Roma. Il nome stesso evoca un immaginario potente, scolpito nella coscienza collettiva da decenni di grande cinema. Pensiamo ad Audrey Hepburn in Vespa in Vacanze Romane, un’icona di spensierata eleganza che ha definito la città per generazioni. Pensiamo alla bellezza statuaria di Anita Ekberg che si immerge nella Fontana di Trevi ne La Dolce Vita, un’immagine che ha fuso per sempre la città con un’idea di glamour edonistico e decadente. Queste pellicole, capolavori indiscutibili, hanno costruito la Roma da cartolina, un set a cielo aperto magnifico e universale, ma inevitabilmente parziale.
Questo non è un viaggio in quella Roma. Questa guida volta deliberatamente le spalle alla “Hollywood sul Tevere” per avventurarsi in un territorio più oscuro, complesso e vitale. È un’esplorazione della città attraverso lo sguardo di registi che non l’hanno usata come sfondo, ma l’hanno interrogata come protagonista. È la Roma delle borgate feroci di Pasolini, delle geometrie alienanti dell’EUR di Antonioni, delle strade insanguinate del poliziottesco.
Il vero carattere cinematografico di Roma non risiede nella maestosità del Colosseo o nella grazia di Piazza Navona, ma nello sguardo inflessibile di un cinema indipendente e d’autore che ha avuto il coraggio di filmarne le fratture sociali, le tensioni politiche e le ferite nascoste. Questo cinema ha creato una contro-narrazione essenziale, un racconto alternativo che smantella il mito per rivelare la verità cruda, contraddittoria e infinitamente più affascinante della Città Eterna.
Ecco una selezione curata di film indipendenti che incarnano perfettamente l’anima complessa e contraddittoria di Roma:
Roma città aperta (1945)
Girato tra le macerie ancora calde della città appena liberata, questo film è l’atto di nascita del Neorealismo. Roberto Rossellini racconta la lotta della Resistenza romana contro l’occupazione nazifascista, intrecciando le vite di un ingegnere comunista, un prete coraggioso e una donna del popolo, la Pina. La loro battaglia per la libertà diventa il simbolo della rinascita di un’intera nazione.
Capolavoro assoluto e opera-simbolo di una nuova era cinematografica, Roma città aperta non si limita a raccontare la Storia: la cattura nell’istante stesso in cui accade. Rossellini, con mezzi di fortuna e una pellicola reperita a fatica, porta la macchina da presa nelle strade vere, trasformando luoghi come Via Raimondo Montecuccoli nel Prenestino nel teatro di una tragedia reale. La celebre, straziante corsa di Anna Magnani verso il camion che porta via il suo uomo non è solo una scena iconica; è il cinema che si fa testimonianza, urlo, corpo. Rossellini spoglia Roma di ogni retorica monumentale per mostrarla come una città ferita, un organismo vivente fatto di persone comuni elevate a eroi dalla necessità della Storia.
Ladri di biciclette (1948)
Nella Roma del dopoguerra, un attacchino disoccupato, Antonio Ricci, ottiene un lavoro per cui è indispensabile una bicicletta. Quando questa gli viene rubata il primo giorno, inizia una disperata ricerca per le strade della città insieme al suo figlioletto Bruno. Quella che sembra una piccola disavventura si trasforma in un’odissea straziante attraverso la miseria e l’indifferenza di una società in ginocchio.
Vittorio De Sica, su sceneggiatura di Cesare Zavattini, realizza un affresco impietoso della Roma postbellica. La città non è un fondale pittoresco, ma un labirinto di disperazione. Il viaggio di Antonio e Bruno ci porta dal quartiere popolare di Val Melaina al caotico mercato di Porta Portese, un formicaio umano dove la bicicletta rubata è solo un oggetto tra mille, impossibile da ritrovare. De Sica mostra una città in cui le istituzioni sono assenti o impotenti e la solidarietà è un lusso che nessuno può permettersi. La bicicletta diventa il simbolo della dignità perduta e della speranza irraggiungibile, in un capolavoro di umanesimo che ha segnato per sempre la storia del cinema.
Umberto D. (1952)
Umberto Domenico Ferrari è un anziano funzionario pubblico in pensione che non riesce a sopravvivere con la sua misera pensione. Minacciato di sfratto dalla sua padrona di casa, vaga per Roma con il suo unico amico, il cagnolino Flike, cercando un modo per mantenere la propria dignità in un mondo che sembra averlo dimenticato. La sua lotta solitaria è un atto d’accusa contro l’indifferenza della società.
Considerato da molti il vertice del Neorealismo, Umberto D. è un’esplorazione incredibilmente toccante della solitudine e dell’emarginazione. De Sica usa Roma non come una città di meraviglie, ma come uno spazio urbano freddo e impersonale che amplifica l’isolamento del suo protagonista. La lotta di Umberto per non cedere alla tentazione di chiedere l’elemosina, la sua meticolosa cura del proprio aspetto nonostante la povertà, sono gesti disperati per aggrapparsi a un’identità che la città minaccia di cancellare. Il rapporto con Flike, tenero e straziante, diventa l’unico baluardo di affetto contro la crudeltà del mondo.
Lo sceicco bianco (1952)
Due sposini della provincia arrivano a Roma per la luna di miele. Mentre il marito ha un rigido programma di visite ai parenti e un’udienza papale, la moglie, ossessionata dai fotoromanzi, fugge per incontrare il suo eroe, lo “Sceicco Bianco”, scoprendo la realtà disillusa che si cela dietro la fantasia.
Nel suo primo film da solista, Fellini usa Roma come palcoscenico per lo scontro tra l’ingenuità provinciale e la disillusione metropolitana. La città non è la capitale monumentale, ma un luogo di miti a buon mercato e sogni prefabbricati, dal mondo dei fotoromanzi alle rigide convenzioni della famiglia piccolo-borghese. È uno sguardo satirico su una società che preferisce la fantasia alla realtà, un tema che diventerà centrale in tutta l’opera di Fellini.
Le notti di Cabiria (1957)
Cabiria è una prostituta tenace ed eternamente ottimista che vaga per le notti di Roma sognando il vero amore. Nonostante venga costantemente ingannata e umiliata, non perde mai la sua fede fanciullesca in un futuro migliore, rialzandosi dopo ogni caduta con un sorriso straziante.
Fellini torna alla periferia romana, ma con un tono diverso dal neorealismo. La Roma di Cabiria è un mondo di emarginati, un “demi-monde” dove sacro e profano convivono. Dalle squallide borgate ai lussuosi locali notturni di Via Veneto, il film dipinge un ritratto di una città dai forti contrasti. La passeggiata finale di Cabiria, dove trova la forza di sorridere di nuovo in mezzo a un gruppo di giovani, è un inno a uno spirito umano indistruttibile che trova la vita anche negli angoli più desolati della metropoli.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
In questo video ti spiego la nostra visione
I soliti ignoti (1958)
Un gruppo di goffi ladruncoli della classe operaia romana tenta di realizzare un colpo grosso: svaligiare un banco dei pegni. Guidata da uno scassinatore in pensione, questa sgangherata banda di “soliti ignoti” si dimostra irrimediabilmente inetta, trasformando il suo ambizioso piano in una serie di esilaranti fallimenti.
Il capolavoro di Mario Monicelli è considerato il capostipite della “Commedia all’italiana”. È una brillante parodia sia dei film di rapina americani sia del neorealismo italiano, che ritrae la povertà della Roma del dopoguerra non con dramma tragico, ma con umorismo cinico e profonda umanità. I quartieri popolari della città fanno da sfondo a una storia sull’arte di arrangiarsi, dove il sogno del grande colpo si scontra inevitabilmente con una realtà molto più modesta: un piatto di pasta e ceci.
Un maledetto imbroglio (1959)
In un elegante palazzo di Via Merulana, un furto di gioielli e un brutale omicidio sconvolgono la quiete borghese. Il commissario Ingravallo, un uomo disilluso e filosofico, è incaricato delle indagini. Scavando nelle vite apparentemente rispettabili degli inquilini, scopre un mondo sotterraneo di segreti, bugie e passioni nascoste, dove nessuno è veramente innocente.
Tratto dal romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda, il film di Pietro Germi è un noir atipico e un’acuta indagine sociale. Roma non è la città solare della commedia, ma un luogo cupo e claustrofobico. L’intero film si svolge quasi interamente all’interno del palazzo, che diventa un microcosmo della società romana, un palcoscenico dove si recita la commedia delle apparenze. Germi usa la struttura del giallo per compiere una vera e propria autopsia della morale borghese, rivelando l’ipocrisia e la corruzione che si celano dietro le facciate perbene.
Accattone (1961)
Vittorio, detto “Accattone“, è un magnaccia delle borgate romane che vive sfruttando la sua prostituta, Maddalena. Quando lei finisce in prigione, Accattone si ritrova senza mezzi e sprofonda in una crisi esistenziale. Tenta di redimersi attraverso l’amore per la pura Stella e un lavoro onesto, ma il suo mondo, fatto di violenza e miseria, lo risucchierà in un vortice tragico.
L’esordio alla regia di Pier Paolo Pasolini è un’opera folgorante e brutale, un pugno nello stomaco che porta sullo schermo il sottoproletariato delle periferie romane con una forza mai vista prima. Pasolini filma le borgate del Pigneto e di Testaccio non con distacco documentaristico, ma con uno sguardo che mescola crudo realismo e sacralità. La vita di Accattone, un “ragazzo di vita” senza speranza, viene elevata a passione cristologica, sottolineata dall’uso straniante della musica di Bach. La Roma di Pasolini è un mondo arcaico e pre-industriale, un universo con le sue leggi e la sua lingua, destinato a essere spazzato via dal conformismo borghese.
L’eclisse (1962)
Vittoria, una giovane traduttrice, lascia il suo compagno e inizia una relazione incerta con Piero, un dinamico e cinico agente di borsa. La loro storia si svolge in una Roma quasi irriconoscibile: quella del moderno e monumentale quartiere EUR. I loro incontri sono segnati da un’incapacità di comunicare, un vuoto emotivo che sembra riflettersi negli spazi desolati che li circondano.
Capitolo conclusivo della “trilogia dell’incomunicabilità” di Michelangelo Antonioni, L’eclisse è un capolavoro di cinema esistenziale. Antonioni trasforma l’architettura razionalista e metafisica dell’EUR nel vero protagonista del film. Le piazze vuote, i palazzi imponenti e le linee geometriche non sono un semplice sfondo, ma la manifestazione visiva dell’alienazione e del vuoto interiore dei personaggi. La celebre sequenza finale, in cui la macchina da presa torna sui luoghi degli incontri mancati, mostrando solo oggetti e dettagli urbani, è la dichiarazione definitiva di come il mondo moderno e le sue geometrie abbiano “eclissato” i sentimenti umani.
Il sorpasso (1962)
In una Roma deserta per il Ferragosto, il quarantenne esuberante e superficiale Bruno Cortona trascina il timido studente di legge Roberto Mariani in un viaggio improvvisato a bordo della sua Lancia Aurelia convertibile. Quella che inizia come un’avventura spensierata lungo la costa tirrenica si trasforma in un’acuta e amara riflessione sull’Italia del boom economico.
Il capolavoro di Dino Risi è molto più di una commedia: è un road movie esistenziale che cattura lo spirito di un’intera epoca. Il viaggio, che parte da Roma per allontanarsene e poi farvi un tragico ritorno, è una metafora perfetta di una società che corre a tutta velocità verso un benessere materiale che nasconde un profondo vuoto morale. Bruno, con la sua vitalità cialtrona, incarna le illusioni e le contraddizioni di un Paese che ha scambiato il consumismo per la felicità. La Roma iniziale, vuota e silenziosa, è il punto di partenza per una fuga che si rivelerà impossibile, conclusa da un finale tanto improvviso quanto devastante.
Mamma Roma (1962)
Mamma Roma, un’ex prostituta interpretata da una monumentale Anna Magnani, cerca di costruirsi una nuova vita borghese per amore del figlio adolescente, Ettore. Abbandonata la strada, si trasferisce in un moderno palazzo dell’INA-Casa nel quartiere Quadraro, sognando un futuro rispettabile per il ragazzo. Ma il suo passato, incarnato dal suo ex protettore, tornerà a perseguitarla, mandando in frantumi il suo sogno di redenzione.
Secondo film di Pasolini, Mamma Roma continua l’esplorazione del sottoproletariato, ma con una carica tragica ancora più intensa. La nuova architettura della periferia in espansione, con i suoi palazzoni anonimi, diventa il simbolo di un’integrazione sociale desiderata ma irraggiungibile. Mamma Roma cerca disperatamente di assimilare un modello piccolo-borghese che non le appartiene, ma la sua vitalità plebea e il suo passato non possono essere cancellati. Il tragico destino del figlio, la cui morte è filmata con un esplicito riferimento al Cristo morto di Mantegna, eleva la storia a una potente allegoria sulla sconfitta degli ultimi.
I mostri (1963)
Una raccolta di venti brevi vignette satiriche che mettono alla berlina senza pietà i vizi, le ipocrisie e la bruttezza morale della società italiana durante il miracolo economico. Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi interpretano una galleria di personaggi grotteschi, da politici corrotti a padri violenti e mariti codardi.
Dino Risi crea una “commedia umana” in cui Roma funge da palcoscenico per una sfilata di “mostri” moderni. Il film è una critica feroce e esilarante di una nazione che, nella sua corsa verso la modernità e la ricchezza, sembra aver perso la bussola morale. Ogni episodio è un’istantanea acuta e cinica che, nel loro insieme, compongono un ritratto potente e ancora attuale del lato oscuro del boom italiano.
La decima vittima (1965)
In un futuristico XXI secolo, la guerra è stata sostituita dalla “Grande Caccia”, un gioco televisivo globale in cui i partecipanti si cacciano e si uccidono a vicenda per fama e fortuna. Una cacciatrice americana arriva a Roma per la sua decima e ultima vittima, un uomo italiano, ma il loro gioco mortale si complica presto a causa di sentimenti inaspettati.
Elio Petri usa Roma, in particolare l’architettura modernista e alienante del quartiere EUR, come scenario perfetto per la sua distopia fantascientifica in stile pop-art. La città diventa un’arena elegante, fredda e mediaticamente satura, dove la vita umana è uno spettacolo. Il film è una satira acuta sulla società dei consumi, sul culto della violenza e sulla battaglia tra i sessi, trasformando la Città Eterna in un cinico e futuristico campo da gioco.
L’uccello dalle piume di cristallo (1970)
Sam Dalmas, uno scrittore americano in crisi creativa a Roma, assiste casualmente al tentato omicidio di una donna in una galleria d’arte. Rimane intrappolato tra le porte a vetri, testimone impotente della scena. Ossessionato da un dettaglio che la sua memoria non riesce a mettere a fuoco, inizia un’indagine personale che lo trascina in una spirale di terrore, perseguitato da un misterioso serial killer.
L’esordio alla regia di Dario Argento è una rivoluzione per il thriller italiano e mondiale. Argento trasforma Roma in un labirinto onirico e terrificante, dove l’architettura moderna e gli spazi asettici delle gallerie d’arte diventano teatri di violenza stilizzata. La città non è più un luogo reale, ma uno spazio mentale, un riflesso della psiche contorta dell’assassino e della percezione fallace del protagonista. La sequenza iniziale è un saggio di regia che usa lo spazio urbano per creare un senso di impotenza e voyeurismo, temi che diventeranno centrali in tutto il suo cinema.
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970)
Un alto e rispettato funzionario di polizia, appena promosso a capo della sezione politica, uccide la sua amante nel suo appartamento. Invece di nascondere le sue tracce, semina deliberatamente indizi che portano a lui. Il suo scopo è dimostrare a se stesso e al sistema che il suo potere lo rende intoccabile, al di sopra di ogni sospetto e della legge stessa.
Capolavoro di Elio Petri e vincitore del Premio Oscar, questo film è un’impietosa allegoria sul potere e sulla sua natura corruttiva. Ambientato in una Roma cupa e opprimente, il film utilizza i luoghi del potere – i commissariati, gli uffici ministeriali – come scenari di un incubo kafkiano. La performance di Gian Maria Volonté è monumentale nel dare corpo all’arroganza e alla nevrosi di un uomo che è al tempo stesso incarnazione e vittima del sistema autoritario che rappresenta. È un’opera fondamentale per comprendere le tensioni e le paranoie dell’Italia degli Anni di Piombo.
Fellini Roma (1972)
Federico Fellini abbandona ogni parvenza di trama per creare un ritratto visionario, caotico e profondamente personale della Città Eterna. Il film è un flusso di coscienza che mescola i ricordi del suo arrivo a Roma da giovane provinciale, scene di vita quotidiana, sequenze documentaristiche sulla costruzione della metropolitana e fantasmagorie surreali, come una sfilata di moda ecclesiastica.
Roma è il tentativo di Fellini di catturare l’essenza inafferrabile della città, non attraverso una narrazione logica, ma attraverso un’immersione totale nel suo “delirio ufficiale”. La città è presentata come un grande ventre materno, un circo a cielo aperto, un bordello, una necropoli. Fellini non filma la Roma dei monumenti, ma quella delle trattorie popolari, dei teatrini di varietà, del Grande Raccordo Anulare percorso di notte da un’orda di motociclisti. È un’opera debordante e magnifica, un atto d’amore per una città che, secondo il regista, può essere compresa solo attraverso il sogno e l’immaginazione.
La polizia incrimina, la legge assolve (1973)
Il commissario Belli, un poliziotto dai metodi spicci e dal forte senso di giustizia, indaga su un traffico internazionale di droga che insanguina le strade di Roma e Genova. Scontrandosi con la lentezza della burocrazia e la corruzione ai piani alti, Belli decide di agire al di fuori delle regole, scatenando una guerra senza quartiere contro la criminalità organizzata.
Diretto da Enzo G. Castellari e interpretato da Franco Nero, questo è uno dei capisaldi del genere “poliziottesco”, che ha dominato il cinema italiano negli anni ’70. Questi film riflettevano il clima di violenza e insicurezza sociale degli Anni di Piombo. Roma, in particolare, diventa un campo di battaglia urbano, teatro di inseguimenti mozzafiato, sparatorie brutali e un pessimismo di fondo verso un sistema giudiziario percepito come debole e inefficace. È un cinema viscerale, d’azione, che racconta una città in preda al caos.
C’eravamo tanto amati (1974)
Il film ripercorre trent’anni di storia italiana, dalla Resistenza agli anni ’70, attraverso la storia di tre amici: Gianni, Antonio e Nicola. Le loro vite, amori, ideali e compromessi si intrecciano e si separano nel corso dei decenni, ruotando tutti attorno alla donna che hanno amato, Luciana.
Ettore Scola crea un affresco epico e malinconico in cui Roma non è solo uno sfondo, ma un testimone vivente delle trasformazioni di un intero paese. Dalle speranze del dopoguerra, simboleggiate da una Roma in bianco e nero, alla città colorata ma disillusa del boom economico, il film utilizza luoghi iconici come la Fontana di Trevi e quartieri popolari come la Garbatella per mappare il viaggio personale e collettivo di una generazione che “voleva cambiare il mondo, ma è stato il mondo a cambiare noi”.
Profondo rosso (1975)
Il pianista jazz inglese Marc Daly, a Roma per lavoro, assiste all’omicidio di una medium. Convinto di aver visto un dettaglio cruciale sulla scena del delitto che però non riesce a ricordare, inizia a indagare insieme a una tenace giornalista, Gianna Brezzi. La sua ricerca della verità lo porterà in un abisso di segreti familiari, traumi infantili e una serie di omicidi sempre più efferati.
Anche se in gran parte girato a Torino, Profondo rosso è l’apoteosi dello stile che Dario Argento ha forgiato a Roma, e rimane un punto di riferimento imprescindibile. È un’opera che trascende il giallo per diventare un racconto gotico sull’orrore che si annida nella memoria. La Roma del film è una città notturna e spettrale, dove piazze barocche e teatri liberty diventano quinte di un incubo. Argento costruisce una tensione magistrale, alternando scene di suspense insostenibile a esplosioni di violenza barocca, il tutto accompagnato dalla leggendaria colonna sonora dei Goblin.
Brutti, sporchi e cattivi (1976)
In una baraccopoli sorta abusivamente nella periferia di Roma, vive la sterminata e mostruosa famiglia di Giacinto Mazzatella, un vecchio guercio e tirannico. L’uomo custodisce gelosamente un milione di lire, frutto di un risarcimento, e non ha alcuna intenzione di condividerlo con la sua avida e grottesca progenie, che a sua volta trama in ogni modo per derubarlo.
Il capolavoro grottesco di Ettore Scola è un ritratto spietato e ferocemente comico del sottoproletariato romano. Se Pasolini nelle borgate trovava una dimensione sacra e tragica, Scola vi trova un inferno laico, un girone dantesco popolato da personaggi mossi solo dagli istinti più bassi: avidità, lussuria, violenza. Il film è una commedia nerissima che demolisce ogni sentimentalismo sulla povertà, mostrando un’umanità regredita a uno stato primitivo, in una lotta per la sopravvivenza che non conosce morale. La baraccopoli, con la Cupola di San Pietro che si staglia ironicamente sullo sfondo, è il palcoscenico di questa farsa crudele e indimenticabile.
Roma a mano armata (1976)
Il commissario Tanzi, un poliziotto duro e violento, combatte la criminalità dilagante a Roma. La sua nemesi è “il Gobbo”, uno spietato criminale che sta seminando il panico in città. La caccia all’uomo di Tanzi si trasforma in una discesa agli inferi, in una Roma rappresentata come una giungla d’asfalto dove la legge del più forte è l’unica che conta.
Diretto da Umberto Lenzi, questo è forse il poliziottesco più emblematico e violento. Interpretato dall’icona del genere Maurizio Merli e da un irriconoscibile Tomas Milian nei panni del Gobbo, il film è un concentrato di azione brutale e nichilismo. La Roma del film è un teatro di guerra urbana, un luogo senza speranza dove la violenza dello Stato e quella della criminalità si specchiano l’una nell’altra. È il ritratto crudo e senza filtri di una città e di un Paese sull’orlo del baratro.
Una giornata particolare (1977)
Il 6 maggio 1938, giorno della visita di Hitler a Roma, una casalinga sola e un annunciatore radiofonico omosessuale perseguitato si incontrano casualmente nel loro condominio quasi deserto. Mentre l’intera città celebra la parata fascista, queste due anime emarginate condividono poche ore di inaspettata intimità e comprensione.
Scola svuota Roma della sua grandiosità monumentale per concentrarsi su un unico spazio domestico, il Palazzo Federici, che diventa un microcosmo della società fascista. L’edificio stesso, con il suo cortile che funge da panopticon, è un protagonista, un simbolo di controllo sociale e conformismo forzato. Il costante frastuono della radiocronaca della parata funge da colonna sonora opprimente, evidenziando l’isolamento dei due personaggi e creando una potente contro-narrazione alla storia ufficiale celebrata all’esterno.
Un borghese piccolo piccolo (1977)
Giovanni Vivaldi, un umile e ossequioso impiegato ministeriale prossimo alla pensione, è disposto a tutto per assicurare un posto di lavoro simile al suo amato figlio, persino ad affiliarsi a una loggia massonica. Ma quando il figlio viene tragicamente ucciso da un proiettile vagante durante una rapina, l'”uomo piccolo piccolo” si trasforma in uno spietato angelo della vendetta.
Mario Monicelli dirige un film che inizia come una commedia grottesca sulla burocrazia e l’arrampicata sociale italiana e prende una svolta scioccante in un thriller oscuro e spietato. Il film offre un ritratto desolante di Roma, lontano dal fascino del centro, concentrandosi sulle periferie anonime e sul vuoto morale della classe media. La magistrale interpretazione di Alberto Sordi cattura la terrificante trasformazione di un uomo comune in un mostro, rendendo questa una critica potente e inquietante di una società dove la giustizia è assente e il dolore si trasforma in violenza brutale.
La terrazza (1980)
Un gruppo di intellettuali di sinistra invecchiati — uno sceneggiatore, un produttore, un giornalista, un politico — si riunisce su una terrazza romana per una cena. Nel corso della serata e in una serie di flashback, affrontano i loro fallimenti personali, le crisi creative e la disillusione politica.
In questo film da camera di Ettore Scola, la terrazza romana diventa una gabbia dorata, un palcoscenico isolato dove un’intera classe intellettuale mette in scena il proprio funerale. Al di sopra della città reale, questi personaggi sono scollegati dalla realtà sociale che pretendono di rappresentare. Roma, visibile solo come sfondo panoramico, simboleggia il mondo con cui hanno perso il contatto, rendendo la terrazza una potente metafora della crisi autoreferenziale e sterile della sinistra italiana alla fine degli anni ’70.
Tenebre (1982)
Peter Neal, uno scrittore americano di romanzi horror, arriva a Roma per promuovere il suo ultimo libro, “Tenebrae. Poco dopo il suo arrivo, una serie di brutali omicidi inizia a insanguinare la città, con le vittime uccise secondo le modalità descritte nel suo romanzo. Neal si ritrova così coinvolto in un gioco perverso e mortale, cercando di scoprire l’identità del killer.
Con Tenebre, Dario Argento compie una scelta estetica radicale: abbandona le atmosfere cupe e gotiche dei suoi film precedenti per ambientare il suo giallo in una Roma accecante, moderna e iperrealista. Girato in gran parte nel quartiere EUR, il film è dominato da una luce fredda e da un’architettura razionalista che crea un senso di alienazione e disagio. Argento vuole dimostrare che l’orrore non si nasconde solo nel buio, ma può esplodere in pieno giorno, negli spazi più asettici e ordinati. La città diventa un labirinto di superfici bianche e specchianti, un luogo dove le tenebre sono quelle dell’anima.
Amore tossico (1983)
Un gruppo di giovani eroinomani di Ostia vive le proprie giornate in una routine disperata fatta di espedienti per procurarsi la dose, piccoli furti e relazioni instabili. Cesare, Michela e i loro amici si muovono in un paesaggio desolato, tra il litorale e la periferia romana, intrappolati in un presente senza futuro e in un amore che è solo un altro nome della dipendenza.
L’opera di culto di Claudio Caligari è un film sconvolgente, un pugno nello stomaco che racconta la tragedia della tossicodipendenza con un realismo quasi documentaristico. Erede diretto della lezione pasoliniana, Caligari sceglie di far interpretare il film a veri tossicodipendenti, cancellando il confine tra finzione e realtà. La sua Ostia è un luogo terminale, un non-luogo di marginalità assoluta. Il linguaggio crudo, il gergo della strada e la rappresentazione senza filtri della dipendenza fanno di Amore tossico un’opera unica e straziante, il ritratto indimenticabile di una generazione perduta.
The Belly of an Architect (1987)
Stourley Kracklite, un architetto americano, arriva a Roma con la sua giovane moglie per curare una mostra dedicata all’architetto visionario del XVIII secolo Étienne-Louis Boullée. Mentre si immerge nel progetto, Kracklite sviluppa un’ossessione per il proprio corpo, in particolare per il suo ventre, tormentato da dolori lancinanti. La sua decadenza fisica e psicologica si specchia nella grandiosità monumentale e allo stesso tempo fatiscente della Città Eterna.
Il film di Peter Greenaway è un’opera visivamente sontuosa e intellettualmente complessa. Il regista inglese usa l’architettura di Roma – dal Pantheon al Vittoriano – come una grandiosa metafora del corpo umano, della sua bellezza e della sua inevitabile corruzione. La città diventa un palcoscenico allegorico dove la storia dell’arte, la geometria e la biologia si intrecciano. Il ventre dell’architetto, che potrebbe contenere una nuova vita o un male incurabile, diventa il centro simbolico di un film che riflette sulla creatività, la mortalità e il peso della Storia.
Caro Diario (1993)
Diviso in tre capitoli, il film è un diario autobiografico in cui Nanni Moretti interpreta se stesso. Nel primo, “In Vespa”, il regista vaga per una Roma semi-deserta d’agosto, commentando con la sua inconfondibile ironia case, quartieri e abitudini dei romani. Il secondo, “Isole”, lo vede in viaggio alle Eolie. Il terzo, “Medici”, racconta la sua reale odissea sanitaria alla scoperta di un tumore.
Il primo capitolo di Caro Diario è una delle più belle e originali dichiarazioni d’amore mai fatte a Roma. Moretti evita il centro monumentale e turistico per esplorare le zone meno conosciute, dalla Garbatella a Casal Palocco, creando una mappa della città intima e personale. Il suo girovagare in Vespa è un’esperienza meditativa, un modo per riappropriarsi dello spazio urbano e osservarlo con uno sguardo nuovo, critico ma profondamente affettuoso. È un ritratto unico di Roma, lontano da ogni cliché, che ne cattura la bellezza casuale e le contraddizioni quotidiane.
Il Divo (2008)
Un ritratto grottesco, pop e folgorante di Giulio Andreotti, una delle figure più potenti ed enigmatiche della storia politica italiana. Il film di Paolo Sorrentino si concentra sul periodo del suo settimo governo, all’inizio degli anni ’90, ricostruendo attraverso uno stile visionario la sua rete di potere, i suoi rapporti con la mafia, i delitti e i misteri che hanno segnato la Prima Repubblica.
Sorrentino trasforma la politica italiana in un’opera barocca, e Roma nel suo teatro gelido e spettrale. I palazzi del potere, i corridoi del Parlamento, le chiese cupe diventano le quinte di una fantasmagoria in cui si muovono maschere inquietanti. La città non è un luogo vivo, ma uno scenario monumentale e impassibile dove si consumano trame oscure. Il Divo è un’analisi spietata del potere, che usa uno stile visivo iperbolico per raccontare il vuoto e la solitudine di un uomo che è diventato un’impenetrabile icona del mistero italiano.
La pecora nera (2010)
Nicola è cresciuto in un manicomio, “l’istituto dei cento cancelli”, dove i matti sono protetti dal mondo e il mondo è protetto dai matti. Attraverso i suoi ricordi, che si intrecciano con il presente, racconta storie di un’umanità marginalizzata, sospesa tra follia e una lucidità disarmante. La sua vita è un racconto corale che mette in discussione i confini tra normalità e pazzia.
Tratto dai suoi spettacoli teatrali, il film di Ascanio Celestini è un’opera poetica e surreale che esplora il mondo della malattia mentale. Il manicomio, situato ai margini di Roma, diventa un microcosmo dove le logiche del mondo esterno vengono ribaltate. Celestini, con il suo stile affabulatorio e la sua profonda empatia, dà voce a chi non ne ha, mostrando come dietro l’etichetta di “follia” si nascondano storie di dolore, amore e una sorprendente saggezza. È un film che usa la periferia fisica ed esistenziale per una riflessione universale sulla condizione umana.
La Grande Bellezza (2013)
Jep Gambardella, un giornalista di costume e critico teatrale, è un’icona della mondanità romana. Dopo il suo 65° compleanno, una crescente insoddisfazione lo spinge a vagare per una Roma magnifica e spettrale, tra feste decadenti su terrazze con vista sui Fori, incontri con personaggi grotteschi e improvvise, folgoranti epifanie di bellezza. La sua è una ricerca malinconica di un senso perduto.
Il film di Paolo Sorrentino, premiato con l’Oscar, è un omaggio esplicito alla Roma di Fellini, ma riletto con la sensibilità disincantata del nuovo millennio. La città è una protagonista assoluta, un guscio di una bellezza struggente che nasconde un vuoto abissale. Sorrentino contrappone la magnificenza dei palazzi storici, dei giardini segreti e delle rovine antiche alla superficialità e al cinismo dei suoi abitanti. È il ritratto di una città e di un’umanità perse “tra i vizi e la vita dissoluta alla ricerca di una bellezza smarrita”.
Sacro GRA (2013)
Un documentario che esplora il mondo sconosciuto che pulsa lungo il Grande Raccordo Anulare (GRA) di Roma, la più grande autostrada urbana d’Italia. Lontano dal centro monumentale, il regista Gianfranco Rosi scopre un’umanità sorprendente e invisibile: un nobile decaduto che vive in un monolocale, un pescatore di anguille sul Tevere, un botanico che studia le palme infestate da un parassita.
Primo documentario a vincere il Leone d’Oro a Venezia, Sacro GRA rivela una Roma che nessuno aveva mai raccontato. Il Raccordo Anulare non è il soggetto del film, ma il filo che unisce storie di marginalità, solitudine e inaspettata poesia. Rosi trasforma un “non-luogo” per eccellenza in un territorio ricco di vita e di racconti surreali. È uno sguardo antropologico che scopre un universo parallelo, un’altra città che esiste ai margini di quella conosciuta, dimostrando che le storie più incredibili si trovano spesso dove nessuno si ferma a guardare.
Lo chiamavano Jeeg Robot (2015)
Enzo Ceccotti è un piccolo delinquente solitario che vive nella borgata di Tor Bella Monaca. Un giorno, per sfuggire alla polizia, si tuffa nel Tevere e finisce accidentalmente in un barile di materiale radioattivo. Ne esce con una forza sovrumana. Inizialmente usa i suoi nuovi poteri per scopi egoistici, ma l’incontro con Alessia, una ragazza fragile ossessionata dall’anime giapponese Jeeg Robot, lo spingerà a diventare l’eroe di cui Roma ha bisogno.
Il film di Gabriele Mainetti è una vera e propria rivoluzione per il cinema italiano, capace di innestare il genere del cinecomic americano nel tessuto sociale della periferia romana. Lo chiamavano Jeeg Robot non scimmiotta i modelli hollywoodiani, ma li reinterpreta in chiave locale, cruda e autentica. Tor Bella Monaca, con le sue torri di cemento e la sua umanità dolente, diventa un’ambientazione credibile e potente per la nascita di un supereroe riluttante e profondamente umano. È un’opera innovativa che unisce azione, dramma e cultura pop in modo magistrale.
Non essere cattivo (2015)
Ostia, anni ’90. Cesare e Vittorio sono amici da sempre, “fratelli di strada”. La loro vita è un vortice di notti in discoteca, macchine veloci, alcool, droghe sintetiche e spaccio. Vittorio, però, stanco di quella vita, cerca di salvarsi, trovando un lavoro e allontanandosi da Cesare. Ma il legame tra i due è troppo forte, e il richiamo di quel mondo autodistruttivo è una tentazione costante.
Testamento spirituale di Claudio Caligari, completato postumo grazie all’impegno di Valerio Mastandrea, Non essere cattivo è il degno erede di Amore tossico e della poetica pasoliniana. Il film è un racconto potente e commovente sull’amicizia virile, sulla difficoltà di cambiare e sulla periferia come luogo dell’anima e della condanna. Caligari filma Ostia con uno sguardo partecipe e mai giudicante, traendo una poesia cruda e disperata dalla vita ai margini. È un’opera intensa e necessaria, l’ultimo atto di un regista che ha sempre dato voce agli ultimi.
Una visione curata da un regista, non da un algoritmo
In questo video ti spiego la nostra visione


