
Il regista, più volte presente al nostro festival, ci racconta come è nato il documentario “Anna Maria Ortese: Viaggio in Calabria”
Questa è la terza intervista a Matteo Scarfò sul blog di Indiecinema. Probabilmente un record. Il cineasta italiano, che per Pale Blue Dot: A Tale of Two Stargazers aveva ottenuto anche una lusinghiera Menzione Speciale, è stato presente finora con ben quattro opere ad Indiecinema Film Festival, compreso il documentario Anna Maria Ortese: Viaggio in Calabria selezionato per questa QUARTA EDIZIONE. La prima, per inciso, che vede la sottoscritta Michela Aloisi nelle vesti di Direttrice Artistica. Il film in questione verrà presentato oggi, 5 giugno 2025 ore 21, al Circolo ARCI Arcobaleno di Roma. E prima di incontrare in sala l’autore (che verrà accompagnato dalla protagonista Francesca La Scala) abbiamo pensato di conversare un po’ con lui…

Innanzitutto, da dove ti è venuta l’idea di un documentario su Anna Maria Ortese?
L’idea è nata da un’opera teatrale scritta da mio padre Giovanni Scarfò in collaborazione con la scrittrice Angela Bubba, intitolata “La Straniera”, vincitrice del Premio Fersen 2021 per la drammaturgia e andata in scena nel 2019 a Roma e a Vasto con l’attrice Melania Fiore. Nonostante il suo valore letterario e umano, Anna Maria Ortese è ancora così poco raccontata dal cinema e dalla televisione. Questo docufilm prende alcuni spunti dal testo teatrale ma si concentra soprattutto sul viaggio che l’autrice ha fatto in Calabria.
L’attenzione alla fotografia denota un punto di vista che dà fondamentale risalto ed importanza al paesaggio; quanto sono importanti – per questo lavoro – le immagini che mostrano le bellezze di questa terra, la Calabria?
Il paesaggio non è mai sfondo, anzi direi che una delle cose importanti in casi come questi è evitare l’effetto cartolina. Ortese ha viaggiato tantissimo, ha vissuto in molte città, il paesaggio è parte dei suoi percorsi creativi. Mi sembra che alcuni ambienti calabresi abbiano una forza visiva che corrisponde al suo mondo interiore. Le immagini cercano di evocare più che mostrare. La Ortese del nostro docufilm si muove dentro luoghi che rispecchiano le sensazioni della scrittrice e così fanno compiere allo spettatore una sorta di viaggio emozionale.
La musica, la narrazione lenta del tempo di cui la Ortese è testimone, hanno un intento poetico dichiarato o vogliono solo sottolineare la distanza tra quel tempo ed il nostro, che viaggiano a due differenti velocità?
Entrambe le cose, in realtà. C’è certamente un intento poetico, che però non vuole essere decorativo: la lentezza è una scelta di ascolto, di rispetto. Ma è anche un modo per marcare la frattura tra il tempo della concentrazione, della comprensione di ciò che è indifeso – che Ortese coltivava – e il tempo frenetico che ci domina oggi. È come se volessimo rallentare tutto per poterla davvero sentire. La musica aiuta a tessere questo filo emotivo, anche a tenere aperte le numerose ferite del suo passato, come la morte dei fratelli.

Hai unito il documentario, con alcune testimonianze di scrittrici e materiale di repertorio, con la fiction, nel racconto in prima persona della Ortese interpretata da Francesca La Scala; perché questa scelta?
Perché Ortese sfugge alla semplice biografia. Era fondamentale trovare una forma che restituisse non solo la sua vita ma la sua voce, la sua visione. Le testimonianze e i materiali d’archivio ancorano il documentario a una realtà storica e letteraria, ma la fiction – o meglio la rievocazione in prima persona – dà spazio alla sua dimensione più intima e misteriosa. Francesca La Scala ha fatto un lavoro straordinario, riuscendo a incarnare quel pudore e quella radicalità che erano propri di Ortese.
Arrivato alla fine del tuo lavoro, a livello personale, pensi di aver trasmesso nel documentario tutto il tuo pensiero sulla Ortese o di averlo piuttosto arricchito con nuovi elementi, emersi durante la lavorazione?
Inizialmente pensavo di raccontare “la mia Ortese”, quella che avevo conosciuto durante gli studi universitari, che mi aveva aperto un mondo letterario metafisico, poi ho capito che ogni tentativo di definirla la tradisce. Durante la scrittura, le interviste, il montaggio, è emerso un ritratto molto più complesso, più sfumato, e proprio per questo più autentico. Il documentario invita ad approfondire anche quella Ortese che non viene raccontata. Credo che una delle cose più belle che Ortese abbia lasciato è di non pensare di aver capito tutto della realtà, ma di mettersi in ascolto. Anche di chi non ha voce, come gli animali. E poi c’è da cogliere anche nell’invisibile e nell’intangibile.
Michela Aloisi
