesaggio interiore di Brady. The Rider è una meditazione struggente sulla mascolinità, sull’identità e sulla difficile ricerca di un nuovo inizio quando il sogno di una vita viene infranto. È un poema visivo che onora la dignità dei suoi personaggi senza mai cadere nel sentimentalismo.

Control

La storia di Ian Curtis, enigmatico e tormentato frontman della band post-punk Joy Division. Il film segue la sua vita a Macclesfield, il suo matrimonio precoce, la formazione della band, la sua lotta con l’epilessia e una relazione extraconiugale, fino al suo suicidio alla vigilia del primo tour americano della band, all’età di 23 anni.

Il debutto alla regia del celebre fotografo Anton Corbijn è un biopic di una bellezza austera e malinconica. Girato in un bianco e nero granuloso che evoca le iconiche fotografie di Corbijn stesso, Control cattura perfettamente l’atmosfera grigia e opprimente della Manchester di fine anni ’70. Basato sulle memorie della vedova di Curtis, Deborah, il film si concentra più sull’uomo che sul mito, esplorando il conflitto interiore di un artista schiacciato dal peso della fama, della malattia e delle responsabilità. Sam Riley offre una performance mimetica e straordinaria, incarnando la gestualità spettrale e la voce profonda di Curtis. È un ritratto intimo e rispettoso, che evita la mitizzazione per restituirci la tragica umanità di un’icona.

Crumb

Un ritratto intimo e senza filtri del leggendario fumettista underground Robert Crumb. Il documentario esplora non solo la sua arte controversa e le sue ossessioni sessuali, ma si addentra anche nella sua complessa e tormentata storia familiare, intervistando i suoi due fratelli, entrambi artisti di talento ma schiacciati da gravi disturbi mentali.

Il documentario di Terry Zwigoff è una delle più profonde e inquietanti esplorazioni della psiche di un artista mai realizzate. Girato nell’arco di nove anni, Crumb va ben oltre il semplice ritratto, diventando un’indagine sulle radici della creatività e della nevrosi nell’America del dopoguerra. Il film non teme di mostrare gli aspetti più sgradevoli e controversi dell’opera e della personalità di Crumb, ma lo fa con un’onestà che genera una forma di empatia disturbante. L’incontro con i fratelli Charles e Maxon è straziante e rivelatore, suggerendo come la stessa fonte di disagio che ha distrutto loro, in Robert si sia trasformata, per una sorta di miracolo oscuro, in genio artistico. È un’opera imprescindibile sulla famiglia, la follia e l’arte come disperato meccanismo di sopravvivenza.

Grey Gardens

I fratelli Maysles puntano la loro telecamera su “Big Edie” e “Little Edie” Beale, zia e cugina di Jacqueline Kennedy Onassis. Le due donne, ex-socialite dell’alta società, vivono in un isolamento autoimposto nella loro fatiscente villa di East Hampton, circondate da gatti, spazzatura e ricordi di un passato glorioso.

Grey Gardens è un capolavoro del cinema diretto e un documento umano di una potenza sconcertante. Albert e David Maysles catturano con un’intimità quasi imbarazzante la relazione simbiotica e conflittuale tra madre e figlia, un mondo a parte fatto di recriminazioni, canzoni, danze e dialoghi surreali. Il film solleva complesse questioni etiche sul ruolo del documentarista e sulla linea sottile tra osservazione ed sfruttamento. Tuttavia, la sua forza risiede nella straordinaria personalità delle due Edie, che si esibiscono per la telecamera trasformando la loro decadenza in una forma d’arte eccentrica e indimenticabile. È un ritratto affascinante e malinconico della memoria, dell’illusione e della tenacia con cui ci si aggrappa alla propria identità.

The Motorcycle Diaries

Nel 1952, due giovani studenti argentini, Ernesto Guevara e Alberto Granado, partono per un viaggio in motocicletta attraverso il Sud America. Quella che inizia come un’avventura spensierata si trasforma gradualmente in un’esperienza formativa che apre gli occhi di Guevara sulle ingiustizie sociali e sulla povertà del continente, piantando i semi della sua futura coscienza rivoluzionaria.

Diretto da Walter Salles, The Motorcycle Diaries è un road movie lirico e toccante che cattura un momento di trasformazione cruciale. Basato sui diari dei veri protagonisti, il film evita l’agiografia politica per concentrarsi sul viaggio umano e personale. La fotografia magnifica esalta la bellezza e la vastità dei paesaggi sudamericani, che diventano uno specchio dell’evoluzione interiore dei personaggi. Gael García Bernal e Rodrigo de la Serna hanno una chimica straordinaria, che rende credibile e commovente la loro amicizia. Il film è un delicato racconto di formazione che mostra come l’incontro con la realtà possa cambiare il corso di una vita, trasformando un giovane medico in un’icona del XX secolo.

Still Mine

Craig Morrison, un anziano e caparbio agricoltore del New Brunswick, decide di costruire una nuova casa più piccola e adatta per la moglie Irene, la cui salute sta peggiorando. Nonostante la sua esperienza come costruttore, si scontra con un muro di burocrazia e ispettori governativi che minacciano di fermare il suo progetto e persino di mandarlo in prigione.

Still Mine è un film piccolo e prezioso, un dramma silenzioso e profondamente commovente sulla dignità, l’amore e la lotta contro un sistema insensato. James Cromwell offre una delle migliori interpretazioni della sua carriera, incarnando con una grazia stoica la determinazione di un uomo che combatte non per capriccio, ma per onorare una promessa fatta alla donna che ama da una vita. Il film, diretto da Michael McGowan, è un ritratto delicato della vecchiaia e di un legame coniugale che ha resistito alla prova del tempo. È una storia vera che celebra la resilienza individuale e il valore del lavoro manuale in un mondo sempre più regolamentato e impersonale.

Infinitely Polar Bear

Boston, anni ’70. Cam Stuart, un padre affetto da disturbo bipolare, si ritrova a dover badare da solo alle sue due giovani figlie dopo che la moglie Maggie si trasferisce a New York per studiare. Tra alti euforici e bassi depressivi, Cam cerca di creare un ambiente amorevole e stabile per le bambine, in un modo caotico e del tutto non convenzionale.

Ispirato all’infanzia della regista Maya Forbes, Infinitely Polar Bear è un film agrodolce e pieno di cuore che affronta il tema della malattia mentale con sensibilità e umorismo. Mark Ruffalo è straordinario nel ruolo di Cam, un personaggio complesso che è allo stesso tempo esasperante e irresistibilmente affascinante. Il film riesce a bilanciare i momenti di commedia con la dura realtà di una famiglia che lotta per rimanere unita. È un ritratto onesto e non giudicante, che celebra l’amore familiare come forza capace di superare anche le sfide più grandi, mostrando come la normalità sia un concetto relativo e spesso sopravvalutato.

Copia Originale (Can You Ever Forgive Me?)

New York, inizio anni ’90. Lee Israel, una biografa un tempo apprezzata, si trova al verde e incapace di trovare lavoro. Per sbarcare il lunario, inizia a falsificare lettere di celebrità letterarie defunte, scoprendo un talento inaspettato per l’inganno. Con l’aiuto del suo edonista e altrettanto disperato amico Jack Hock, trasforma la sua frode in un’attività redditizia.

Diretto da Marielle Heller, Copia Originale è un ritratto malinconico e arguto di solitudine, fallimento e amicizia. Melissa McCarthy abbandona i suoi soliti ruoli comici per offrire una performance straordinaria, misurata e profondamente umana, nel ruolo di una donna acida e misantropa che trova una strana forma di riscatto creativo nella falsificazione. Il film è una riflessione intelligente sul valore dell’autenticità e sulla disperazione che può portare a compromessi morali. La chimica tra McCarthy e Richard E. Grant (nominato all’Oscar per il suo ruolo) è il cuore pulsante di un film che è tanto divertente quanto commovente, un piccolo gioiello sulla vita ai margini del mondo letterario.

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Immagine di Fabio Del Greco

Fabio Del Greco

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